- Autore: Akrois
- Titolo: Girotondo ~
- Titolo del Capitolo:Per un milione d’anni amata maledetta.
- Personaggi: Oc!Perugia (Augusta Baglioni), Oc!Terni
(Tiro Valentini)
- Genere: Storico (?), romantico (?)
- Rating: Arancione.
- Avvertimenti: One-short, AU,
- Conteggio parole:
- Note: Perugia. Ah, amore mio! *Perugia schiva
l’abbraccio e la fissa un po’ schifata*. Si, okay.
Bene,
altra storia ambientata nella seconda guerra mondiale. Terni fu bombardata
dagli alleati in maniera consistente (108 bombardamenti) che la rasero quasi al
suolo. Perugia, dal canto suo, subì la maggior parte dei suoi
bombardamenti nel contado e nelle zone del comune, mentre il Centro Storico fu
lasciato quasi intatto. Nota bene qui si parla di Bombe al fosforo bianco.
Erano bombe incendiarie che in genere erano sganciate dagli aerei (ma va
là?).
Teranma era uno degli antichi nomi di
Terni, Aperusia lo era per Perugia.
Augusta è derivato dal nome “Augusta Perusia”, affidato alla
città dall’imperatore Augusto, mentre Tiro è derivato da
Thyrus, il drago sullo stemma di Terni. Secondo alcuni dati la nascita di Terni
come città risale circa al 627 a.C, mentre Perugia era formata come
città nel 400 a.C. Di conseguenza Perugia tratta Terni come un
“fratellino” per la prima parte della loro vita.
Tuva è una parola etrusca e
significa “Fratello”.
Il Chiton è una veste greca (la
classica, i due rettangoli di stoffa appuntati sulle spalle e legati in vita)
molto usata dalle etrusche. La càstula
era un corpetto.
“Che il re e la regina ti scelgano come
genero, che le fanciulle ti rapiscano, che tutto quel che calpesta diventi una
rosa” le fonti la citano come ninna-nanna etrusca.
E la
etero è andata!*-*
Prompt: Riflesso.
Per un
milione d’anni amata maledetta.
Il
sibilo delle bombe che cadevano andava mescolandosi col rombo dei motori degli
aerei, il fragore delle macerie che cadevano e le urla della gente. Tiro
gridò coprendosi le orecchie mentre correva forsennatamente per le
strade, cercando di non inciampare in un calcinaccio o (peggio) in qualche cavo
scoperto.
Una
donna gridava, da qualche parte. Per risposta, Tiro urlò più
forte, continuando a correre con i palmi premuti sulle orecchie e le lacrime
che scorrevano sul viso.
L’unica
cosa che lo costrinse a fermarsi fu l’improvvisa comparsa di un uomo in
mezzo alla polvere. Tiro si fermò boccheggiando, fissando con occhi
sgranati la torcia umana che gli si agitava davanti, osservando l’uomo
correre agitando le braccia in tondo per qualche secondo e poi accasciarsi a
terra tra i rantoli. Tiro rimase immobile a guardare le fiamme vermiglie che
consumavano la carne, prima di aprire la bocca e lasciarsi andare a un forte
urlo. Riprese a correre, cercando di scappare da quell’inferno di fiamme
e polvere bianca.
Si
nascose dietro ad una lastra di cemento, sedendosi tremante fra i calcinacci.
Togliendosi le mani dal volto notò che i dorsi erano coperti da grosse
bruciature corredate da vesciche giallastre. Storse il naso, allontanando di
scatto la testa dalle mani quando sentì l’odore delle ferite.
Controllò
le braccia, strappando il tessuto leggero della camicia nera.
Sull’avambraccio destro si allargava un’altra bruciatura
maleodorante, che scavava nella pelle ormai morta e nerastra fino a mostrare il
luccichio dell’osso bianco. Osservò a lungo la ferita, senza
trattenersi dal piangere disperato.
“Morirò” pensò
passandosi le mani tra le ciocche bruciacchiate dei capelli “morirò qua solo come un cane!”, inarcò la schiena
all’indietro, battendo più volte la nuca contro il muro, mentre
urlava in preda alla rabbia e al dolore. Un’altra bomba cadde fischiando
dietro di lui, rilasciando nell’aria la polvere bianca che andava
rimbalzando sulla strada. Tiro seguì con lo sguardo un’altra
carica di calcinacci che volavano qua e là, cominciando a tremare
violentemente.
Era
sicuro di morire. Quel giorno per lui rappresentava l’anticamera
dell’inferno e quello era solo un’affettuosa anteprima delle pene
che avrebbe sofferto in mezzo alla lava bollente che gli Alleati gli
regalavano. Avrebbe dovuto ringraziarli. “Domani chiederò alla mia segretaria di segnarmelo”
pensò stringendosi le ginocchia al petto “se ci arrivo, a domani” un sorrisino sghembo comparve sul suo
volto “e se ci arriva anche lei.”
Terni
non poteva far altro che guardare i frutti del suo lavoro andare in frantumi.
In un istante i sacrifici di una vita erano andati perduti e lui si ritrovava
solo con dei calcinacci. E anche delle ustioni.
Avvertì
il bruciore di un’altra ferita che ci apriva lungo una gamba “Cos’altro hanno fatto saltare? Un altoforno?Una fabbrica?
Un condominio? Il duomo?”
si lasciò sfuggire un risolino acuto mentre strappava la stoffa dei
calzoni, cercando di limitare i danni.
Le mani
sembravano non voler seguire le direttive del cervello e impedirgli così
di pulire la ferita. Terni strinse i denti e si obbligò a tenere le mani
ferme, pulendo alla meno peggio lo squarcio rossastro.
Si
ritrovò a ridacchiare da solo intervallando le risatine stridule con le
frasi – Augusta, dove sei, dannata baldracca?- balbettò,
lamentandosi per il dolore alla gamba procurato dall’eccessiva energia
con cui stava strofinando la ferita – Dove sei stronza? Ho bisogno di te,
maledetta. - ridacchiò di nuovo, disgustato dalla propria vocina acuta e
dalle mani tremolanti – Non lo vedi? Ho davvero bisogno di te, stronza!
- Teranma?- sentiva la sua voce vicina, un
sussurro lieve e caldo che sfiorava le sue guancie –Teranma, svegliati, è l’alba.
Aprì
lentamente gli occhi, ritrovandosi a doverli subito chiudere per la luce
abbagliante. La donna rise.
- Teranma, forza, è mattina- disse
la donna, scuotendolo con un tintinnio di metallo – forza, tuva, è mattina e dobbiamo andare
da Roma. Lo sai che quel bel fusto odia che lo facciamo aspettare, no?
La donna
rise di nuovo. Aveva una bella risata, alta e cristallina, che scivolava
nell’aria come un rivolo dorato. Socchiuse nuovamente gli occhi,
trovandosi davanti al viso abbronzato della donna -Aperusia...?- sussurrò
debolmente, sfiorando con una mano uno dei riccioli biondi che cadevano sul suo
viso – Sorella, ho fatto un brutto sogno- disse strofinandosi gli occhi
– ho sognato che stavo soffrendo da morire e che ero solo. Non
c’era nessuno, neanche te.
Lei corrugò
le sopracciglia scure – Che sogno orribile, tuva. – si chinò, baciandolo sulla fronte e lasciando
un segno rosso a forma di labbra sulla sua pelle – Ops, ti ho sporcato-
disse poi ridacchiando – scusami, tuva.
Lui
sorrise, sedendosi e pulendosi con una mano – Non è nulla,
sorella.- disse – Dov’è la mia tunica?
- Appesa
fuori, tuva. Tra poco gli schiavi la
porteranno di qua- disse lei – come sto?- fece un giro su se stessa,
lasciando volteggiare il chitom
azzurro stretto con vita dalla càstula
blu.
- Sei
bellissima- assicurò lui, deliziato sia dalla vestitura sia
dall’abbondante parte di pelle che restava scoperta. Uno schiavo
entrò silenziosamente nella stanza, porgendo alla donna la tunica verde.
Lei prese l’abito fra le mani e lo fece allontanare con un tintinnio di
bracciali.
- Forza,
sbrigati tuva, faremo tardi, tardi,
tardi!- esclamò tirandogli la tunica e ridendo di nuovo. Lui
annuì, scivolando via dal letto, trovandosi lo sguardo della donna fisso
sul suo corpo – Complimenti, sei proprio cresciuto bene ultimamente, eh tuva?
Imbarazzato,
il ragazzo si coprì con le mani – Ma dove guardi, sorella?
Lei rise
di nuovo (lo stava prendendo in giro, ma era impossibile irritarsi per una
risata così bella) e gli si avvicinò, sfiorandolo con le mani
sulle spalle, sovrastandolo in altezza.
- Tuva, mi viene il dubbio che qualche
fanciulla possa volerti rapire– disse sorridendo sardonica, mentre il
ragazzo inalava il forte profumo di fiori della donna –In tal caso sarei
costretta a rapirti io e farti mio per l’eternità, non credi?-
aggiunse allargando il sorriso.
Lui
tremò da capo a piedi, stringendo le braccia attorno alla vita della
donna – Fallo.- sussurrò poggiandosi a lei – Fallo. Portami
via, sorella, portami via.
Stringeva
le dita sulla stoffa e alzando lo guardo cercò gli occhi verdi di sua
sorella. Cercò il suo riflesso, in quegli occhi, ma non lo trovò.
Non
c’era il suo viso riflesso in quegli amati occhi e non ci sarebbe mai
stato. Lei si staccò lentamente da lui, allontanandosi di un paio di
passi. Lui cercò di dire qualcosa, ma lei sorrise – Manderò
gli schiavi ad aiutarti per vestirti e pettinarti, va bene tuva?- disse arretrando – Ti aspetto. Fai in fretta, che il
fustacchione ci aspetta!
La sua
allegria suonava forzata e al ragazzo non restò altro che guardarla
mentre spariva fuori della stanza. Scivolò a terra, stringendosi al
petto la tunica. – Stronza- mormorò debolmente nella stoffa
– lo sai che ti amo, maledetta- una lacrima rigò il viso – e
tanto continui a trattarmi come un bambino.
-
Terni!- gridò una voce nell’oscurità – Terni, dannato
cretino, apri gli occhi!
Tiro
aprì piano le palpebre, trovandosi davanti ad un viso abbronzato di
donna. L’unico occhio verde lo fissava preoccupato, mentre la solita
brutta benda di pelle copriva l’altro. I capelli castani cadevano sulla
fronte, finalmente dello stesso colore delle sopracciglia. Terni sorrise
leggermente.
-
Sorella- sussurrò alzando le mani verso il suo viso – ho fatto un
bel sogno. Ho sognato che ero felice da morire e c’eri tu. Poi
però mi hai spezzato il cuore.
Perugia
lo guardò un po’ storto – Che cosa stai vaneggiando,
cretino? Guarda come sei ridotto… Dio santo, puzzi d’aglio marcio!-
Perugia prese una delle sue mani, esaminando le bruciature – Oh, Signore,
cosa ti hanno fatto.
Terni
sorrideva ancora. Un lieve rossore gli dipinse le guancie – Non ho idea
di quanti anni ho passato a maledirti, sorella.- Perugia borbottava, estraendo
da una valigetta delle strisce bianche e bagnandole con dell’acqua
–Tu non mi amavi. Non mi hai mai amato- la guardò mentre lo
fasciava, borbottando ancora ingiurie contro vari santi che di sicuro si
stavano agitando sui loro scranni – i tuoi occhi non mi hanno mai
riflesso, sorella.
Perugia
alzò lo sguardo. I suoi occhi, anzi, l’occhio non rifletteva
niente e nessuno, rifletteva solo il ferro e l’acciaio. Tiro sospirò.
- Ti ho
detto mille volte che ti amo, ma tu forse non lo ricordi neanche. – si
lasciò scivolare con la schiena contro la lastra di cemento (che aveva
retto eroicamente durante la notte) – Però le mie maledizioni te
le ricordi, te le ricordi di sicuro tutte.
Augusta
lo guardò mentre scivolava nel sonno. Finì di fasciarlo,
canticchiando fra se e sé - Che il
re e la regina ti scelgano come genero,- sussurrava carezzandone i capelli
- che le fanciulle ti rapiscano, che tutto quel che calpesti
diventi una rosa- lo baciò sulla fronte, non badando alla sporcizia
che si era accumulata sul suo viso.
- Certo
che ricordo, tuva.- , Augusta non
amava Tiro, ma poteva capirlo. Aveva passato così tanti anni al fianco
di Roma da riuscire a capire come ci si sente quando gli occhi della persona
che ami non riflettono te.