Cap. 2
Erano appena le sei del mattino.
Troppo tardi per tornare
a casa ma pur sempre troppo presto persino per andare in ufficio. Il
rapporto
del medico legale sarebbe giunto sulla sua scrivania non prima di
quattro o cinque
ore ancora.
Sentiva la testa scoppiarle e la stanchezza, dovuta al
suo sonno disturbato, l’avrebbe accompagnata per tutto il
corso della giornata.
E quel sogno, così reale eppure sfuggente, così
forte nelle sensazioni che le
aveva lasciato, continuava ad impensierirla. Non aveva voglia di
restare da
sola. Sapeva che altrimenti i suoi pensieri sarebbero inevitabilmente a
quel
sogno, a quel terrore, a quella voce persa nel vento. Per una volta
sentiva il
bisogno di affidare le sue angosce, per quanto potessero sembrare
frivole e
infantili, a qualcuno che potesse capirla. Qualcuno che …
forse… ma certo! Joan
era sempre sveglia a quell’ora del mattino! Tirò
fuori il suo fedelissimo PDA.
Nella voce telefonate recenti ecco
apparire subito il numero che stava cercando.
… Ring…
Ring… Ring…
“Sì?” Rispose una voce grave ma decisa.
“Joan, sono io, Rebecca. Sentì posso passare un
attimo da
casa tua? C’è qualcosa di cui vorrei
parlarti.”
“Posso
concederti
solo mezz’ora di tempo. Devo prendere un volo diretto per
Bristol tra un’ora e
non posso tardare.” Le rispose.
“Mi bastano anche cinque minuti.”
“Ok,
ti aspetto.
Non tardare!”
Questa volta, Rebecca avrebbe avuto
bisogno della sua
macchina.
Parcheggiò senza problemi davanti al portone sotto casa
di Joan. Quel palazzo in vecchio stile vittoriano si stagliava dritto
davanti
ai suoi occhi, in contrasto con gli alti edifici moderni della zona.
Scese
rapidamente dalla vettura, chiudendo la portiera. Una volta
assicuratasi di
aver chiuso la macchina si diresse senza indugio verso la sua meta e
suonò al
terzo citofono partendo dal basso. Dopo pochi istanti, la stessa voce
con cui
aveva parlato al telefono rispose.
“Sì?”
“Joan, sono io,
Rebecca.”
“Sbrigati
a salire,
il mio taxi arriverà tra pochi minuti.”
“Ok, sono subito da
te.” Rispose Rebecca, chiudendo il portone dietro di
sé. Salì le scale
velocemente fino al secondo piano. Per fortuna l’appartamento
di Joan non si
trovava ai piani superiori. Trovò Joan ad aspettarla sulla
porta. Gli occhiali
sul naso e il tailleur grigio le conferivano un aria molto formale.
“Speravo ci fosse anche il tuo bell’accompagnatore
tenebroso.” L’apostrofò sarcastica.
Joan non riusciva a concepire il fatto che John fosse
gay. O meglio, Joan non riusciva ad accettare il fatto che un uomo
bello e
attraente come John fosse esattamente dall’altra sponda del
fiume nella quale
lei si trovava.
“Non è il mio accompagnatore. Siamo
semplicemente…”
“Sì, sì, voi siete soltanto una
squadra. Lavorate
insieme, trascorrete insieme la maggior parte del vostro tempo, fianco
a fianco
su tutte quelle pratiche e quei verbali. Magari lui ti va a prendere un
caffè,
anzi, sa che lo prendi amaro, nero, scuro, proprio come lui.”
Le disse,
ironica.
“Joan, tra me e John c’è solo un
rapporto di
collaborazione professionale. Al di fuori dell’ambito
lavorativo siamo buoni
amici, nulla di più.”
“Vorresti forse dirmi che non ci hai mai fatto un
pensierino?! Mia cara Rebecca, se dici di no ti disconoscerò
per sempre come
amica.” Joan sapeva essere esasperante, davvero esasperante.
“Sì, Joan, lo ammetto. È forse
l’uomo più sexy mai
apparso sulla faccia della terra.”
“In casa mia di sicuro!” La interruppe Joan,
sorridendo
maliziosamente.
Rebecca la guardò, rassegnata.
“C’è qualcosa di cui vorresti
parlare?” Le disse infine
Joan, recuperando tutt’un tratto il suo fare professionale.
“Più di una a essere sincera.” Fu
l’unica cosa che
Rebecca riuscì a dirle prima di varcare la porta
dell’appartamento.
Rebecca si fidava cecamente di Joan. Nonostante fossero
completamente diverse, sia per gusti che per carattere, erano sempre
state
buone amiche sin dai tempi del college. In quel periodo Rebecca
studiava
criminologia, mentre Joan psicologia criminale. Rebecca sapeva di poter
contare
sulla sua amica e che questa l’avrebbe senz’altro
ascoltata.
“Ho fatto un sogno sta notte… no, no! Era
più un incubo,
ma, ad essere del tutto onesta, non saprei dire cos’altro
potrebbe essere.”
Rebecca continuava a giocherellare col cuscino del divano,
nel soggiorno di Joan.
Quest’ultima poi, seduta di fronte a lei, si limitava ad
ascoltare e ad annuire ogni tanto.
“Stavo dormendo, e, non so come, riuscivo a rendermi
conto di quanto accadeva intorno a me. C’era silenzio, tanto
silenzio e sentivo
una strana ma fresca sensazione, come quando, d’estate, ci si
appoggia alle
pareti per sentirne la temperatura fredda.” Disse cercando di
ricordare nei
minimi particolari quanto aveva sognato quella notte.
“Che punto di vista avevi? Mi spiego, eri in piedi,
nascosta in un angolo, osservavi la scena
dall’alto?” Le chiese, aggiustandosi
gli occhiali sul naso.
“Ero sdraiata, ma all’inizio non riuscivo a vedere
nulla.”
“Quindi la prima parte del tuo sogno è
caratterizzata
solo da sensazioni… mmm… Molto interessante. E
cosa è successo dopo?” Chiese
Joan, molto coinvolta.
“Credo di essermi ritrovata all’entrata di una
chiesa.
Alla mia destra c’era un portone scuro e il soffitto era
così alto che sembrava
scomparire nell’ombra…”
Si fermò per un attimo, sentendo un brivido lungo la
schiena.
“Non so se possa essere considerato attendibile, ma ho
avuto come la sensazione che quello non fosse un luogo
consacrato.” Disse tutto
d’un fiato.
“Cosa intendi?” Le chiese la sua amica.
“Non credo di riuscire a spiegarlo ma lo sentivo. Sapevo
di essere lì e che qualcuno mi osservava.”
“Aspetta, aspetta Rebecca. Rispondimi, prima di andare
avanti. Cosa vuoi dire con non consacrato?
Era una chiesa dissacrata, c’erano simboli, immagini
blasfemiche? Cosa c’era di
così profanatorio da indurti a credere che quella chiesa non
fosse consacrata?”
Ancora una volta Rebecca dovette riflettere prima di
rispondere. Sapeva cosa aveva avvertito in quel momento, ma non
riusciva a
tradurre quelle sensazioni in parole concrete.
“Come ti ho detto, lo sentivo. Come la quiete prima del
sopraggiungere di un terremoto. Io sentivo che quel silenzio era solo
un
artefatto, sapevo che c’era! Mi dispiace ma non riesco a
spiegarlo più di
così…”
“Non ti preoccupare, continua. Cosa hai visto?”
“Non c’era molta luce, solo piccoli spiragli
isolati qua
e là. Ma sentivo che nell’ombra c’era
qualcuno. Non riuscivo a vedere chi fosse
ma sentivo che era lì, dietro le colonne.”
“Cosa faceva?”
“Mi spiava… mi guardava… mi atterriva
con la sua
presenza. Era come se aleggiasse da per tutto. Era più
oscuro dell’ombra in cui
continuava a nascondersi.”
“Cosa voleva da te?”
Eccola, eccola lì. La domanda più difficile e,
allo
stesso tempo, più semplice…
“Lui… lui voleva me. Non me in quanto Rebecca, non
me in
quanto donna. Lui voleva me, e basta.” Disse tutto
d’un fiato. Attese un attimo,
ma Joan non parlò.
“E poi… poi mi è venuto vicino. Ed era
forte, così forte
da impedirmi di muovermi, nonostante avessi paura, tanta
paura.”
Sentì le guance colorirsi, e abbassò lo sguardo.
“Ti ha fatto del male? Ha cercato aggredirti in
qualche…”
Joan lasciò volutamente la frase in sospeso, caricandola di
significato. Rebecca
annuì, ma subito dopo cercò di spiegarle cosa
aveva provato.
“Non è come può sembrare,
però. Era forte, ma…non brutale.
E, nonostante fosse terribile, ossessionato, mi ha cullato
finché non ho riaperto
veramente gli occhi.” Disse, ancora imbarazzata, ma con
l’animo più leggero dopo
quella confessione.
Joan si limitò a fissare il vuoto ancora per pochi
attimi.
“Prima di dirti quello che penso, vorrei sapere
qual’era
il colore dominante? Sicuramente, ci sarà stato un colore
principale, oltre il
nero che ti ha colpito.”
Rebecca cercò di richiamare alla mente quanto riusciva a
ricordare.
“Non c’era nero, come la luce non era perfettamente
bianca. Marrone, credo, ma anche rosso scuro, e tutto sembrava essere
rivestito
da una patina opaca” Concluse Rebecca.
Restarono ancora per qualche momento in silenzio, finché
non fu Joan a prendere la parola.
“Sei sicura di stare bene?”
Rebecca la guardò, sorpresa. Tutto si aspettava meno che
Joan le porgesse quella domanda. Dov’era finita la sua amica?
La razionale,
forte, combattiva Joan? Che fine aveva fatto la Joan tanto appassionata
dalla
psiche e dall’inconscio umano?
“Non fraintendermi, Rebecca, ma credo tu sia oltremodo
spaventata. Quello che mi hai raccontato può essere solo la
conseguenza di un
miscuglio di emozioni e fatti apparentemente poco legati fra loro, ma
che il
tuo inconscio ha messo insieme. Forse hai paura di qualcosa, forse
c’è un’ombra
che continui a sopprimere e, forse, nei tuoi sogni questa possiede le
sembianze
di un uomo in nero che cerca di sopraffarti.”
Mentre Joan parlava, Rebecca rimaneva in silenzio, imbarazzata.
Non aveva mai considerato la situazione sotto quel punto di vista.
Chissà perché, nel suo immaginario, aveva
supposto che
quello strano sogno forse potesse avere un qualche riscontro con la
realtà, che
forse c’era davvero un lui misterioso che, buono o cattivo la
desiderasse con
tanto tormento.
“Che mi dici di Simon?” Questa domanda la
riportò dritta
dritta alla realtà.
“Non c’è nulla da dire. È
sempre il solito abile,
attraente, spiritoso e intellettuale collega d’ufficio che va
a letto con la nuova
segretaria bionda del box più avanti invece che con
me.”
Joan iniziò a sogghignare, divertita.
“Sempre la solita Rebecca.” Disse continuando a
ridere.
“Credi che la mia avversione per la segretaria possa
coincidere con il sogno?”
“Oh sì, sicuramente.”
Si guardarono per un attimo prima di scoppiare a ridere.
Era da un po’ che Rebecca non rideva così di
gusto. A dire il vero ne era passato
di tempo da quando aveva parlato con qualcuno di sé stessa.
“Mi prometti che starai più tranquilla?”
Le chiese Joan.
I suoi occhi si spostarono improvvisamente sul quadrante
dell’orologio per poi
sgranarsi all’istante.
“Sono terribilmente in ritardo, scusami tesoro, ma
rischio sul serio di perdere il volo.” Le disse infilandosi
il cappotto.
“Che ore sono?” Le chiese Rebecca.
“Le 6:57 e il mio volo parte tra meno di venti
minuti.”
Uscirono insieme dal portone d’ingresso e Rebecca
aiutò
Joan a caricare i bagagli sul taxi bianco che l’aspettava
proprio sotto casa.
Si abbracciarono e, prima di separasi Joan le sussurrò
all’orecchio:
“Chiamami se hai bisogno di parlare. E non farmi stare in
pensiero.”
Ma già la portiera del taxi si chiudeva e l’auto
partiva
lasciandosi alle spalle un quartiere ancora immerso nel silenzio.
“Rebecca…”
“Rebecca…”
Si voltò di
scatto, trattenendo il respiro. Ma le strade
erano deserte, i balconi vuoti e le imposte ancora chiuse.
Joan aveva proprio ragione, stava diventando paranoica.
Grazie a
tutti per aver letto. Spero vi piaccia
anche questo chappy. Alla prossima.