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Autore: storyteller lover    01/03/2010    0 recensioni
Il “non-morto” altri non è che la paura ignota che può prenderti in ogni momento dal buio, dall'ombra, persino dai sogni.. Smarrirsi e facile, ma è ardua impresa tornare sui propri passi. Questa stoia ha partecipato al Contest: The survey of a Vampire, indetto da Maryan e Ghen
Genere: Thriller, Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cap. 2

Erano appena le sei del mattino. Troppo tardi per tornare a casa ma pur sempre troppo presto persino per andare in ufficio. Il rapporto del medico legale sarebbe giunto sulla sua scrivania non prima di quattro o cinque ore ancora.
Sentiva la testa scoppiarle e la stanchezza, dovuta al suo sonno disturbato, l’avrebbe accompagnata per tutto il corso della giornata. E quel sogno, così reale eppure sfuggente, così forte nelle sensazioni che le aveva lasciato, continuava ad impensierirla. Non aveva voglia di restare da sola. Sapeva che altrimenti i suoi pensieri sarebbero inevitabilmente a quel sogno, a quel terrore, a quella voce persa nel vento. Per una volta sentiva il bisogno di affidare le sue angosce, per quanto potessero sembrare frivole e infantili, a qualcuno che potesse capirla. Qualcuno che … forse… ma certo! Joan era sempre sveglia a quell’ora del mattino! Tirò fuori il suo fedelissimo PDA. Nella voce telefonate recenti ecco apparire subito il numero che stava cercando.

… Ring… Ring… Ring…

“Sì?” Rispose una voce grave ma decisa.
“Joan, sono io, Rebecca. Sentì posso passare un attimo da casa tua? C’è qualcosa di cui vorrei parlarti.”

“Posso concederti solo mezz’ora di tempo. Devo prendere un volo diretto per Bristol tra un’ora e non posso tardare.” Le rispose.
“Mi bastano anche cinque minuti.”

“Ok, ti aspetto. Non tardare!”

Questa volta, Rebecca avrebbe avuto bisogno della sua macchina.
Parcheggiò senza problemi davanti al portone sotto casa di Joan. Quel palazzo in vecchio stile vittoriano si stagliava dritto davanti ai suoi occhi, in contrasto con gli alti edifici moderni della zona. Scese rapidamente dalla vettura, chiudendo la portiera. Una volta assicuratasi di aver chiuso la macchina si diresse senza indugio verso la sua meta e suonò al terzo citofono partendo dal basso. Dopo pochi istanti, la stessa voce con cui aveva parlato al telefono rispose.

“Sì?”
 
“Joan, sono io, Rebecca.”
“Sbrigati a salire, il mio taxi arriverà tra pochi minuti.”

“Ok, sono subito da te.” Rispose Rebecca, chiudendo il portone dietro di sé. Salì le scale velocemente fino al secondo piano. Per fortuna l’appartamento di Joan non si trovava ai piani superiori. Trovò Joan ad aspettarla sulla porta. Gli occhiali sul naso e il tailleur grigio le conferivano un aria molto formale.
“Speravo ci fosse anche il tuo bell’accompagnatore tenebroso.” L’apostrofò sarcastica.
Joan non riusciva a concepire il fatto che John fosse gay. O meglio, Joan non riusciva ad accettare il fatto che un uomo bello e attraente come John fosse esattamente dall’altra sponda del fiume nella quale lei si trovava.
“Non è il mio accompagnatore. Siamo semplicemente…”
“Sì, sì, voi siete soltanto una squadra. Lavorate insieme, trascorrete insieme la maggior parte del vostro tempo, fianco a fianco su tutte quelle pratiche e quei verbali. Magari lui ti va a prendere un caffè, anzi, sa che lo prendi amaro, nero, scuro, proprio come lui.” Le disse, ironica.
“Joan, tra me e John c’è solo un rapporto di collaborazione professionale. Al di fuori dell’ambito lavorativo siamo buoni amici, nulla di più.”
“Vorresti forse dirmi che non ci hai mai fatto un pensierino?! Mia cara Rebecca, se dici di no ti disconoscerò per sempre come amica.” Joan sapeva essere esasperante, davvero esasperante.
“Sì, Joan, lo ammetto. È forse l’uomo più sexy mai apparso sulla faccia della terra.”
“In casa mia di sicuro!” La interruppe Joan, sorridendo maliziosamente.
Rebecca la guardò, rassegnata.
“C’è qualcosa di cui vorresti parlare?” Le disse infine Joan, recuperando tutt’un tratto il suo fare professionale.
“Più di una a essere sincera.” Fu l’unica cosa che Rebecca riuscì a dirle prima di varcare la porta dell’appartamento.
Rebecca si fidava cecamente di Joan. Nonostante fossero completamente diverse, sia per gusti che per carattere, erano sempre state buone amiche sin dai tempi del college. In quel periodo Rebecca studiava criminologia, mentre Joan psicologia criminale. Rebecca sapeva di poter contare sulla sua amica e che questa l’avrebbe senz’altro ascoltata.
“Ho fatto un sogno sta notte… no, no! Era più un incubo, ma, ad essere del tutto onesta, non saprei dire cos’altro potrebbe essere.”
Rebecca continuava a giocherellare col cuscino del divano, nel soggiorno di Joan.
Quest’ultima poi, seduta di fronte a lei, si limitava ad ascoltare e ad annuire ogni tanto.
“Stavo dormendo, e, non so come, riuscivo a rendermi conto di quanto accadeva intorno a me. C’era silenzio, tanto silenzio e sentivo una strana ma fresca sensazione, come quando, d’estate, ci si appoggia alle pareti per sentirne la temperatura fredda.” Disse cercando di ricordare nei minimi particolari quanto aveva sognato quella notte.
“Che punto di vista avevi? Mi spiego, eri in piedi, nascosta in un angolo, osservavi la scena dall’alto?” Le chiese, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
“Ero sdraiata, ma all’inizio non riuscivo a vedere nulla.”
“Quindi la prima parte del tuo sogno è caratterizzata solo da sensazioni… mmm… Molto interessante. E cosa è successo dopo?” Chiese Joan, molto coinvolta.
“Credo di essermi ritrovata all’entrata di una chiesa. Alla mia destra c’era un portone scuro e il soffitto era così alto che sembrava scomparire nell’ombra…”
Si fermò per un attimo, sentendo un brivido lungo la schiena.
“Non so se possa essere considerato attendibile, ma ho avuto come la sensazione che quello non fosse un luogo consacrato.” Disse tutto d’un fiato.
“Cosa intendi?” Le chiese la sua amica.
“Non credo di riuscire a spiegarlo ma lo sentivo. Sapevo di essere lì e che qualcuno mi osservava.”
“Aspetta, aspetta Rebecca. Rispondimi, prima di andare avanti. Cosa vuoi dire con non consacrato? Era una chiesa dissacrata, c’erano simboli, immagini blasfemiche? Cosa c’era di così profanatorio da indurti a credere che quella chiesa non fosse consacrata?”
Ancora una volta Rebecca dovette riflettere prima di rispondere. Sapeva cosa aveva avvertito in quel momento, ma non riusciva a tradurre quelle sensazioni in parole concrete.
“Come ti ho detto, lo sentivo. Come la quiete prima del sopraggiungere di un terremoto. Io sentivo che quel silenzio era solo un artefatto, sapevo che c’era! Mi dispiace ma non riesco a spiegarlo più di così…”
“Non ti preoccupare, continua. Cosa hai visto?”
“Non c’era molta luce, solo piccoli spiragli isolati qua e là. Ma sentivo che nell’ombra c’era qualcuno. Non riuscivo a vedere chi fosse ma sentivo che era lì, dietro le colonne.”
“Cosa faceva?”
“Mi spiava… mi guardava… mi atterriva con la sua presenza. Era come se aleggiasse da per tutto. Era più oscuro dell’ombra in cui continuava a nascondersi.”
“Cosa voleva da te?”
Eccola, eccola lì. La domanda più difficile e, allo stesso tempo, più semplice…
“Lui… lui voleva me. Non me in quanto Rebecca, non me in quanto donna. Lui voleva me, e basta.” Disse tutto d’un fiato. Attese un attimo, ma Joan non parlò.
“E poi… poi mi è venuto vicino. Ed era forte, così forte da impedirmi di muovermi, nonostante avessi paura, tanta paura.”
Sentì le guance colorirsi, e abbassò lo sguardo.
“Ti ha fatto del male? Ha cercato aggredirti in qualche…” Joan lasciò volutamente la frase in sospeso, caricandola di significato. Rebecca annuì, ma subito dopo cercò di spiegarle cosa aveva provato.
“Non è come può sembrare, però. Era forte, ma…non brutale. E, nonostante fosse terribile, ossessionato, mi ha cullato finché non ho riaperto veramente gli occhi.” Disse, ancora imbarazzata, ma con l’animo più leggero dopo quella confessione.
Joan si limitò a fissare il vuoto ancora per pochi attimi.
“Prima di dirti quello che penso, vorrei sapere qual’era il colore dominante? Sicuramente, ci sarà stato un colore principale, oltre il nero che ti ha colpito.”
Rebecca cercò di richiamare alla mente quanto riusciva a ricordare.
“Non c’era nero, come la luce non era perfettamente bianca. Marrone, credo, ma anche rosso scuro, e tutto sembrava essere rivestito da una patina opaca” Concluse Rebecca.
Restarono ancora per qualche momento in silenzio, finché non fu Joan a prendere la parola.
“Sei sicura di stare bene?”
Rebecca la guardò, sorpresa. Tutto si aspettava meno che Joan le porgesse quella domanda. Dov’era finita la sua amica? La razionale, forte, combattiva Joan? Che fine aveva fatto la Joan tanto appassionata dalla psiche e dall’inconscio umano?
“Non fraintendermi, Rebecca, ma credo tu sia oltremodo spaventata. Quello che mi hai raccontato può essere solo la conseguenza di un miscuglio di emozioni e fatti apparentemente poco legati fra loro, ma che il tuo inconscio ha messo insieme. Forse hai paura di qualcosa, forse c’è un’ombra che continui a sopprimere e, forse, nei tuoi sogni questa possiede le sembianze di un uomo in nero che cerca di sopraffarti.”
Mentre Joan parlava, Rebecca rimaneva in silenzio, imbarazzata. Non aveva mai considerato la situazione sotto quel punto di vista.
Chissà perché, nel suo immaginario, aveva supposto che quello strano sogno forse potesse avere un qualche riscontro con la realtà, che forse c’era davvero un lui misterioso che, buono o cattivo la desiderasse con tanto tormento.
“Che mi dici di Simon?” Questa domanda la riportò dritta dritta alla realtà.
“Non c’è nulla da dire. È sempre il solito abile, attraente, spiritoso e intellettuale collega d’ufficio che va a letto con la nuova segretaria bionda del box più avanti invece che con me.”
Joan iniziò a sogghignare, divertita.
“Sempre la solita Rebecca.” Disse continuando a ridere.
“Credi che la mia avversione per la segretaria possa coincidere con il sogno?”
“Oh sì, sicuramente.”
Si guardarono per un attimo prima di scoppiare a ridere. Era da un po’ che Rebecca non rideva così di gusto. A dire il vero ne era passato di tempo da quando aveva parlato con qualcuno di sé stessa.
“Mi prometti che starai più tranquilla?” Le chiese Joan. I suoi occhi si spostarono improvvisamente sul quadrante dell’orologio per poi sgranarsi all’istante.
“Sono terribilmente in ritardo, scusami tesoro, ma rischio sul serio di perdere il volo.” Le disse infilandosi il cappotto.  
“Che ore sono?” Le chiese Rebecca.
“Le 6:57 e il mio volo parte tra meno di venti minuti.”
Uscirono insieme dal portone d’ingresso e Rebecca aiutò Joan a caricare i bagagli sul taxi bianco che l’aspettava proprio sotto casa.
Si abbracciarono e, prima di separasi Joan le sussurrò all’orecchio:
“Chiamami se hai bisogno di parlare. E non farmi stare in pensiero.”
Ma già la portiera del taxi si chiudeva e l’auto partiva lasciandosi alle spalle un quartiere ancora immerso nel silenzio.

“Rebecca…”
“Rebecca…”

Si voltò di scatto, trattenendo il respiro. Ma le strade erano deserte, i balconi vuoti e le imposte ancora chiuse.
Joan aveva proprio ragione, stava diventando paranoica.

To be continued..

Grazie a tutti per aver letto. Spero vi piaccia anche questo chappy. Alla prossima.

   
 
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