Mi affaccendai con il lenzuolo
bianco, sistemandolo e
lisciando le pieghe.
Ogni gesto che compivo mi costava
un certo sforzo, e
la fiacchezza gravava inesorabilmente su di me. Rifare il letto era
vitale,
però. Significava impedire a mio marito ad esortarmi a
riposare, ancora una
volta, apprensivo e preoccupato per la piega che stavano prendendo le
cose.
Scoccai un’occhiata alla
porta della camera e la
trovai chiusa, esattamente come l’avevo lasciata. Sapeva
quali erano i miei
spazi. Sapeva che se l’avevo fatto era perché
avevo bisogno di stare sola.
Distolsi l’attenzione, trascinandomi stancamente nel bagno,
bisognosa di lavare
via il velo di sudore che mi aveva man mano ricoperta durante la notte.
Il mio ritratto allo specchio non
mentì. Le mie occhiaie
parlavano da sole. In due interi giorni passati da quando… era successo, avevo dormito in totale non
più di quattro ore.
Mi spagliai lentamente del pigiama,
facendo scomparire
la maglietta. Non mi soffermai, come di solito avevo sempre fatto,
sulla mia
pancia.
Ero una madre orribile.
Non dormivo più,
perché non potevo rivivere quello che
mi era successo. Perché non potevo, non potevo,
addormentarmi e lasciarmi
andare ancora in balia del dolore. In balia del tormento, in balia del
terrore.
Mi ficcai sotto il getto caldo,
lasciando che
m’inondasse completamente il viso e concedendomi, la prima
volta dopo due
giorni, un silenzioso pianto.
Ero una
madre
orribile.
Ero una madre orribile,
perché da ben due giorni i
miei occhi non si soffermavano sul mio ventre. Perché le mie
mani non l’avevano
più accarezzato, perché le mie emozioni non
avevano più sfiorato la mia
creatura.
Perché, da quando il
vuoto si era impossessato in un
istante di me, da quando il terrore mi aveva sommersa e rinchiusa, da
quando il
più crudo dolore mi aveva fatto sperare la morte, da quando,
quel giorno
affatto lontano, la bambina aveva preso il sopravvento su di me,
imprigionando
la mia mente ancora cosciente, avevo paura.
Avevo
paura
di mia figlia.
Singhiozzai, e subito dopo mi misi
a tacere,
mordendomi un labbro e appoggiando una mano alla superficie appannata
della
parete di vetro. Edward non lo doveva sapere, mai. Mi disgustavo
orribilmente
della mia persona, per quegli orribili pensieri. E poi… per
lui sarebbe stato
un tormento, sapere che uno degli oggetti del suo amore era la causa
del
terrore dell’altro.
Per questo manifestavo il meno
possibile le mie
emozioni. Per questo non piangevo. Per questo, mentre ero stesa fra le
sue
braccia, fingevo di dormire.
Ero troppo terrorizzata per farlo
realmente…
Si era creata in me una distorta
immagine di mia
figlia. Era più esatto dire che si fosse sdoppiata,
duplicata. Avevo letto che
una donna incinta tende ad idealizzare, immaginare, costruirsi nella
mente
l’idea del proprio bambino. Io ne avevo costruite due. Una,
era la mia piccola
bambina, dolce, indifesa, che amavo e continuavo ad amare con tutto il
mio
cuore. Dell’altra avevo solo e semplicemente paura.
Quando mi ritrovai davanti allo
specchio osservai con
attenzione i miei occhi. Non sapevo cosa avrebbe rilevato
l’attenzione di un
vampiro. Il sonno o un accidentale incidente con del sapone sarebbero
bastati
per non farmi scoprire?
Mi portai una mano alla fronte
quando per alcuni
secondi la mia vista turbinò, facendomi perdere
l’equilibrio. Riacquisii
velocemente il controllo di me stessa, sbattendo velocemente le
palpebre.
Dovevo mangiare. Il mancato sonno
mi toglieva gran
parte delle forze, e obbligatoriamente dovevo cercare di recuperarle
con il
cibo.
«Bella?».
Sussultai quando sentii Edward aldilà della
porta del bagno.
Mi dovette richiamare ancora una
volta per
costringermi a rispondere. «Eccomi» mormorai piano,
nascondendo qualsiasi sottointeso
con il basso volume della voce.
Lo ritrovai di fronte a me, gli
occhi appositamente tranquilli
fissi sulla mia persona. Si avvicinò con un passo elegante,
lasciandomi un
breve bacio sulle labbra. Mosse una mano, accarezzandomi il ventre. Era
così
abitale per lui, che mi ricordava quanto lo fosse stato anche per me.
Mi
ricordava la brusca interruzione di quell’abitudine, la
nascita del secondo
bambino.
Lo abbracciai, sorridendo piano,
puramente a suo
beneficio, posando la testa sul suo petto ampio. Continuò ad
accarezzarmi, ma
la bambina non si mosse. Era così strano che non lo facesse.
Era assurdo che
non si muovesse da ben due giorni.
Ero in uno strano modo consapevole
di essere molto
preoccupata, e speravo e sapevo che Edward se ne sarebbe accorto,
riferendolo
possibilmente a Carlisle. Lo speravo, ma proprio non ce la facevo a
parlare di
lei, a pormi volontariamente il problema, ad affrontarlo. Era troppo,
troppo.
Ed ero convinta che mi sarei
sacrificata per lei, che
avrei silenziosamente sopportato il dolore, che il mio amore nei suoi
confronti
sarebbe potuto solo crescere.
Ma come si fa a non aver paura
davanti al terrore? Al
dolore? Alla morte?
Mi ero scherzosamente professata
masochista, mi
sbagliavo. Avevo e continuavo inesorabilmente ad avere paura.
Notai i suoi occhi titubanti nei
miei. «Hai sentito…
Qualcosa di strano?» mi chiese, sistemandomi una ciocca
ribelle di capelli.
Sembrava un po’ preoccupato. Avevo imparato a conoscere i
suoi occhi sotto la
sua bella maschera da vampiro.
«Strano?» gli
chiesi, fissandolo di rimando, tentando
di individuare a cosa si stesse riferendo.
Sospirò, posando
nuovamente una mano sulla mia pancia.
«Intendo, riguardo alla bambina. Io ero un po’
indeciso» si bloccò, spostando i
suoi occhi fra il grembo e me, incerto se continuare. «Si sta
muovendo poco?»
chiese infine, con delicatezza.
Probabilmente non me
l’aveva fatto presente
precedentemente per non turbarmi. Fui sollevata dal fatto che me
l’avesse
chiesto. Annuii, mentre sospiravo dentro me.
«Sì» mormorai appena. Lasciai che
la preoccupazione prendesse per un istante il sopravvento su di me, che
la
bambina diventasse una sola, il mio piccolo amore.
«Molto… poco…» mormorai e
poi deglutii, ingoiando ancora una volta le lacrime, sentendomi in
colpa.
Lui annuì, sorridendomi
dolcemente. Mi baciò la fronte
e mi rassicurò.
Quando l’ennesimo
capogiro m’investì decisi che non
potevo più indugiare sul petto di Edward, malgrado adorassi
quel contatto.
Contatto massimo avuto, in quei due giorni. Non sapevo quanto avesse
capito del
mio comportamento, speravo ben poco. Ma non ero così sciocca
da credere che non
si fosse accorto quanto fossi rimasta segnata da quello che era
avvenuto. Così
non mi aveva fatto alcun genere di pressione, e io non ero andata a
cercare
nessun contatto che fosse più intimo di un bacio.
Spalmai con solerzia la marmellata
sul pancarré,
ascoltando le sue parole disinteressate.
«Esme ha comprato la
confettura alle ciliegie e dice
che se vuoi potrebbe anche imparare a farla. E poi ci sono i
mirtilli…».
«Devo imparare a fare la
salsa di mirtilli freschi»
m’imposi d’interromperlo, per dimostrare il mio
interessamento in realtà
inesistente.
Le sue sopracciglia si arcuarono un
attimo, sorprese.
Mi parlava per un tacito accordo di apparente serenità,
probabilmente non si
aspettava che gli rispondessi con qualcosa di diverso da un “mm-mm”.
«Certo. Non so se Esme ne sia capace, ma sono certo che tu
imparerai alla
perfezione».
Mi venne accanto, sedendosi su un
alto sgabello, di
lato al mio. Il nostro rapporto era stato perlopiù
taciturno, ma molto solido e
unito. Edward si era molto adoperato per me, mi era sempre stato
accanto,
supportandomi, condividendo la mia paura. Mi aveva rassicurata,
dicendomi che
avremmo capito tutto, che non sarebbe accaduto più. Non
rispondevo, mi limitavo
al più ad annuire, consapevole. Sapevo che anche lui era
spaventato. Perché entrambi
sapevamo che prima o poi sarebbe potuto succedere ancora, anche mentre
ero
cosciente, che non eravamo venuti ancora a capo di nulla di tutte
quelle strane
coincidenze. E se fosse stato ancora di
quell’intensità, o addirittura
maggiore… Non sapevo. Non avevo idea di quello che avrei
fatto. Finii di masticare
il mio boccone, passando automaticamente una mano per stropicciarmi gli
occhi.
«Hai dormito?»
mi chiese di punto in bianco, neutro,
non smettendo di osservare il mio viso.
Sussultai, e mi affrettai ad
annuire. Presi il mio
piatto e animata come da un istinto di fuga mi spostai sul divano del
soggiorno. Insisteva sempre perché dormissi. Sapeva che il
mio organismo ne
risentiva molto, e in una notte passata assieme non potevo fingere per
più di
due ore, solo per rassicurarlo in qualche modo delle mie condizioni. Ma
sapeva
quanto non potessi né riuscissi a prendere sonno.
«Sei stanca»
mormorò, improvvisamente comparso al mio
fianco.
Finii di trangugiare una delle
fette di pane,
affrettandomi per fare spallucce e accendere la Tv, disinteressata. Non
smise
di guardarmi per tutto il tempo, mentre finivo di mangiare, sottoposta
ai suoi
occhi, la mia merenda. Furono molte le volte in cui virai al rosso.
Molte di
più quelle in cui impallidii, stanca.
«Bella, io penso
che…».
«Scusa» lo
interruppi, spostando il piatto vuoto dal
un lato e facendo per alzarmi «devo sistemare la camera per
mia madre e… non ho
fatto ancora nulla». Non lo fissi negli occhi. Vagai con lo
sguardo, ferendomi
il labbro con i denti.
Rimase due secondi in silenzio, poi
si sollevò,
posandomi una mano sulla spalla per impedirmi di fare lo stesso. Mi
sorrise,
guardandomi negli occhi. «Lo faccio io, va bene?».
«Ma» provai ad
obbiettare in ogni modo, inventando
scuse inutili «mia madre… lei…
è allergica alla seta e…».
«Vuol dire che non la
userò».
«Ma… devo
rassettare, pulire…». Qualunque cosa per
evadere e soprattutto, evitare di dormire.
Si abbassò, baciandomi
le labbra. «Ci metterò
pochissimo». E così scomparve in un istante.
Mi lasciai andare sullo schienale,
respirando
rumorosamente, una smorfia sul viso. Il seme che cresceva in me, la
vita
collegata miracolosamente alla mia stessa vita, mi faceva de male.
Perché?
Avvicinai una mano in grembo, fino quasi a sfiorarlo, animata
dall’amore. Ma
poi… la ritirai, spaurita.
Sospirai. La mia piccola non si
muoveva… La paura che
provavo per lei, per l’immagine dell’incantevole
bambina, stava soppiantando
rapidamente quella che provavo per me, tanto che fui sul punto di
chiamare
Edward, di piangere, spaventata, per la sorte della nostra bambina,
come ogni
madre avrebbe fatto, esageratamente preoccupata, desiderosa di essere
rassicurata. Ma ancora una volta non lo feci. Non ce la facevo. Dovevo
combattere con l’altra,
l’altra
bambina. Strinsi le gambe e ingoiai il magone, alzando al massimo il
volume
della televisione.
Un
ronzio
nella testa, man mano sempre maggiore. Si trasformò in un
fischio, e divenne
tanto stridente da farmi impazzire. Provai a muovere le braccia,
portandole
alla testa in un gesto istintivo, provando a contenere quello che ormai
stava
diventando dolore. Ma non riuscivo a muovermi. Ero imprigionata,
legata,
stretta, rinchiusa. E stavo impazzendo, stavo impazzendo
perché l’ansia si
faceva strada in me, la testa pulsava, forte. E sapevo che il cuore
sarebbe
dovuto impazzire, sapevo che il petto si sarebbe dovuto muovere,
veloce,
rincorrendo il fiato che sembrava mancarmi, e mi faceva morire il fatto
che non
lo facesse. Mille aghi mi perforavano il cervello, pervaso come da una
fortissima scossa elettrica. Volevo urlare, urlare, urlare alla figura
di mio
marito, davanti ai miei occhi, di salvarmi o di uccidermi per porre
fine a
quello strazio. Ma non potevo.
Mi sollevai di soprassalto, il
cuore velocissimo nel
petto. Ansimai, osservando intorno a me la penombra, tentando di
mettere a
fuoco qualcosa. Ero sudata, causa la coperta che mi era stata con amore
e cura
sistemata addosso. Probabilmente senza quella non mi sarei svegliata.
Mi portai le mani fra i capelli,
osservandomi intorno.
I lustri delle finestre si aprirono, facendo passare la luce. Strizzai
gli
occhi, abituandomi all’improvviso chiarore.
«Mi…
mi… sono…» balbettai, non appena Edward
comparve
accanto a me.
«Avresti potuto dormire
di più. Sono passate appena
tre ore» disse apprensivo, avvolgendomi nuovamente nella
coperta e stringendomi
a sé. Mi accarezzò la schiena con la mano,
desideroso di sentirmi tranquilla.
Sospirai, umettandomi le labbra
secche.
Presi un bicchiere
d’acqua, sciogliendo l’arsura della
gola. Aveva ragione Edward, avrei avuto bisogno di dormire di
più. Suonarono
alla porta, e dopo pochi istanti sentii l’inconfondibile voce
di mio suocero. Il
motivo della sua visita fu in leggero dubbio finché la
presenza della sua
familiare borsa di cuoio non lo fugò. Ero sollevata dal
fatto che Edward
l’avesse chiamato.
Non parlai, rimasi in silenzio per
tutta la durata
della visita. Non avevo mai visto Carlisle così concentrato
e chiedermi cosa
gli passasse per la testa era… impossibile. Edward stringeva
costantemente la
mia mano fra le sue, pensando sicuramente a quanto fossi preoccupata
per la
bambina. E lo ero. Una parte di me lo era realmente. Per il resto mi
sentivo
completamente svuotata, in balia di
qualcosa che non mi apparteneva.
Carlisle sospirò piano,
una tipica abitudine umana.
Era così abituato a dimostrarsi uomo fra gli uomini. Una
persona dotata di
infinita forza di volontà e coraggio. Di certo, lui non
avrebbe mai temuto di
uno dei suoi figli. Tutt’al più
l’avrebbe fatto per i
suoi figli.
Distolsi lo sguardo, afflitta.
Forse non avrei mai
potuto essere una madre.
«Non posso dire niente
con precisione». La sua voce mi
arrivò come lontana, registrata. «Sapevo che prima
o poi l’avrei detto, ma
speravo non fosse così. La membrana mi impedisce di sapere
qualunque cosa in
più». Temporeggiò, afflitto, notando
che non mi voltavo nella sua direzione.
Edward si chinò su di
me, abbracciandomi silenzioso.
Era preoccupato, era un padre davvero preoccupato, eppure si premurava
di
rassicurare me, perché pensava quanto stessi soffrendo per
la nostra bambina. Strinsi
le braccia attorno al suo collo, silenziosa, voltandomi appena per
posare la
testa sulla sua spalla.
«La nota positiva
è che il battito è buono» mi
rassicurò Carlisle, «ma… non lo so.
Dovremmo valutare l’ipotesi di un ricovero
entro domani».
Rimasi ferma, silenziosa. Le parole
mi arrivavano
addosso prive di significato.
«Potresti dirmi con
più precisione quali sono stati i
suoi movimenti?» mi chiese cortese.
Mi morsi un labbro, senza
scompormi. Mi presi molto
tempo per rispondere. «Si è mossa…
poco… pochissimo…» distolsi lo sguardo,
chiusi gli occhi, afflitta dalla vaghezza delle mie indicazioni.
Edward rispose per me, dando a
Carlisle delle
informazioni più precise. «…e nelle
ultime tre ore l’ho sentita solo tre volte,
ma non erano movimenti significativi…».
Improvvisamente s’interruppe,
irrigidendosi.
Sentii un sibilo e immediatamente
mi staccai, guardando
negli occhi mio marito.
«Stai tranquilla,
Bella» mi rassicurò, veloce. Saettò
con lo sguardo su Carlisle. «Perché è
venuto? Non doveva aspettare che
andassimo noi?».
Carlisle strinse le labbra.
«Non lo so, Edward. Ci
conviene parlargli, ora, subito. La situazione ci sta sfuggendo di
mano, e
abbiamo bisogno di aiuto».
I miei occhi passavano veloci da
uno all’altro, senza
fermarsi. Non erano preoccupati. Più che altro infastiditi e
sull’attenti. Edward
si voltò verso di me, scrutandomi. «Vai»
disse a suo padre, che scomparve in un
istante. Passò una mano sotto la mia nuca, guardandomi
intensamente. «Per
affrontare questa cosa abbiamo bisogno di aiuto Bella. Ti prometto che
tutto
passerà, tutto si sistemerà»
sospirò, stringendo le labbra lisce «dobbiamo
fidarci del professor Philip,
adesso».
Sapevo che l’avrebbe
detto. Aspettavo solo il momento
in cui l’avrebbe fatto. D’altra parte, avevamo
stretto un patto con quell’uomo,
e in questo momento il nostro stato di difficoltà era
palese. In realtà, per quanto
riluttante fossi all’idea di farmi aiutare da lui, avevo
segretamente
cominciato a sperare che le cose potessero davvero aggiustarsi. Che
avrebbe
trovato una soluzione per il mio snaturato istinto di madre.
Per questo motivo
l’accolsi nel mio soggiorno, e non
feci neppure una grinza mentre lo osservavo ascoltare quello che Edward
e
Carlisle gli stavano raccontando. Sorseggiava lentamente il Whisky che
io
stessa ero andata a versargli. Tutto, pur di allontanarmi anche solo un
secondo
dai quei piccoli occhi cerulei che non smettevano di fissarmi. Edward
aveva
intuito il mio stato di tensione, sedendosi accanto a me sul divano,
tenendomi
stretta con un braccio.
Avevo maturato un occhio critico
nei confronti di
quell’uomo, tanto da accorgermi che c’era una
sottile differenza nel suo
comportamento, nei suoi modi, nei suoi sguardi, fra quelli burberi e
bruschi
che rivolgeva al resto del mondo, e quelli che invece rivolgeva a me.
«La strana convergenza
dei licantropi, quello che ha
fatto la bambina, quello che è successo a Bella…
sembrano cose troppo
eterogenee per stare assieme. Non riusciamo ad individuarne la
causa», spiegò,
concludendo, Carlisle.
I suoi occhi fiammeggiarono. Si
strinsero, si
allargarono. La fronte si corrugò e poi si distese. Mi
chiesi quali pensieri
potessero passare in quella mente. «Non vi dirò
niente» sancì infine, dopo un
maturato ragionamento.
La testa di Edward
scattò immediatamente verso di lui.
«Cosa?».
Sembrava tranquillo per aver
stuzzicato pesantemente
un vampiro. «Questo non ha niente a che fare con la natura
della bambina e la
gravidanza. Non rientra affatto nel patto».
La mascella di Edward si
serrò, ne sentii lo schiocco
secco. «Cosa intende dire?».
«Niente di più
di quello che ho detto. Non vi dirò
nulla».
Ansimai, scossa. Mio marito
scattò in piedi,
avvicinandosi in due ampie falcate a quell’uomo. «I miei fratelli sono in giro per il modo
a cercare sua figlia, e Dio solo sa
quanto sia
doloroso per loro essere strappati dalla propria famiglia».
Il suo tono era
pedante e sibilante «Non mi appello alla sua coscienza, alla
sua integrità di
uomo. Non me lo aspetto» aggiunse con disprezzo,
«Ma non mi interessa quanto
quello che le ho chiesto competa o meno l’ambito del
contratto. Lei. Ora. Mi dirà
quello che voglio sapere».
Era tanto vicino da scoprire i
denti a meno di un
metro dal suo collo. Ma Philip non si mosse, non batté
ciglio. Carlisle avanzò
appena di un passo, certamente consapevole di quanto potesse essere
pericoloso
un vampiro fuori controllo.
«No» rispose
semplicemente.
Edward ringhiò, forte,
tanto da far rabbrividire anche
me. Era un vero vampiro e faceva paura. «Che cosa vuole? Che
cosa c’è ancora?
Vuole denaro? Lo prenda pure, anche
tutto quello che ho, ma lei mi deve dire quello che succede a mia
moglie, ora!».
«Edward» lo
richiamò Carlisle, osservando attento la
scena, pronto ad intervenire.
I muscoli del suo avambraccio si
muovevano
convulsamente, pulsando. Le mani erano serrate in due pugni stretti, e
ogni
parte del suo corpo era rigida a tesa. Come se stesse resistendo
all’istinto di
ammazzarlo. Probabilmente era davvero così.
Neppure questa volta il professore
si mosse,
sostenendo il suo sguardo.
Quanto a me, non riuscivo a
distogliere lo sguardo da
nessuno dei due. Sentivo la fiammella della speranza, quella flebile e
dispersa
in me, spegnersi mentre ci soffiavano cinicamente sopra.
«Potrei ammazzarla, se
solo volessi» pronunciò con un
tono di spettrale neutralità gli occhi fiammeggianti fissi
nei suoi.
L’altro sguardo fu
altrettanto deciso e gelido. «Non
avresti le informazioni che cerchi. Nessuna».
Proprio quando vidi Edward
ringhiare, proprio in
quell’istante in cui sentii che aveva perso il controllo e
che più nulla
l’avrebbe trattenuto, decisi di agire. «Edward! Ti
prego!» gridai, scattando in
piedi. «Ti prego!» urlai, in preda al terrore.
Immediatamente mi ritrovai fra le
sue braccia,
sostenuta dal suo abbraccio freddo. Mi mise seduta sul divano, stretta
a lui.
Gli accarezzai i capelli, velocemente, rassicurandolo. «Non
importa Edward. Non
importa…» mormoravo atona «non lo puoi
obbligare. Non lo puoi obbligare…»
ansimavo, sentendo quanto le mie parole stridessero con quello che
provavo. Non
c’era più alcuna speranza, nessuna.
«Io… io…» farfugliai.
Edward mi prese il viso fra le
mani, osservandomi,
fissandomi addolorato. Si capiva così tanto quanto stessi
soffrendo? Mi riprese
fra le sue braccia, ricominciando a stringermi.
Con la testa posata sulla sua
spalla vidi
l’espressione di Philip, stranamente crucciata. Deglutii
quando mosse un passo
per avvicinarsi, cominciando a tremare.
Ma improvvisamente, con un
movimento fluido, Edward si
staccò da me, tenendomi per le braccia e osservando in
silenzio oltre la vetrata.
Il suo sguardo era attento e concentrato. «Carlisle, dei
pensieri. Vado a
controllare, rimani con Bella».
Tanto furono un limpido mormorio
che non avrei mai
potuto comprendere quelle parole se le sue labbra non fossero state a
pochi
centimetri dalle mie. Non passò un secondo che davanti a me
lo spazio fu
incredibilmente vuoto.
Ero a dir poco spiazzata da quello
che era appena
accaduto. Non tanto da impedirmi di capire, seppure con qualche secondo
di
ritardo, quello che era passato per la sua testa. I
licantropi. Erano loro? Avrei sofferto ancora?
Non mi importava. In
quell’istante una preoccupazione
molto maggiore si stava facendo strada in me.
«Carlisle» chiamai decisa,
sollevandomi e guardandolo negli occhi «va con lui»
mormorai certa.
L’indecisione
passò nel suo sguardo, che saettò
immediatamente nella direzione del professore. Certo, non volevano
lasciarmi
sola con lui. «Bella».
Ansimai, preoccupata, arrabbiata, spaventata. «Vai. Ti prego.
Se davvero sono i licantropi sai perfettamente anche tu quanto possa
essere
pericoloso. Vai».
La sua fronte perfetta
s’increspò, e i suoi occhi
gialli s’incatenarono ai miei. Stavo per pregarlo ancora,
quando si mosse. Mi
mise una mano sulla spalla, spingendomi verso la porta della mia
camera.
«Veloce, entra qui dentro. È la stanza
più protetta. Chiuditi a chiave e»
guardò ancora il professor Philip, che ci stava seguendo
«stai attenta
Bella».
Prima che potesse scomparire,
chiudendo la porta,
presi una mano fra le mie. «State attenti voi».
Mi baciò la fronte e in
un istante fui sola. Chiusi la
porta a doppia mandata e mi assicurai di avere la chiave ben stretta in
pugno.
Camminai come un fantasma, andandomi a sedere sul bordo del mio letto.
I pensieri, l’angoscia,
la preoccupazione, erano
mischiati in me, alimentati in ogni modo. C’era una parte
della mia mente che
immaginava quello che sarebbe potuto accadere in un confronto fra
Edward,
Carlisle, e quei giganteschi lupi.
L’altra, era
l’istinto di auto-conservazione.
Alimentata da due cause tanto distinte e autonome quanto fonte di certa
paura.
L’ultima volta quel pazzesco dolore si era verificato in
presenza di un lupo, e
la mia mente sperava che non fosse quello il meccanismo di innesto di
quella
tortura. L’altra causa mi faceva tremare come una foglia,
più imminente e vicina.
«Isabella».
Sussultai, mettendo a tacere i miei
fremiti. Pareva anche
lui crucciato, preoccupato. Non l’avevo mai visto
così. Probabilmente era la
vicinanza ai licantropi a sortirgli quell’effetto. Avrei
potuto dirgli di
sedersi, di accomodarsi. Avrei potuto essere gentile e cortese. Ad
impedirmelo
era il senso di soggezione che mi suscitava.
Mi fissò negli occhi con
sicurezza. «Non soffrite così
tanto» si avvicinò ancora, piegando per un attimo
la testa di lato. Pareva come
se… mi volesse rassicurare. «Non vi
accadrà più, ve lo giuro».
Aprii la bocca, stupita, mentre i
miei pensieri
continuavano a ripetere continuamente quella frase, senza cavarne nulla
di
sensato.
Continuò a parlare,
certo che non avessi compreso.
«Quello che è successo l’altra volta. Il
buio, la confusione, il dolore».
Rabbrividii. «Non accadrà più. Era la
fine. È passato».
Sentivo il mio respiro pesante e
lento, mentre provavo
a capacitarmi delle sue parole, arrivando persino a cercare di
ricordare quando
fossi svenuta, magari stremata dalle poche ore di sonno. Eppure mi
sembrava
così vero quello che il mio cervello cercava in ogni modo di
negare. Per quale
motivo non aveva detto nulla, prima? Per quale motivo ora mi stava
confessando
tutto questo?
«Non poso dirvi di
più» aggiunse addolorato,
spiazzandomi. Non mi sarei aspettata, mai, di vederlo così,
un giorno,
specialmente dopo la brutalità e la misantropia con cui
aveva respinto le
mozioni di Edward pochi minuti prima. «Non posso e,
credetemi, è meglio per
voi. Ma vi ho detto quello che volevate sapere, Isabella».
Con lentezza elaborai quello che
avevo appreso. Niente
più dolore, niente più buio, nessun pensiero
latente, nessuna paura di chiudere
gli occhi e abbandonarsi al mondo dei sogni. Non sapevo come crederci.
Fece un passo verso di me,
trovandosi a meno di due
metri di distanza. Sgranai gli occhi preoccupata. Mi guardava
intensamente,
come se anche con lo sguardo volesse comunicarmi qualcosa.
«Vi ho osservata.
Siete una persona che affronta i problemi, temeraria in genere. Avete
poca
considerazione del senso del pericolo. Eppure, osservandovi ancora,
oggi, non
ho potuto fare a meno di notare i vostri occhi bassi» disse,
ormai troppo
vicino a me, quasi sfiorandomi con la sua fragile pelle «la
vostra espressione
afflitta e inanimata» si chinò, il viso vicino al
mio.
Tremai, chinandomi automaticamente
indietro.
«Ma soprattutto, le
vostre mani, i vostri occhi, che mai
si sono posati sul vostro grembo.
Voi avete paura» asserì convinto, spiazzandomi.
Ansimai velocemente, agitata,
turbata.
«Anche mia moglie aveva
paura. Ne sono convinto. Voi
avete paura di vostra figlia».
Strizzai gli occhi e scossi il
capo, tentando in ogni
modo di negare l’evidenza, negare ciò che se
pronunciato ad alta voce, ammesso,
assodato, mi avrebbe portato alla pazzia. No, no, no!
Sussultai quando sentii la sua
mano, ruvida, sulla mia
guancia. Rabbrividii.
«Non devi aver paura di
lei» mi rassicurò «Isabella,
non devi averne. Non è stata lei a procurarvi quello che
avete sentito. Non ne
ha la volontà, né il potere. Non è
stata lei».
Il mio respiro pesante era rotto da
fremiti. Non
riuscivo più a comprendere, nulla.
Non era la mia bambina la fonte di
tutto quel dolore…
Non era lei… Eppure ne eravamo stati convinti, a lungo,
com’era possibile?
Come?
«Lei…
lei… Sono i suoi sogni… sono i sogni della
bambina… cosa… cosa…»
farfugliai.
La sua mano si mosse sua mia
guancia, tesa a
rassicurarmi. «Voi avete sentito ciò che era
destinato a lei, percependolo in
maniera assai distorta. Lei ha solo fatto da tramite. È
vero, sono pensieri che
scorrono nella sua mente, ma non ha nessuna colpa».
Mi lasciò libera,
allontanando la mano da me, e
proprio in quell’istante scoppiai a piangere, singhiozzando,
gemendo.
Non era lei, non era colpa sua.
Immediatamente le due
bambine che avevo immaginato in quei giorni diventarono
un’unica figura, unita
e perfetta. La bambina che non avevo mai smesso di amare. Che mi voleva
bene
esattamente quanto io a lei. Singhiozzai forte, senza sosta, senza
desiderio di
fermarmi.
Non badai alle mani che mi
sfilavano la chiave dalle
mani, ai successivi rumori.
«Bella!»
esclamò Edward, allarmato, entrando di corsa
nella stanza.
Non avevo pianto, per due giorni,
non avevo pianto. E
ora mi stavo sfogando di tutte le lacrime che non avevo versato. Ora,
mentre
tutto tornava al suo posto, e mi sentivo ancora disposta ad affrontare
la vita.
Era come se il torpore, la paura, l’angoscia di quei giorni,
fossero stata
spazzati, e mi sentivo incredibilmente leggera, come quando da bambina,
in
primavera, rimanevo ferma nei grandi campi, sentendo il fruscio del
vento
passarmi accanto, accarezzarmi. Chiudevo gli occhi e ogni cosa mi
sembrava
essere tornata alla perfezione.
Edward mi strinse fra le sue
braccia, e immediatamente
ricambiai, stringendolo, baciandogli il viso. «Bella,
cos’hai? Cosa succede?
Cosa ti ha fatto?».
Scossi il capo, tirandomi indietro
per permettergli di
guardarmi in viso. Mi portai, silenziosa, una mano al ventre,
sentendomi ancora
una volta nella vita perfetta e completa. Si mosse. Un movimento
deciso, lungo
e prolungato, e la sentii dentro me, viva.
Risi, risi, risi. Risi gioendo di
quella vita, risi,
divertita dall’espressione confusa di mio marito.
Nell’ora successiva
spiegai sia a lui che a Carlisle
quello che il professore mi aveva detto prima di scomparire. Non parlai
della
mia paura, non dissi nulla. Non ero ancora pronta per farlo. Ma fui
davvero
felice di sentire perfettamente i movimenti della piccola, che non
smise un
secondo di agitarsi.
Fortunatamente i pensieri percepiti
da Edward non
provenivano da quelli che mi veniva sempre più naturale
chiamare nemici, ormai.
Mi sorrideva, contento di vedermi più serena. Magari avrei
dovuto dire grazie
al professor Philip. Magari. Avevo ancora troppi dubbi sul suo conto,
tanti
quanti ne aveva lasciati non dandoci delle spiegazioni concrete.
Ma non riuscivo ancora a pensarci.
Ero accecata
dall’idea che nulla di male sarebbe più accaduto,
e che la mia piccolina non mi
aveva mai fatto, né voluto fare del male. Ci speravo davvero.
Un quesito ancora rimaneva
irrisolto: chi o cosa era
entrato a contatto con la piccola?
Non importava. Avrei avuto il tempo
e la forza di scoprirlo.
«Edward» lo
chiamai quella sera, stanca, ma serena,
contenta di andare a dormire e riposarmi. Osservai il pacchetto sul
tavolo del
soggiorno «dobbiamo finire qualcosa».
Mi sorrise, stringendomi per i
fianchi. Mi sollevò
senza alcuno sforzo, quel tanto che bastava per permettermi di
sistemare il
puntale e finire l’albero.
Il nostro albero.