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Autore: keska    06/03/2010    35 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Mi affaccendai con il lenzuolo bianco, sistemandolo e lisciando le pieghe.

Ogni gesto che compivo mi costava un certo sforzo, e la fiacchezza gravava inesorabilmente su di me. Rifare il letto era vitale, però. Significava impedire a mio marito ad esortarmi a riposare, ancora una volta, apprensivo e preoccupato per la piega che stavano prendendo le cose.

Scoccai un’occhiata alla porta della camera e la trovai chiusa, esattamente come l’avevo lasciata. Sapeva quali erano i miei spazi. Sapeva che se l’avevo fatto era perché avevo bisogno di stare sola. Distolsi l’attenzione, trascinandomi stancamente nel bagno, bisognosa di lavare via il velo di sudore che mi aveva man mano ricoperta durante la notte.

Il mio ritratto allo specchio non mentì. Le mie occhiaie parlavano da sole. In due interi giorni passati da quando… era successo, avevo dormito in totale non più di quattro ore.

Mi spagliai lentamente del pigiama, facendo scomparire la maglietta. Non mi soffermai, come di solito avevo sempre fatto, sulla mia pancia.

Ero una madre orribile.

Non dormivo più, perché non potevo rivivere quello che mi era successo. Perché non potevo, non potevo, addormentarmi e lasciarmi andare ancora in balia del dolore. In balia del tormento, in balia del terrore.

Mi ficcai sotto il getto caldo, lasciando che m’inondasse completamente il viso e concedendomi, la prima volta dopo due giorni, un silenzioso pianto.

Ero una madre orribile.

Ero una madre orribile, perché da ben due giorni i miei occhi non si soffermavano sul mio ventre. Perché le mie mani non l’avevano più accarezzato, perché le mie emozioni non avevano più sfiorato la mia creatura.

Perché, da quando il vuoto si era impossessato in un istante di me, da quando il terrore mi aveva sommersa e rinchiusa, da quando il più crudo dolore mi aveva fatto sperare la morte, da quando, quel giorno affatto lontano, la bambina aveva preso il sopravvento su di me, imprigionando la mia mente ancora cosciente, avevo paura.

Avevo paura di mia figlia.

Singhiozzai, e subito dopo mi misi a tacere, mordendomi un labbro e appoggiando una mano alla superficie appannata della parete di vetro. Edward non lo doveva sapere, mai. Mi disgustavo orribilmente della mia persona, per quegli orribili pensieri. E poi… per lui sarebbe stato un tormento, sapere che uno degli oggetti del suo amore era la causa del terrore dell’altro.

Per questo manifestavo il meno possibile le mie emozioni. Per questo non piangevo. Per questo, mentre ero stesa fra le sue braccia, fingevo di dormire.

Ero troppo terrorizzata per farlo realmente…

Si era creata in me una distorta immagine di mia figlia. Era più esatto dire che si fosse sdoppiata, duplicata. Avevo letto che una donna incinta tende ad idealizzare, immaginare, costruirsi nella mente l’idea del proprio bambino. Io ne avevo costruite due. Una, era la mia piccola bambina, dolce, indifesa, che amavo e continuavo ad amare con tutto il mio cuore. Dell’altra avevo solo e semplicemente paura.

Quando mi ritrovai davanti allo specchio osservai con attenzione i miei occhi. Non sapevo cosa avrebbe rilevato l’attenzione di un vampiro. Il sonno o un accidentale incidente con del sapone sarebbero bastati per non farmi scoprire?

Mi portai una mano alla fronte quando per alcuni secondi la mia vista turbinò, facendomi perdere l’equilibrio. Riacquisii velocemente il controllo di me stessa, sbattendo velocemente le palpebre.

Dovevo mangiare. Il mancato sonno mi toglieva gran parte delle forze, e obbligatoriamente dovevo cercare di recuperarle con il cibo.

«Bella?». Sussultai quando sentii Edward aldilà della porta del bagno.

Mi dovette richiamare ancora una volta per costringermi a rispondere. «Eccomi» mormorai piano, nascondendo qualsiasi sottointeso con il basso volume della voce.

Lo ritrovai di fronte a me, gli occhi appositamente tranquilli fissi sulla mia persona. Si avvicinò con un passo elegante, lasciandomi un breve bacio sulle labbra. Mosse una mano, accarezzandomi il ventre. Era così abitale per lui, che mi ricordava quanto lo fosse stato anche per me. Mi ricordava la brusca interruzione di quell’abitudine, la nascita del secondo bambino.

Lo abbracciai, sorridendo piano, puramente a suo beneficio, posando la testa sul suo petto ampio. Continuò ad accarezzarmi, ma la bambina non si mosse. Era così strano che non lo facesse. Era assurdo che non si muovesse da ben due giorni.

Ero in uno strano modo consapevole di essere molto preoccupata, e speravo e sapevo che Edward se ne sarebbe accorto, riferendolo possibilmente a Carlisle. Lo speravo, ma proprio non ce la facevo a parlare di lei, a pormi volontariamente il problema, ad affrontarlo. Era troppo, troppo.

Ed ero convinta che mi sarei sacrificata per lei, che avrei silenziosamente sopportato il dolore, che il mio amore nei suoi confronti sarebbe potuto solo crescere.

Ma come si fa a non aver paura davanti al terrore? Al dolore? Alla morte?

Mi ero scherzosamente professata masochista, mi sbagliavo. Avevo e continuavo inesorabilmente ad avere paura.

Notai i suoi occhi titubanti nei miei. «Hai sentito… Qualcosa di strano?» mi chiese, sistemandomi una ciocca ribelle di capelli. Sembrava un po’ preoccupato. Avevo imparato a conoscere i suoi occhi sotto la sua bella maschera da vampiro.

«Strano?» gli chiesi, fissandolo di rimando, tentando di individuare a cosa si stesse riferendo.

Sospirò, posando nuovamente una mano sulla mia pancia. «Intendo, riguardo alla bambina. Io ero un po’ indeciso» si bloccò, spostando i suoi occhi fra il grembo e me, incerto se continuare. «Si sta muovendo poco?» chiese infine, con delicatezza.

Probabilmente non me l’aveva fatto presente precedentemente per non turbarmi. Fui sollevata dal fatto che me l’avesse chiesto. Annuii, mentre sospiravo dentro me. «Sì» mormorai appena. Lasciai che la preoccupazione prendesse per un istante il sopravvento su di me, che la bambina diventasse una sola, il mio piccolo amore. «Molto… poco…» mormorai e poi deglutii, ingoiando ancora una volta le lacrime, sentendomi in colpa.

Lui annuì, sorridendomi dolcemente. Mi baciò la fronte e mi rassicurò.

Quando l’ennesimo capogiro m’investì decisi che non potevo più indugiare sul petto di Edward, malgrado adorassi quel contatto. Contatto massimo avuto, in quei due giorni. Non sapevo quanto avesse capito del mio comportamento, speravo ben poco. Ma non ero così sciocca da credere che non si fosse accorto quanto fossi rimasta segnata da quello che era avvenuto. Così non mi aveva fatto alcun genere di pressione, e io non ero andata a cercare nessun contatto che fosse più intimo di un bacio.

Spalmai con solerzia la marmellata sul pancarré, ascoltando le sue parole disinteressate.

«Esme ha comprato la confettura alle ciliegie e dice che se vuoi potrebbe anche imparare a farla. E poi ci sono i mirtilli…».

«Devo imparare a fare la salsa di mirtilli freschi» m’imposi d’interromperlo, per dimostrare il mio interessamento in realtà inesistente.

Le sue sopracciglia si arcuarono un attimo, sorprese. Mi parlava per un tacito accordo di apparente serenità, probabilmente non si aspettava che gli rispondessi con qualcosa di diverso da un “mm-mm”. «Certo. Non so se Esme ne sia capace, ma sono certo che tu imparerai alla perfezione».

Mi venne accanto, sedendosi su un alto sgabello, di lato al mio. Il nostro rapporto era stato perlopiù taciturno, ma molto solido e unito. Edward si era molto adoperato per me, mi era sempre stato accanto, supportandomi, condividendo la mia paura. Mi aveva rassicurata, dicendomi che avremmo capito tutto, che non sarebbe accaduto più. Non rispondevo, mi limitavo al più ad annuire, consapevole. Sapevo che anche lui era spaventato. Perché entrambi sapevamo che prima o poi sarebbe potuto succedere ancora, anche mentre ero cosciente, che non eravamo venuti ancora a capo di nulla di tutte quelle strane coincidenze. E se fosse stato ancora di quell’intensità, o addirittura maggiore… Non sapevo. Non avevo idea di quello che avrei fatto. Finii di masticare il mio boccone, passando automaticamente una mano per stropicciarmi gli occhi.

«Hai dormito?» mi chiese di punto in bianco, neutro, non smettendo di osservare il mio viso.

Sussultai, e mi affrettai ad annuire. Presi il mio piatto e animata come da un istinto di fuga mi spostai sul divano del soggiorno. Insisteva sempre perché dormissi. Sapeva che il mio organismo ne risentiva molto, e in una notte passata assieme non potevo fingere per più di due ore, solo per rassicurarlo in qualche modo delle mie condizioni. Ma sapeva quanto non potessi né riuscissi a prendere sonno.

«Sei stanca» mormorò, improvvisamente comparso al mio fianco.

Finii di trangugiare una delle fette di pane, affrettandomi per fare spallucce e accendere la Tv, disinteressata. Non smise di guardarmi per tutto il tempo, mentre finivo di mangiare, sottoposta ai suoi occhi, la mia merenda. Furono molte le volte in cui virai al rosso. Molte di più quelle in cui impallidii, stanca.

«Bella, io penso che…».

«Scusa» lo interruppi, spostando il piatto vuoto dal un lato e facendo per alzarmi «devo sistemare la camera per mia madre e… non ho fatto ancora nulla». Non lo fissi negli occhi. Vagai con lo sguardo, ferendomi il labbro con i denti.

Rimase due secondi in silenzio, poi si sollevò, posandomi una mano sulla spalla per impedirmi di fare lo stesso. Mi sorrise, guardandomi negli occhi. «Lo faccio io, va bene?».

«Ma» provai ad obbiettare in ogni modo, inventando scuse inutili «mia madre… lei… è allergica alla seta e…».

«Vuol dire che non la userò».

«Ma… devo rassettare, pulire…». Qualunque cosa per evadere e soprattutto, evitare di dormire.

Si abbassò, baciandomi le labbra. «Ci metterò pochissimo». E così scomparve in un istante.

Mi lasciai andare sullo schienale, respirando rumorosamente, una smorfia sul viso. Il seme che cresceva in me, la vita collegata miracolosamente alla mia stessa vita, mi faceva de male. Perché? Avvicinai una mano in grembo, fino quasi a sfiorarlo, animata dall’amore. Ma poi… la ritirai, spaurita.

Sospirai. La mia piccola non si muoveva… La paura che provavo per lei, per l’immagine dell’incantevole bambina, stava soppiantando rapidamente quella che provavo per me, tanto che fui sul punto di chiamare Edward, di piangere, spaventata, per la sorte della nostra bambina, come ogni madre avrebbe fatto, esageratamente preoccupata, desiderosa di essere rassicurata. Ma ancora una volta non lo feci. Non ce la facevo. Dovevo combattere con l’altra, l’altra bambina. Strinsi le gambe e ingoiai il magone, alzando al massimo il volume della televisione.

Un ronzio nella testa, man mano sempre maggiore. Si trasformò in un fischio, e divenne tanto stridente da farmi impazzire. Provai a muovere le braccia, portandole alla testa in un gesto istintivo, provando a contenere quello che ormai stava diventando dolore. Ma non riuscivo a muovermi. Ero imprigionata, legata, stretta, rinchiusa. E stavo impazzendo, stavo impazzendo perché l’ansia si faceva strada in me, la testa pulsava, forte. E sapevo che il cuore sarebbe dovuto impazzire, sapevo che il petto si sarebbe dovuto muovere, veloce, rincorrendo il fiato che sembrava mancarmi, e mi faceva morire il fatto che non lo facesse. Mille aghi mi perforavano il cervello, pervaso come da una fortissima scossa elettrica. Volevo urlare, urlare, urlare alla figura di mio marito, davanti ai miei occhi, di salvarmi o di uccidermi per porre fine a quello strazio. Ma non potevo.

Mi sollevai di soprassalto, il cuore velocissimo nel petto. Ansimai, osservando intorno a me la penombra, tentando di mettere a fuoco qualcosa. Ero sudata, causa la coperta che mi era stata con amore e cura sistemata addosso. Probabilmente senza quella non mi sarei svegliata.

Mi portai le mani fra i capelli, osservandomi intorno. I lustri delle finestre si aprirono, facendo passare la luce. Strizzai gli occhi, abituandomi all’improvviso chiarore.

«Mi… mi… sono…» balbettai, non appena Edward comparve accanto a me.

«Avresti potuto dormire di più. Sono passate appena tre ore» disse apprensivo, avvolgendomi nuovamente nella coperta e stringendomi a sé. Mi accarezzò la schiena con la mano, desideroso di sentirmi tranquilla.

Sospirai, umettandomi le labbra secche.

Presi un bicchiere d’acqua, sciogliendo l’arsura della gola. Aveva ragione Edward, avrei avuto bisogno di dormire di più. Suonarono alla porta, e dopo pochi istanti sentii l’inconfondibile voce di mio suocero. Il motivo della sua visita fu in leggero dubbio finché la presenza della sua familiare borsa di cuoio non lo fugò. Ero sollevata dal fatto che Edward l’avesse chiamato.

Non parlai, rimasi in silenzio per tutta la durata della visita. Non avevo mai visto Carlisle così concentrato e chiedermi cosa gli passasse per la testa era… impossibile. Edward stringeva costantemente la mia mano fra le sue, pensando sicuramente a quanto fossi preoccupata per la bambina. E lo ero. Una parte di me lo era realmente. Per il resto mi sentivo completamente svuotata, in balia di qualcosa che non mi apparteneva.

Carlisle sospirò piano, una tipica abitudine umana. Era così abituato a dimostrarsi uomo fra gli uomini. Una persona dotata di infinita forza di volontà e coraggio. Di certo, lui non avrebbe mai temuto di uno dei suoi figli. Tutt’al più l’avrebbe fatto per i suoi figli.

Distolsi lo sguardo, afflitta. Forse non avrei mai potuto essere una madre.

«Non posso dire niente con precisione». La sua voce mi arrivò come lontana, registrata. «Sapevo che prima o poi l’avrei detto, ma speravo non fosse così. La membrana mi impedisce di sapere qualunque cosa in più». Temporeggiò, afflitto, notando che non mi voltavo nella sua direzione.

Edward si chinò su di me, abbracciandomi silenzioso. Era preoccupato, era un padre davvero preoccupato, eppure si premurava di rassicurare me, perché pensava quanto stessi soffrendo per la nostra bambina. Strinsi le braccia attorno al suo collo, silenziosa, voltandomi appena per posare la testa sulla sua spalla.

«La nota positiva è che il battito è buono» mi rassicurò Carlisle, «ma… non lo so. Dovremmo valutare l’ipotesi di un ricovero entro domani».

Rimasi ferma, silenziosa. Le parole mi arrivavano addosso prive di significato.

«Potresti dirmi con più precisione quali sono stati i suoi movimenti?» mi chiese cortese.

Mi morsi un labbro, senza scompormi. Mi presi molto tempo per rispondere. «Si è mossa… poco… pochissimo…» distolsi lo sguardo, chiusi gli occhi, afflitta dalla vaghezza delle mie indicazioni.

Edward rispose per me, dando a Carlisle delle informazioni più precise. «…e nelle ultime tre ore l’ho sentita solo tre volte, ma non erano movimenti significativi…». Improvvisamente s’interruppe, irrigidendosi.

Sentii un sibilo e immediatamente mi staccai, guardando negli occhi mio marito.

«Stai tranquilla, Bella» mi rassicurò, veloce. Saettò con lo sguardo su Carlisle. «Perché è venuto? Non doveva aspettare che andassimo noi?».

Carlisle strinse le labbra. «Non lo so, Edward. Ci conviene parlargli, ora, subito. La situazione ci sta sfuggendo di mano, e abbiamo bisogno di aiuto».

I miei occhi passavano veloci da uno all’altro, senza fermarsi. Non erano preoccupati. Più che altro infastiditi e sull’attenti. Edward si voltò verso di me, scrutandomi. «Vai» disse a suo padre, che scomparve in un istante. Passò una mano sotto la mia nuca, guardandomi intensamente. «Per affrontare questa cosa abbiamo bisogno di aiuto Bella. Ti prometto che tutto passerà, tutto si sistemerà» sospirò, stringendo le labbra lisce «dobbiamo fidarci del professor Philip, adesso».

Sapevo che l’avrebbe detto. Aspettavo solo il momento in cui l’avrebbe fatto. D’altra parte, avevamo stretto un patto con quell’uomo, e in questo momento il nostro stato di difficoltà era palese. In realtà, per quanto riluttante fossi all’idea di farmi aiutare da lui, avevo segretamente cominciato a sperare che le cose potessero davvero aggiustarsi. Che avrebbe trovato una soluzione per il mio snaturato istinto di madre.

Per questo motivo l’accolsi nel mio soggiorno, e non feci neppure una grinza mentre lo osservavo ascoltare quello che Edward e Carlisle gli stavano raccontando. Sorseggiava lentamente il Whisky che io stessa ero andata a versargli. Tutto, pur di allontanarmi anche solo un secondo dai quei piccoli occhi cerulei che non smettevano di fissarmi. Edward aveva intuito il mio stato di tensione, sedendosi accanto a me sul divano, tenendomi stretta con un braccio.

Avevo maturato un occhio critico nei confronti di quell’uomo, tanto da accorgermi che c’era una sottile differenza nel suo comportamento, nei suoi modi, nei suoi sguardi, fra quelli burberi e bruschi che rivolgeva al resto del mondo, e quelli che invece rivolgeva a me.

«La strana convergenza dei licantropi, quello che ha fatto la bambina, quello che è successo a Bella… sembrano cose troppo eterogenee per stare assieme. Non riusciamo ad individuarne la causa», spiegò, concludendo, Carlisle.

I suoi occhi fiammeggiarono. Si strinsero, si allargarono. La fronte si corrugò e poi si distese. Mi chiesi quali pensieri potessero passare in quella mente. «Non vi dirò niente» sancì infine, dopo un maturato ragionamento.

La testa di Edward scattò immediatamente verso di lui. «Cosa?».

Sembrava tranquillo per aver stuzzicato pesantemente un vampiro. «Questo non ha niente a che fare con la natura della bambina e la gravidanza. Non rientra affatto nel patto».

La mascella di Edward si serrò, ne sentii lo schiocco secco. «Cosa intende dire?».

«Niente di più di quello che ho detto. Non vi dirò nulla».

Ansimai, scossa. Mio marito scattò in piedi, avvicinandosi in due ampie falcate a quell’uomo. «I miei fratelli sono in giro per il modo a cercare sua figlia, e Dio solo sa quanto sia doloroso per loro essere strappati dalla propria famiglia». Il suo tono era pedante e sibilante «Non mi appello alla sua coscienza, alla sua integrità di uomo. Non me lo aspetto» aggiunse con disprezzo, «Ma non mi interessa quanto quello che le ho chiesto competa o meno l’ambito del contratto. Lei. Ora. Mi dirà quello che voglio sapere».

Era tanto vicino da scoprire i denti a meno di un metro dal suo collo. Ma Philip non si mosse, non batté ciglio. Carlisle avanzò appena di un passo, certamente consapevole di quanto potesse essere pericoloso un vampiro fuori controllo.

«No» rispose semplicemente.

Edward ringhiò, forte, tanto da far rabbrividire anche me. Era un vero vampiro e faceva paura. «Che cosa vuole? Che cosa c’è ancora? Vuole denaro? Lo prenda pure, anche tutto quello che ho, ma lei mi deve dire quello che succede a mia moglie, ora!».

«Edward» lo richiamò Carlisle, osservando attento la scena, pronto ad intervenire.

I muscoli del suo avambraccio si muovevano convulsamente, pulsando. Le mani erano serrate in due pugni stretti, e ogni parte del suo corpo era rigida a tesa. Come se stesse resistendo all’istinto di ammazzarlo. Probabilmente era davvero così.

Neppure questa volta il professore si mosse, sostenendo il suo sguardo.

Quanto a me, non riuscivo a distogliere lo sguardo da nessuno dei due. Sentivo la fiammella della speranza, quella flebile e dispersa in me, spegnersi mentre ci soffiavano cinicamente sopra.

«Potrei ammazzarla, se solo volessi» pronunciò con un tono di spettrale neutralità gli occhi fiammeggianti fissi nei suoi.

L’altro sguardo fu altrettanto deciso e gelido. «Non avresti le informazioni che cerchi. Nessuna».

Proprio quando vidi Edward ringhiare, proprio in quell’istante in cui sentii che aveva perso il controllo e che più nulla l’avrebbe trattenuto, decisi di agire. «Edward! Ti prego!» gridai, scattando in piedi. «Ti prego!» urlai, in preda al terrore.

Immediatamente mi ritrovai fra le sue braccia, sostenuta dal suo abbraccio freddo. Mi mise seduta sul divano, stretta a lui. Gli accarezzai i capelli, velocemente, rassicurandolo. «Non importa Edward. Non importa…» mormoravo atona «non lo puoi obbligare. Non lo puoi obbligare…» ansimavo, sentendo quanto le mie parole stridessero con quello che provavo. Non c’era più alcuna speranza, nessuna. «Io… io…» farfugliai.

Edward mi prese il viso fra le mani, osservandomi, fissandomi addolorato. Si capiva così tanto quanto stessi soffrendo? Mi riprese fra le sue braccia, ricominciando a stringermi.

Con la testa posata sulla sua spalla vidi l’espressione di Philip, stranamente crucciata. Deglutii quando mosse un passo per avvicinarsi, cominciando a tremare.

Ma improvvisamente, con un movimento fluido, Edward si staccò da me, tenendomi per le braccia e osservando in silenzio oltre la vetrata. Il suo sguardo era attento e concentrato. «Carlisle, dei pensieri. Vado a controllare, rimani con Bella».

Tanto furono un limpido mormorio che non avrei mai potuto comprendere quelle parole se le sue labbra non fossero state a pochi centimetri dalle mie. Non passò un secondo che davanti a me lo spazio fu incredibilmente vuoto.

Ero a dir poco spiazzata da quello che era appena accaduto. Non tanto da impedirmi di capire, seppure con qualche secondo di ritardo, quello che era passato per la sua testa. I licantropi. Erano loro? Avrei sofferto ancora?

Non mi importava. In quell’istante una preoccupazione molto maggiore si stava facendo strada in me. «Carlisle» chiamai decisa, sollevandomi e guardandolo negli occhi «va con lui» mormorai certa.

L’indecisione passò nel suo sguardo, che saettò immediatamente nella direzione del professore. Certo, non volevano lasciarmi sola con lui. «Bella».

Ansimai, preoccupata, arrabbiata, spaventata. «Vai. Ti prego. Se davvero sono i licantropi sai perfettamente anche tu quanto possa essere pericoloso. Vai».

La sua fronte perfetta s’increspò, e i suoi occhi gialli s’incatenarono ai miei. Stavo per pregarlo ancora, quando si mosse. Mi mise una mano sulla spalla, spingendomi verso la porta della mia camera. «Veloce, entra qui dentro. È la stanza più protetta. Chiuditi a chiave e» guardò ancora il professor Philip, che ci stava seguendo «stai attenta Bella».

Prima che potesse scomparire, chiudendo la porta, presi una mano fra le mie. «State attenti voi».

Mi baciò la fronte e in un istante fui sola. Chiusi la porta a doppia mandata e mi assicurai di avere la chiave ben stretta in pugno. Camminai come un fantasma, andandomi a sedere sul bordo del mio letto.

I pensieri, l’angoscia, la preoccupazione, erano mischiati in me, alimentati in ogni modo. C’era una parte della mia mente che immaginava quello che sarebbe potuto accadere in un confronto fra Edward, Carlisle, e quei giganteschi lupi.

L’altra, era l’istinto di auto-conservazione. Alimentata da due cause tanto distinte e autonome quanto fonte di certa paura. L’ultima volta quel pazzesco dolore si era verificato in presenza di un lupo, e la mia mente sperava che non fosse quello il meccanismo di innesto di quella tortura. L’altra causa mi faceva tremare come una foglia, più imminente e vicina.

«Isabella».

Sussultai, mettendo a tacere i miei fremiti. Pareva anche lui crucciato, preoccupato. Non l’avevo mai visto così. Probabilmente era la vicinanza ai licantropi a sortirgli quell’effetto. Avrei potuto dirgli di sedersi, di accomodarsi. Avrei potuto essere gentile e cortese. Ad impedirmelo era il senso di soggezione che mi suscitava.

Mi fissò negli occhi con sicurezza. «Non soffrite così tanto» si avvicinò ancora, piegando per un attimo la testa di lato. Pareva come se… mi volesse rassicurare. «Non vi accadrà più, ve lo giuro».

Aprii la bocca, stupita, mentre i miei pensieri continuavano a ripetere continuamente quella frase, senza cavarne nulla di sensato.

Continuò a parlare, certo che non avessi compreso. «Quello che è successo l’altra volta. Il buio, la confusione, il dolore». Rabbrividii. «Non accadrà più. Era la fine. È passato».

Sentivo il mio respiro pesante e lento, mentre provavo a capacitarmi delle sue parole, arrivando persino a cercare di ricordare quando fossi svenuta, magari stremata dalle poche ore di sonno. Eppure mi sembrava così vero quello che il mio cervello cercava in ogni modo di negare. Per quale motivo non aveva detto nulla, prima? Per quale motivo ora mi stava confessando tutto questo?

«Non poso dirvi di più» aggiunse addolorato, spiazzandomi. Non mi sarei aspettata, mai, di vederlo così, un giorno, specialmente dopo la brutalità e la misantropia con cui aveva respinto le mozioni di Edward pochi minuti prima. «Non posso e, credetemi, è meglio per voi. Ma vi ho detto quello che volevate sapere, Isabella». 

Con lentezza elaborai quello che avevo appreso. Niente più dolore, niente più buio, nessun pensiero latente, nessuna paura di chiudere gli occhi e abbandonarsi al mondo dei sogni. Non sapevo come crederci.

Fece un passo verso di me, trovandosi a meno di due metri di distanza. Sgranai gli occhi preoccupata. Mi guardava intensamente, come se anche con lo sguardo volesse comunicarmi qualcosa. «Vi ho osservata. Siete una persona che affronta i problemi, temeraria in genere. Avete poca considerazione del senso del pericolo. Eppure, osservandovi ancora, oggi, non ho potuto fare a meno di notare i vostri occhi bassi» disse, ormai troppo vicino a me, quasi sfiorandomi con la sua fragile pelle «la vostra espressione afflitta e inanimata» si chinò, il viso vicino al mio.

Tremai, chinandomi automaticamente indietro.

«Ma soprattutto, le vostre mani, i vostri occhi, che mai si sono posati sul vostro grembo. Voi avete paura» asserì convinto, spiazzandomi.

Ansimai velocemente, agitata, turbata.

«Anche mia moglie aveva paura. Ne sono convinto. Voi avete paura di vostra figlia».

Strizzai gli occhi e scossi il capo, tentando in ogni modo di negare l’evidenza, negare ciò che se pronunciato ad alta voce, ammesso, assodato, mi avrebbe portato alla pazzia. No, no, no!

Sussultai quando sentii la sua mano, ruvida, sulla mia guancia. Rabbrividii.

«Non devi aver paura di lei» mi rassicurò «Isabella, non devi averne. Non è stata lei a procurarvi quello che avete sentito. Non ne ha la volontà, né il potere. Non è stata lei».

Il mio respiro pesante era rotto da fremiti. Non riuscivo più a comprendere, nulla.

Non era la mia bambina la fonte di tutto quel dolore… Non era lei… Eppure ne eravamo stati convinti, a lungo, com’era possibile? Come?

«Lei… lei… Sono i suoi sogni… sono i sogni della bambina… cosa… cosa…» farfugliai.

La sua mano si mosse sua mia guancia, tesa a rassicurarmi. «Voi avete sentito ciò che era destinato a lei, percependolo in maniera assai distorta. Lei ha solo fatto da tramite. È vero, sono pensieri che scorrono nella sua mente, ma non ha nessuna colpa».

Mi lasciò libera, allontanando la mano da me, e proprio in quell’istante scoppiai a piangere, singhiozzando, gemendo.

Non era lei, non era colpa sua. Immediatamente le due bambine che avevo immaginato in quei giorni diventarono un’unica figura, unita e perfetta. La bambina che non avevo mai smesso di amare. Che mi voleva bene esattamente quanto io a lei. Singhiozzai forte, senza sosta, senza desiderio di fermarmi.

Non badai alle mani che mi sfilavano la chiave dalle mani, ai successivi rumori.

«Bella!» esclamò Edward, allarmato, entrando di corsa nella stanza.

Non avevo pianto, per due giorni, non avevo pianto. E ora mi stavo sfogando di tutte le lacrime che non avevo versato. Ora, mentre tutto tornava al suo posto, e mi sentivo ancora disposta ad affrontare la vita. Era come se il torpore, la paura, l’angoscia di quei giorni, fossero stata spazzati, e mi sentivo incredibilmente leggera, come quando da bambina, in primavera, rimanevo ferma nei grandi campi, sentendo il fruscio del vento passarmi accanto, accarezzarmi. Chiudevo gli occhi e ogni cosa mi sembrava essere tornata alla perfezione.

Edward mi strinse fra le sue braccia, e immediatamente ricambiai, stringendolo, baciandogli il viso. «Bella, cos’hai? Cosa succede? Cosa ti ha fatto?».

Scossi il capo, tirandomi indietro per permettergli di guardarmi in viso. Mi portai, silenziosa, una mano al ventre, sentendomi ancora una volta nella vita perfetta e completa. Si mosse. Un movimento deciso, lungo e prolungato, e la sentii dentro me, viva.

Risi, risi, risi. Risi gioendo di quella vita, risi, divertita dall’espressione confusa di mio marito.

Nell’ora successiva spiegai sia a lui che a Carlisle quello che il professore mi aveva detto prima di scomparire. Non parlai della mia paura, non dissi nulla. Non ero ancora pronta per farlo. Ma fui davvero felice di sentire perfettamente i movimenti della piccola, che non smise un secondo di agitarsi.

Fortunatamente i pensieri percepiti da Edward non provenivano da quelli che mi veniva sempre più naturale chiamare nemici, ormai. Mi sorrideva, contento di vedermi più serena. Magari avrei dovuto dire grazie al professor Philip. Magari. Avevo ancora troppi dubbi sul suo conto, tanti quanti ne aveva lasciati non dandoci delle spiegazioni concrete.

Ma non riuscivo ancora a pensarci. Ero accecata dall’idea che nulla di male sarebbe più accaduto, e che la mia piccolina non mi aveva mai fatto, né voluto fare del male. Ci speravo davvero.

Un quesito ancora rimaneva irrisolto: chi o cosa era entrato a contatto con la piccola?

Non importava. Avrei avuto il tempo e la forza di scoprirlo.

«Edward» lo chiamai quella sera, stanca, ma serena, contenta di andare a dormire e riposarmi. Osservai il pacchetto sul tavolo del soggiorno «dobbiamo finire qualcosa».

Mi sorrise, stringendomi per i fianchi. Mi sollevò senza alcuno sforzo, quel tanto che bastava per permettermi di sistemare il puntale e finire l’albero.

Il nostro albero.

   
 
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