- Autore: Akrois
- Titolo: Girotondo ~
- Titolo del Capitolo: Una
gabbia.
- Personaggi: Oc!Siberia (Mar’ja
Zarkovskaja), Oc!Alaska (Sesi Kinguyakkii),
Russia (Ivan Braginsky)
- Genere: Storico (?), romantico, ma che
ne so io.
- Rating: Arancione.
- Avvertimenti: One-short, shojo-ai,
presenza di Oc (sì, è un’avvertimento ù.ù)
- Conteggio parole:
- Note: Ordunque, ho detto che avrei fatto comparire
degli Oc, no? La verità è che io e gli Oc andiamo troppo d’accordo e che,
soprattutto, adoro queste due. Che fra l’altro non sono neanche state create
per stare insieme. Hanno fatto tutto da sole ù.ù
Comunque,
questa short non è del calibro della prima. Dannazione. Mi devo riacchiappare. La
prossima sarà meglio ù.ù
Le note
tecniche sono: il nome di Alaska è composto da due nomi tipici degli Athna (Sesi =Neve)
e degli Inupiak (Kinguyakkii =Aurora
boreale), due popolazioni autoctone del luogo.
La nagajka è una frusta di cuoio usata dai
cosacchi per incitare i cavalli.
L’NKVD è
il “papino” del KGB ed era la polizia di stato ai tempi di Stalin. (vedere qui)
Ah, note
sul contest: dovevo scrivere cinque short su cinque prompt, una yaoi, una yuri,
una etero, una gender-bender, e una moresome. La Yaoi e la Yuri sono andate. La
prossima è la gender-bender.
Prompt: Calore
Una
gabbia.
La nagajka non era sicuramente il metodo
d’esecuzione più umano che avevano (anche se non credeva che potesse esistere
un metodo d’esecuzione “umano”), ma di sicuro era quello più efficace. Era
rapido, pulito e dall’ampio valore simbolico.
Seguiva
Russia in silenzio, dondolando mollemente
la nagajka sugli stivali
marroni, mentre aspettava che Russia finisse la sua pantomima. Non riusciva
proprio ad apprezzarlo quando si metteva lì a discutere con i prigionieri con
quel sorrisino stampato sulla faccia e l’aria da “sì, certo che lo faccio per farti spaventare!”.
Lei
aspettava con calma, battendo la nagajka
con un ritmo lento ma perfetto, in totale silenzio, finché Russia non le dava
il proprio segnale.
Il
motivo per cui non apprezzava che Russia spaventasse i condannati era uno solo
e molto semplice: un condannato spaventato tende a divincolarsi e diventa quasi
impossibile colpirlo direttamente alla nuca. Non avevano proiettili da sprecare
per una cosa come finire un condannato agonizzante e Siberia non amava lasciare
gente in agonia lungo il suo cammino. Ma a tutto c’è sempre un rimedio e
Siberia aveva imparato che bloccare la testa ai condannati era facilissimo,
specie quando si dispone di più quadre di russi nerboruti.
Si tolse
il cappello, togliendo un po’ di neve dalla stoffa blu scuro. Un ragazzetto le
caracollò accanto – Signora Siberia, ci sono ventitré morti- sussurrò. Siberia
alzò un sopracciglio, calandosi il cappello sulla fronte – Erano ventiquattro.
Che ne è stato del ventiquattresimo?
- Ecco,
signora, lui non è ancora- il ragazzetto cominciò a balbettare indegnamente,
torcendosi le mani. Siberia sospirò, rimpiangendo i tre baltici (erano stupidi
e fifoni, ma almeno erano efficienti) ed estrasse la pistola
dalla fondina sul fianco – Qual è?- chiese indicando la fila di corpi.
- Vuole-
il ragazzetto deglutì a vuoto – finirlo?
Siberia
gli lanciò un’occhiataccia, voltandosi con un fluttuare in aria del nastro
bianco che le legava i capelli – No, pensavo di fargli vedere quanto sono belle
le pistole russe.-.
Il
ragazzetto tentò un risolino, subito bloccato dalla seconda occhiataccia di
Siberia – Quello- disse allora, indicando col dito tremante il corpo a terra.
Piccole nuvole di fiato uscivano dalle labbra bluastre dell’uomo mezzo
affondato nella neve. Siberia sospirò.
C’erano
giorni in cui tornare nel suo ufficio (un cubicolo di cemento armato grigio con
un tavolaccio pieno di carte da mattina a sera, le foto di Lenin e di Stalin al
muro, un grosso poster propagandistico appeso alla porta e una cassa di
bottiglie di vodka che occasionalmente serviva da sedia ai visitatori) le
sembrava la cosa più bella del mondo. Stare un po’ seduta, nel freddo del suo
ufficio, con una bottiglia di vodka in mano e il silenzio.
Il
silenzio era l’unica cosa che le mancava della sua vita Prima Di Russia.
Siberia usava
dividere la sua vita in due fasi: il “Prima
Di Russia” e il “Dopo Russia”. Prima Di Russia c’era il
silenzio, la pace, il freddo e il caldo che si susseguivano, con la terra che
si gelava e si scioglieva e le poche persone che vivevano nelle sue terre
raccolte attorno al fuoco.
Tra il Prima Di Russia e il Dopo Russia
c’era “L’Incontro Con Russia”.
Siberia lo ricordava molto bene quell’incontro. Come dimenticarlo, in fondo?
Russia
era venuto con la neve, confondendosi con i fiocchi turbinanti come fosse uno
di essi. Russia era venuto col sorriso e una gabbia nascosta dietro la schiena,
se mai avesse avuto bisogno di portarla via con la forza.
Ma
Siberia non era scappata. Non aveva neanche avuto paura o altro. Semplicemente,
Siberia sapeva che lui era lì per essere la sua famiglia. Non poteva non essere
così: avevano lo stesso naso.
Sorrise.
Il Dopo Russia era fatto di novità, di battute di caccia, di cavalli (erano
belli i cavalli, non l’aveva mai notato), di malviventi, di prigioni, di fucili
e nagajka. Non sorrideva più.
Però, il
Dopo Russia aveva portato anche una cosa bella (la cosa bella, per la precisione). Siberia sorrise di nuovo,
tirando fuori da sotto la scrivania la vecchia, monolitica, radio. Continuando
a sorridere fra se e se come una cretina cominciò a cercare la frequenza che
gli serviva, pronunciando di tanto in tanto qualche parola in russo in mezzo al
gracchiare dell’apparecchio.
-
Mar’ja?- ecco. Ora era tutto a posto. Il freddo della stanza era sparito,
rimpiazzato da quel calore che sembrava irradiarsi come una luce dal piccolo
microfono della radio. – Mar’ja, sei tu?- , era in pace solo col sentire quella
voce. Il calore scivolava lungo il suo braccio e arrivava dritto al cuore (non
si sentiva d’esagerare quando diceva che riusciva anche a sciogliere la neve
sulle sue spalline) mentre il sorriso largo e idiota si andava allargando e
diventando sempre più idiota.
-
Mar’ja? Siberia? Insomma, qualcuno risponda-, era così carina mentre si
preoccupava e stringeva il microfono fra le mani (sì, non poteva vederla ma
poteva immaginarla e nella sua immaginazione lei era carinissima) che si sentì una bastarda per non averle risposto
prima. Tossì un paio di volte per schiarirsi la voce e le rispose – Sono
proprio io, Sesi.- con un tono che voleva vagamente essere figo, ma ricordava
quello di un bambino felice.
Alaska
sospirò (aveva girato gli occhi al cielo, ne era sicura) – Sai che odio quando
non mi rispondi subito.
Siberia
rise. Si fermò subito. La sua stessa risata la infastidiva, così come anche la
sua voce. Era troppo alta, allegra, infantile, era troppo la voce e la risata
di Russia.
- Cosa
mi racconti, Sesi?- domandò dondolandosi sulle gambe posteriori della sedia.
- Le
solite cose- Alaska si fermò per alcuni secondi, raccogliendo mentalmente i
fatti – Greenland è venuto da me con una torta e della vodka a festeggiare i
guai di Danimarca.
Siberia
si lasciò sfuggire un sorrisino – Lo odia ancora?
- Lo
odierà finché morte non li separi.- disse Alaska – O almeno è quello che ho
capito fra un insulto e l’altro.- Siberia ridacchiò – C’era anche Canada?
- No,
lui no.- Siberia si bloccò, fissando il microfono come se questo potesse far
smettere le pause di Alaska – Lui è partito per la guerra.
- Ah.
Capisco. Ti devi sentire molto sola.
Alaska
rise – La solitudine è il problema minore. – altro silenzio. Siberia odiava le
pause di Alaska. Era l’unica cosa che proprio non riusciva a sopportare e lei
riusciva ad amare persino l’accento spagnolo di Alaska – Tu come stai?
Siberia
sentì il calore espandersi al suo viso. Sorrise, pensando che era da quando era
iniziata la guerra che nessuno le chiedeva come stava. Ora però si chiedeva:
cosa poteva rispondere?
“Bene,
grazie. Ammazzo circa una quarantina di uomini al giorno per i capricci di
Russia, ma a parte questo me la cavo” oppure “ Benissimo, sai, oggi dovevamo
ammazzare ventiquattro persone, ma una era agonizzante e io gli ho sparato per
dargli il colpo di grazia. Russia dopo mi ha rimproverato perché avevo sprecato
il proiettile” o anche “Russia ha scoperto che picchiare le persone con delle
catene sulle reni è divertente. L’ha provato su una decina di prigionieri e su
di me, ma ha promesso di farlo testare anche a Lituania” magari era meglio “
Ieri uno dei miei è morto per mano di uno dei fritz. Per vendetta abbiamo crocifisso tre dei loro. Gli abbiamo
anche messo del filo spinato su per il sedere. Hanno strillato come porci al
macello. Russia mi ha detto che dovevo farli urlare meno e gli ha tagliato la
lingua. ”
- Sto
bene, Sesi. Davvero.- la frase era falsa quanto un fucile a tappo.
-
Davvero?
Quanto
un fucile a tappo rosa dei puffi. Con
sopra disegnati dei puffi rosa.
- Sì,
davvero- il calore tornava dentro al microfono, lasciando che il gelo tornasse
a serpeggiare sulla sua pelle – sto bene, Sesi, sto bene davvero.-
Siberia
tremò, supplicando in silenzio Alaska di donarle ancora un po’ di quel calore. Sentì
Alaska schioccare la lingua un paio di volte – Siberia - altra pausa.
- Sì?-,
“Perdio, dì qualcosa, smetti di lasciarmi
in questo silenzio odioso! Com’è che America parla sempre tantissimo senza
neanche riprendere fiato e tu sembri dover pensare a ogni lettera che pronunci?”.
- Ti
amo, lo sai?
Siberia
si lasciò scivolare sulla sedia sospirando. Il calore era tornato.
- Anch’io
ti amo, Sesi.
Immaginò
Alaska sorridere con quelle belle labbra rosse e dondolare i piedi, tutta
contenta per essere riuscita a dire e farsi dire quelle due paroline.
- Quando
finirà la guerra- disse Alaska – verrò da te.
Siberia
saltò sulla sedia, stringendo il microfono fra le dita – No!- latrò – No, Sesi,
tu non puoi venire qua!
- Perché?
Si era
imbronciata. Lo sentiva dal tono.
- Verrò
io- sussurrò Siberia, tentando di riacchiappare il filo della discussione e non
far arrabbiare Alaska – verrò io da te. Va bene?
- Sì.-
poteva vederla sorridere di nuovo calma. Sorrise anche lei.
- Marushka!- esclamò una vocetta
cantilenante fuori della porta – Marushka!
Ho bisogno di te, vuoi venire un attimo?
Siberia
gelò. Tutto il calore si dileguò in un solo istante, mentre salutava
frettolosamente Alaska e nascondeva la radio. Afferrò il cappello e se lo mise,
osservandosi nel vetro di una finestra appannata.
Sospirò.
Lei era
condannata. Condannata a stare nella gabbia di Russia, con Russia. Erano condannati entrambi, in fondo. Condannati a
restare uniti nel gelo e nella neve. Nella gabbia che avevano costruito assieme
sbarra dopo sbarra.
Ma
Alaska era libera, ormai. Alaska doveva restare fuori dalla gabbia, doveva limitarsi
a sorridere attraverso le sbarre. Siberia si sistemò il nastro bianco e si
caricò il mitra sulle spalle.
La nagajka pendeva lungo il fianco.
Poggiò
la mano sulla maniglia della porta, pensando che in fondo si era meritata tutto
quello. Se l’era meritato nel preciso istante in cui si era mossa per seguire
Russia.
Se solo
avesse potuto sentire il rumore della gabbia che si chiudeva, in quel momento.