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Autore: Terre_del_Nord    07/03/2010    10 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
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HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
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VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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That Love is All There is

Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Mirzam - MS.011 - Nulla è Come Appare (3)

MS.011


Mirzam Sherton
Herrengton Hill, Highlands -
mar. 8 dicembre 1970

Quella sera, mentre mio padre era impegnato con i membri della Confraternita per decidere quali sistemi Respingibabbani adottare la notte di Yule, io ero atteso a cena da Stenton; prima, però, ero passato nella biblioteca di casa per riportare i testi di Erbologia, presi in prestito da alcuni giorni. Dopo il nostro incontro chiarificatore, in cui gli avevo raccontato tutto quello che era successo negli ultimi mesi, tenendomi per me solo alcuni fatti strettamente personali, mio padre aveva capito che stavo dicendo la verità, senza doppi fini, e mi aveva offerto di nuovo il suo aiuto per venirne fuori. Io, al contrario, intendevo mantenere gli impegni presi: avevo molti dubbi su quanto sarei stato chiamato a fare, ma tirarmi indietro ormai avrebbe esposto a ritorsioni tutti coloro cui volevo bene, soprattutto Sile che, in Francia, non poteva nemmeno godere della protezione delle Terre del Nord. Alla fine, perciò, mio padre ed io avevamo preso alcune decisioni: a casa non avrei fatto trapelare in nessun modo la mia scelta, fingendo che la mia unica preoccupazione fosse il Quidditch e mio padre mi avrebbe tenuto d’occhio, per assicurarsi che Milord non mi manipolasse in alcun modo. Da parte sua, inoltre, per evitare che un’eventuale talpa nella Confraternita intuisse qualcosa, non avrebbe condiviso con gli altri, nemmeno con Fear, le mie informazioni; a parte questo, si sarebbe comportato normalmente con tutti, mascherando la ricerca dell’anello dietro quella delle vestigia del passato di Herrengton, che lo teneva già impegnato da anni: era facile immaginare che avrebbe coinvolto solo Orion Black, come accadeva spesso, nelle questioni particolarmente delicate. Per completare quella specie di commedia e far vedere a tutti che mi riaccoglieva nella Confraternita, non solo nella sua casa, mi propose di partecipare alla Danza delle Spade: mia madre ne era stata entusiasta, al pari di Meissa, ma io temevo fosse troppo presto, perché questo significava riprendere l’uso delle Rune e una volta recuperato quel potere, se Milord mi avesse lanciato un Imperius, avrei potuto far loro del male. Forse era meglio scappare o trovare una scusa per farmi cacciare di nuovo: mio padre, però, era animato nei miei confronti da quella fiducia e quell’orgoglio che avevo già visto il giorno del mio diploma; sembrava provare rispetto per me, un figlio disgraziato, e trovare una ragione, a me oscura, in tutte le stupidaggini che avevo fatto nella vita.

    “Esci questa sera?”

Mi voltai, Meissa mi aveva seguito nello studiolo attiguo alla biblioteca: mio padre non voleva che ci entrasse, perché quello era uno dei suoi luoghi sacri e privati, dove custodiva libri che non erano adatti a me, figurarsi a una bambina di nemmeno undici anni. Ultimamente però si era dovuto rassegnare, perché, da quando ero tornato a casa, mia sorella mi seguiva ovunque, per controllare che non sparissi di nuovo: un paio di settimane prima, rientrato all’alba dopo una notte di vagabondaggi, l’avevo trovata addormentata sul divanetto nel corridoio che portava alle cucine, ben sapendo che al mio ritorno avrei chiesto a Kreya di prepararmi qualcosa da mangiare.

    “Sono stato invitato a cena da Rodney Stenton, a Inverness: vuoi venire con me?”

Le sorrisi, poi l’invitai a seguirmi nel salone. Mi guardai allo specchio, fissato sopra una delle consolle lungo lo stretto corridoio, sistemando la cravatta e i polsini della camicia: mancava solo la giacca e sarei stato pronto per uscire. Mei mi fissava ed io le feci un altro sorriso dallo specchio.

    “E ti saresti tuffato in una vasca di profumo solo per Stenton? Ti si sente dal piano di sopra!”
    “Salazar, Meissa, non è vero! Ho messo solo del dopobarba! Sei tu che hai il naso di un Auror!”

Scoppiai a ridere: mia sorella sapeva essere tenera, altre volte straordinariamente buffa. Mentre le sue lentiggini sparivano nel rosso acceso delle sue guance, presi la giacca che Kreya mi aveva riportato in quell’istante: appena mi aveva visto, infatti, aveva preteso di poterla sistemare lei, poco soddisfatta di come me l’aveva stirata Cael.

    “Io non ho il naso da Auror! E di certo non voglio lavorare al Ministero!”
   “Hai ragione, la mia principessa non è adatta a quel postaccio: diventerai la Lady di qualche ricco Lord e ti preoccuperai solo di abiti, feste e chiacchiere, come l’ex moglie di Kenneth Emerson!”

Mi rivolse un’occhiataccia capace di incenerirmi all’istante, mentre il suo rossore spariva nel suo caratteristico broncio e rimediavo la solita linguaccia. Sì, quando voleva, era davvero buffa, ma era chiaro che qualcosa si era rotto in lei, non era più serena come prima: e, a parte il discorso dello smistamento, se stava così, era anche per colpa mia. Mi chinai a scoccarle un bacio sulla fronte.

    “Ritornerai, vero?”

I miei avevano cercato di nasconderle, per quanto possibile, sia la storia della mia malattia sia quella del processo: vivendo a Herrengton, lontani dal resto del mondo, era stato facile proteggerla dalle chiacchiere; le avevano raccontato che ero andato a vivere a Inverness con una ragazza che a loro non piaceva e, per questo, avevamo litigato, giustificando così la mia lunga assenza, ma mantenendo la speranza che tra noi i rapporti potessero presto riallacciarsi. Meissa era riuscita a superare quei momenti, pensando che era successo qualcosa di simile tra nostro padre e il nonno ma ora che era tutto finito, ogni volta che mi vedeva pronto per uscire, era assalita dalle sue paure.

    “Non so che intenzioni abbiano Stenton e gli altri, ma sarò a casa al più tardi domattina.”
    “Non raccontarmi bugie! Ti prometto che se me la presenti, a me la tua ragazza piacerà!”
    “Non c’è nessuna ragazza. E anche se ci fosse, tornerei al massimo domattina!”

Mi venne da ridere, per l’espressione insolente con cui mi fissava: già pregustavo il momento in cui, nel giro di qualche anno, mi sarei vendicato, facendole passare un brutto quarto d’ora, ogni volta che fosse uscita con un compagno di scuola, anche solo per comprare un libro. Mi dispiaceva mentirle, avevo sempre cercato di comportarmi in maniera onesta con lei, ora, però era diverso: a parte Bellatrix, in quel periodo non frequentavo nessuna, ma era meglio per Mei che fingessi di avere una ragazza, piuttosto che intuisse le mie vere preoccupazioni.

    “E va bene, d’accordo… Hai vinto: devo vedermi con una ragazza. Contenta? Però, Meissa…”
    “Lei com’è? Bionda? Sei innamorato di lei? La sposerai?”
    “Ehi, calma! Sposarmi? Ma che cosa dici? La conosco da poco e … ho altro cui pensare…”
    “È ancora per Sile? È per lei che non la sposerai?”

Avevo notato che tutte le bugie che le avevamo raccontato s’infrangevano sempre lì: non so come, ma qualcosa aveva capito, perché ogni volta che si parlava di Doire o si faceva qualche riferimento ai tempi in cui Sile ed io stavamo insieme, mia sorella si rabbuiava e diventava ostile. Probabilmente sapeva anche lei che, di lì a qualche settimana, Sile si sarebbe sposata in Francia col suo Lucien.

    “Dovresti scordarti di Sile, Mei. Quando crescerai, vedrai che non sempre le relazioni tra le persone finiscono come tra mamma e papà. Io ho voluto bene a Sile e, lo ammetto, gliene voglio ancora, ma quella storia fa parte di un passato lontano e concluso. Per tutti e due.”
    “Io voglio solo che tu sia felice.”
    “Io sono felice, Mei. Non ti devi preoccupare per me: non sono mai stato così felice come adesso. Ora, però, scusami, devo andare, mi aspettano. Ci vediamo domattina.”

Le stampai un altro bacio sulla fronte, lei mi guardò per cercare conferme: non sembrava molto convinta, con lei mi sarei dovuto mettere d’impegno per fingere una felicità che non provavo. Non avevo, però, alcuna intenzione di affrontare ancora quel discorso, né con lei né con altri. Non più: volevo chiudere il ricordo di Sile nel pozzo profondo del mio cuore e aspettare che morisse lì, anche se, avendoci già provato, sapevo che non ci sarei riuscito mai completamente. Appena si faceva buio e mi stendevo solo nel mio letto, pur passato tanto tempo, non potevo smettere di ricordare la luce argentea della luna sul suo corpo e i suoi occhi luminosi: quell’unica notte della mia vita in cui avevo fuso anima e corpo con l’altra vera parte di me. E ancora meno riuscivo a dimenticare quella magia che si scatenava tra noi, seduti ad ammirare le acque del Lago Oscuro, sotto il tiepido sole della primavera, parlando di come sarebbe stata la nostra vita. Avevo provato quella complicità della mente solo un’altra volta, solo un’altra persona era stata capace di darmi una felicità simile. Ed io avevo rovinato tutto. Sentii bruciarmi il sangue nelle vene: la voglia di fare del male divenne travolgente quando ripensai a quanto era successo. Sospirai e mi gettai il mantello addosso: dovevo assolutamente andare a quella cena il più velocemente possibile e lasciare che l’allegria di Stenton stemperasse il pensiero delle mie colpe.

***

Mirzam Sherton
Nocturne Alley, Londra - mar. 8 dicembre 1970

Avevo passato alcune ore con Rodney e i ragazzi della squadra, godendomi una cena luculliana e rievocando alcuni fatti divertenti, avvenuti sui campi di allenamento e in qualche partita. Di solito, quelli erano i pochi momenti in cui mi sentivo davvero in pace e felice, anche perché, fin da quelle prime settimane, i miei allenamenti erano stati molto positivi, dimostrando che il mio fisico si era rimesso perfettamente e ormai, come Rodney che ci aveva creduto fin dall’inizio, anch’io attendevo con ansia il nuovo anno per iniziare la mia carriera da professionista. Quella sera, però, al contrario delle altre nostre cene, al passare delle ore, la mia allegria si era via via appannata: non sarei rientrato a casa subito, avevo un appuntamento di tutt’altro genere con Rodolphus, poco dopo la mezzanotte, a Nocturne Alley. Si trattava di una missione per conto di Milord, nulla di pericoloso, o moralmente discutibile, vero, ma quell’incontro mi metteva ugualmente ansia, e il vero problema era proprio Lestrange, il mio migliore amico: da qualche tempo con lui l’atmosfera era strana, il suo atteggiamento a dir poco sibillino. Temevo che la ragione fosse Bellatrix, anche se Rod non diceva mai nulla: magari il mio senso di colpa mi faceva temere che mi avesse scoperto e stavo immaginando tutto, ma se avessi avuto ragione, se davvero avesse intuito qualcosa, dovevo riuscire a fargli credere che si stesse sbagliando. Dovevo prendere tempo, in attesa del momento adatto per spiegare: avevamo affrontato di tutto e superato ogni cosa, in quegli anni, e conoscendolo, alla fine, anche stavolta avrebbe chiuso la faccenda con qualcuna delle sue cavolate, ridendo e bevendo insieme. O almeno era ciò che mi auguravo.

    “Sei arrivato, finalmente!”

Avevo sentito un fruscio nell’oscurità, c’eravamo dati appuntamento in un vicolo poco distante dal negozio di Burgin: era una notte gelida e poco illuminata, l’ultimo quarto di luna era celato da nuvole che si rincorrevano rapide, sostenute dal vento del nord. Lo aspettavo addossato alla parete, infreddolito, maledicendomi per non essermi messo degli abiti più pesanti.

    “Mi perdoni, Signore, il Padrone…”

Scrutai nel buio, dall’oscurità uscì Tell, il servo di Rodolphus, spaventato a morte e tremante.

    “Dov’è il tuo padrone? Gli è successo qualcosa?”
    “No, Signore, no. Il Padrone è a letto, Signore, non si sente bene. Mi ha dato questi.”

Mi porse un sacchetto, lo soppesai, era il denaro pattuito per Burgin. Era tutto a posto, eppure era molto strano.

    “Tutto qui?”
    “Oh Signore, Tell… Sono tutti i 1267 galeoni pattuiti, Signore, Tell non toccherebbe mai il denaro del Padrone, Signore…”
    “Non ti stavo accusando.”
    “Oh Signore, Tell ringrazia il Signore. E si stira le dita per aver tardato e per… ”
    “Per favore, Tell, se vuoi, puoi farlo, ma dopo! Ora voglio sapere soltanto se il tuo padrone ti ha anche dato un messaggio per me.”
    “Sì, Signore, certo, Signore: il Padrone dice che il Signore non deve spendere uno zellino in più del pattuito, Signore. E se vuole…”

Deglutì, gli occhioni acquosi e pieni di paura a quel punto erano imploranti e disperati.

    “Il Padrone dice che, se vuole, il Signore può disporre di Tell come meglio crede, Signore, per controllare la purezza della merce, Signore…”

Lo guardai turbato: Rodolphus ci teneva molto, da sempre, a quell’Elfo che aveva ereditato da sua madre, tanto che, al contrario di quanto faceva con gli altri, non era solito maltrattarlo, se non in casi davvero gravi; era perciò strano che ora lo considerasse sacrificabile. Probabilmente era sbronzo e straparlava: già m’immaginavo la scena, una scena fin troppo ricorrente, che avevo visto molte volte in quegli ultimi anni, ma che credevo non si sarebbe più ripresentata, ora che aveva ottenuto il favore di Milord e di suo padre. Invece, da qualche settimana, Rodolphus sembrava aver perso il senno.

    “Andiamo! E stai tranquillo: non so perché il tuo padrone abbia detto una cosa del genere, ma io non ho mai sacrificato un Elfo per controllare la merce, e non intendo iniziare proprio con te!”
    “Oh Signore! Tell si prostra ai vostri piedi, Signore, Tell è troppo obbligato Signore!”
    “Dopo, Tell, dopo. Ora andiamo.”

Mi ero già trasfigurato le vesti al buio, avevo calato il cappuccio fin sopra gli occhi e alzato il bavero a coprire anche il naso, avevo già preso la pozione che mi avrebbe mutato la voce e il colore degli occhi. Ero pronto. Mi avviai con passo deciso, sapevo che cosa dovevo fare: era stato Rodolphus a insegnarmi e a seguirmi per settimane, era tutto organizzato al meglio, l’avevamo fatto decine di volte e già in passato avevo affrontato Burgin da solo. Sapevo anche, però, che Rodolphus non avrebbe mai rinunciato a quella missione, nemmeno se fosse stato agonizzante sul suo letto, non stavolta che doveva essere tutto perfetto per la notte di Hogmanay. E quell’idea su Tell: era il genere di bravata che gli passava per la mente quando aveva una rabbia feroce da reprimere. Non avevo bisogno di altre prove: ce l’aveva con me. In quel momento, quasi sicuramente, Rodolphus Lestrange si stava maledicendo per la sua dabbenaggine, per essersi fidato di me, e prometteva fuoco e fiamme, e soprattutto vendetta, scolandosi tutto il suo Firewhisky, fino all’ultima goccia.

***

Mirzam Sherton
Londra - dom. 3 maggio 1970 - inizio flashback

Dopo la festa a Trevillick, avevo ragionato a lungo sulla richiesta di Bella e alla fine, deciso a liquidare il problema il prima possibile, avevo trovato la soluzione perfetta. Bellatrix Black voleva solo conoscerLo, Milord, non le importava come, perciò l’avrei messa nelle mani di chi avrebbe avuto tutto da guadagnare da quella situazione; da parte sua, Rodolphus Lestrange aspettava solo l’occasione giusta per apparire, ai suoi occhi, qualcosa di più del solito pallone gonfiato, inoltre, portando una Black, dopo uno Sherton, nella cerchia degli adepti, avrebbe acquisito ulteriore prestigio presso Milord. A me, invece, interessava soltanto ciò che quella pazza doveva raccontarmi su Tonks: avevo lasciato passare troppo tempo, mi ero dilungato in chiacchiere inutili, adesso era il momento di agire. Quel maledetto avrebbe finito la scuola nel giro di un paio di mesi: prima di allora gli avrei dato una lezione tale che si sarebbe dimenticato persino il nome di Andromeda Black. Dopo quello che era accaduto con Corso, sapevo che usare la violenza era sbagliato, ma avevo fatto una promessa a Meda, non avrei mai permesso che qualcuno la facesse soffrire e, da quel Tonks, non poteva aspettarsi altro che problemi. Per questo, tutti i sentimenti negativi che provavo si concentrarono su di lui, simulacro e vittima sacrificale, contro cui scatenare la mia ira.
Una volta che Meda si fosse resa conto della verità, poi… chissà, magari… Avevo già capito che l’amore ha mille facce, con Sile avevo scoperto che un amore nato dalla tenerezza ha la stessa dignità di quello che brucia nella passione. Ero convinto che l’indubbio affetto che provavo per Meda fosse un germoglio d’amore sincero che aspettava solo di essere coltivato. E ora che il destino aveva eliminato dalla mia strada qualsiasi distrazione, sapevo che sarei riuscito a darle la felicità che meritava. Avrei potuto già chiedere la sua mano a Cygnus: anche se vivevo un momento di difficoltà, sarebbe stato felice della mia proposta. Prima, però, dovevo e volevo convincere lei: le avrei fatto capire che stavolta sarebbe stato tutto vero, non ci sarebbero stati più i se e i ma. Avrei costruito ogni mio giorno su di noi, perché fossimo una sola vita e un solo amore. Il sangue e il nome non avrebbero contato niente, come le avevo già promesso, e il mio passato… accanto a lei si sarebbe ridotto in cenere. A volte però, guardavo in faccia la realtà: il mio destino ormai era legato a Milord e ciò significava che, al pari di Tonks che le avrebbe offerto un futuro di stenti e disonore, io avrei rovinato la sua vita, dannando la sua anima, insieme con la mia. Sapevo di non poter permettere che ciò accadesse: dovevo salvarla, certo, e, di nuovo, non avrei potuto offrirle altro che la mia protezione.

    “Sei taciturno, Sherton. Qualcosa non va? È dalla sera della mia festa che ti vedo pensieroso.”
    “Non è nulla, Rodolphus, ma… in effetti, dopo la missione, avrei bisogno di parlarti.”
    “Allora parla adesso! Lo sai, mi piace andare in missione solo per far baldoria, dopo!”

Rodolphus mi guardò malizioso e scoppiò nella sua classica risata, poi tracannò un altro whisky babbano, celando al meglio il suo disgusto; io grugnii appena una protesta, con un’espressione eloquente gli feci capire, per l’ennesima volta, che “Lo squalo nero”, un locale equivoco nella zona portuale di Londra, era il luogo meno adatto a due come noi, anche per fermarsi a parlare. Ero nervoso, quella sera, molto nervoso, anche se dovevamo solo incontrarci, dopo mezzanotte, con Burgin per concordare un acquisto particolare: commercializzare le radici di “Sabetia” non era illegale, ma visti alcuni suoi usi secondari nella preparazione di certi filtri, i negozi dalla buona reputazione preferivano non venderle. Burgin era rimasto l’unico, in tutta Londra, che trattasse l’articolo, facendosi pagare profumatamente, per pochi grammi di quella polvere iridescente.

    “Si può sapere che cosa ci facciamo qui, Rodolphus? Questo non è posto per noi.”
    “Cosa c’è Sherton? Ci sono donne troppo svestite per te? Dai, rilassati e divertiti un po’.”
    “Sono babbani, Rodolphus…”
    “E allora? Non fare lo schizzinoso con me, li hai frequentati anche tu. Rilassati e aiutami.”

Lo guardai perplesso, ma pensai che magari fosse il caso di dargli fiducia, ancora una volta: dopo la mia adesione all’esercito di Milord, Rodolphus si era assicurato che mi rimettessi in sesto e per un paio di settimane, dopo il processo, aveva vissuto con me, a Inverness, aiutandomi a preparare la pozione per le mie gambe e approfittando della convivenza per istruirmi su quello che avremmo fatto, una volta che ne fossi stato in grado. Era l’unico che volessi vedere in quel periodo, e l’unico che riuscisse a convincermi a uscire, a volte, di casa. Ero troppo sconvolto dalla procedura che aveva “estratto” il potere delle Rune dal mio corpo e la mente vagava sempre rincorrendo le mie fissazioni: le conseguenze della mia malattia, il processo, la perdita di tutto ciò che amavo. Sapevamo entrambi che ero sull’orlo del baratro. E come sempre Rod fu al mio fianco. Appena iniziai a stare fisicamente meglio, Rodolphus mi aveva costretto a seguirlo in quelle missioni in cui non ci fossero azioni sanguinarie da compiere: non sapevo se fosse una sua premura, il normale apprendistato, o davvero Milord avrebbe mantenuto la sua promessa e non mi avrebbe imposto di diventare un assassino.

    Poi quella sera a Trevillick…

Il pensiero di Meda nei guai mi aveva riscosso dal torpore e avevo ripreso a vivere, per lo meno una parvenza di vita. Ma la mia irrequietezza aumentava di giorno in giorno: non sapere che cosa mi aspettava mi rendeva paranoico, temevo che presto avrei avuto un brusco risveglio nella realtà. Fin dall’inizio avevo pensato che Milord cercasse in me un cavallo di Troia, da porre a fianco di mio padre e nella Confraternita per minarla dall’interno, ma quando parve indifferente alla mia cacciata, mi ritrovai disorientato. Non capivo che cosa volesse da me, ora che non ero più in alcun modo appetibile.

    “Sei ancora con me?”

Mi ero distratto di nuovo, Rodolphus mi fissava perplesso, io annuii e di nuovo scorsi lo sguardo attorno a me, disgustato, l’atmosfera era fumosa e quel locale era il ricettacolo della maggior parte dei vizi babbani. Se ci fossero state solo le donne, strette in abitini ridottissimi, avrei pensato che fosse un semplice bordello, ma c’era molto di più e forse di peggio: a parte i tavoli su cui si giocava a carte e ai dadi e i banconi degli alcolici, notai che molti dei clienti compravano delle strane bustine, poi andavano dietro una tenda e quando tornavano, sembravano sotto l’effetto dello stramonio. Quando una babbana piuttosto formosa si avvicinò ed estrasse una minuscola bustina dal corsetto, sorridendo a Rodolphus, il mio amico gli fece un impercettibile segno di diniego ma lei, senza perdersi d’animo, gli stampò un bacio sulla guancia buttandoglisi tra le braccia.

    “E va bene, Janine, ma ci vediamo più tardi. Adesso il mio amico ed io dobbiamo parlare.”
    “I tuoi amici sono tutti belli come te, Roddy! Porta pure lui, dopo, mi raccomando…”

Mi scoccò un bacio sul naso, avvicinando in modo indecente al mio viso il suo davanzale burroso. Divenni porpora di rabbia e vergogna e questo scatenò l’ilarità di Rodolphus e tutta l’acidità di cui ero capace.

    “Complimenti “Roddy”, ora ti dai da fare pure con le babbane!”

Rodolphus ghignò, osservando il fondoschiena della donna che si allontanava, poi si ricompose e mi rivolse quella condiscendenza che si riserva a chi non sa vivere.

    “Apri la tua mente, Sherton. Guarda di là dal tuo naso.”

Scoppiò di nuovo a ridere, ripensando a quanto era appena successo.

    “Salazar! Pensavo che almeno questo fosse un tabù inviolabile e sacro anche per te!”
    “E basta, Sherton! Ridi, ogni tanto! Non è come immagini: per la tua tranquillità, ti assicuro che anche questo fa parte della nostra missione. Dobbiamo annientare tutti quelli che si frappongono tra noi e la vittoria, ricordi?Beh, per quanto mi riguarda, il fine giustifica qualsiasi mezzo.”
    “Se lo dici tu… ma non credo che andare a letto con “quella” sia di qualche utilità alla causa.”

Lo guardai disgustato, lui mi rilanciò un sorriso enigmatico. Rodolphus aveva sempre avuto un carisma particolare, capace com’era di convincere le persone senza discorsi lunghi e complicati, ma con una semplice occhiata. Adesso, poi, che il sostegno di Milord e l’attuale rapporto con suo padre ne avevano aumentato ulteriormente la fiducia in se stesso, appariva una specie di guida, tutti ne riconoscevamo il valore, nonostante i suoi vizi. Quella sera però non riuscivo a capirlo.

    “Ascolta. Quando ti dico che puoi rilassarti, puoi e devi rilassarti, Sherton: di tempo per la preoccupazione e il timore ne avrai fin troppo. Burgin, per esempio, può aspettare, quella radice possiamo permettercela solo noi; inoltre mancano ancora due ore, che è bene non vadano sprecate. Ora fai attenzione: vedi quel tipo laggiù? È il padrone del locale. Benché non sembri, non è un babbano: si chiama Herbert Svenson, hai sentito bene, degli Svenson di Leeds, proprio un purosangue come noi. Ti rendi conto? Quel maledetto ha distrutto il buon nome della famiglia, l’ha di fatto estinta, per vivere così, creare questa topaia, sposare una babbana e sfornare i suoi meticci… Ho preso informazioni: quell’uomo deve pagare, per il pessimo esempio che sta dando. E tu, stasera, mi stai aiutando, recitando la parte del mio fido compagno di bevute. Hai capito?”
    “Sì, certo. Ora che cosa intendi fare? Hai già un piano?”
    “Può darsi, ma il resto non ti deve interessare, sappi soltanto che avrà ciò che merita.”
    “Che cos’è, non ti fidi di me, Lestrange?”
    “No, Sherton, ma ti conosco, certi aspetti di questa vita ancora ti turbano. A questo proposito, scusami in anticipo per la rudezza, ma è ora che ti faccia un discorso. Come ben sai, ho fatto tre gradini in una sola volta presso Milord, per merito tuo, e te ne ringrazio; potrei godermela, vero, ma imparerai in fretta anche tu che con Lui non si dorme sugli allori, perché tanto velocemente dà, tanto velocemente toglie. Sappi perciò che non intendo perdere prestigio a causa tua.”
    “A causa mia? Non capisco.”
    “Milord ha fatto questo strano patto con te e si accontenta di istruirti e capire come sfruttare le altre tue doti. Nessuno perciò ti chiederà di uccidere e a me sta bene, ma finché non avrai preso il marchio, ti ricordo che resti sotto la mia responsabilità, perciò non devi fare mai di testa tua.”
    “Di testa mia? E quando avrei fatto di testa mia in questi due mesi?”
    “A Trevillick ti ho visto parlare con Pucey, perciò sai che è infuriato con te. Immagino non ti abbia detto il perché o che si sia lamentato che gli hai rubato il posto. Bene, sappi che Milord l’ha punito perché durante quella missione condotta da lui, è sopravvissuto un babbano che doveva morire.”

Deglutii. La notte infernale culminata nel massacro a Little Hangleton… Il pensiero del bambino che dormiva ignaro, mentre la sua famiglia era trucidata, mi aveva perseguitato per settimane.

    “Quando si è saputo di quel bambino chiuso a chiave nella stanza, Milord ha intuito che eri stato tu: era infuriato con te, pronto a insegnarti la disciplina, così gli ho fatto presente che il tuo poteva essere stato solo un momento di debolezza, che in fondo avevi dimostrato come sei e come la pensi, quando hai trovato il modo di salvare gli altri dagli Aurors. Milord ha deciso di perdonarti, ma non ha perdonato Pucey: perché era compito suo controllarti.”
    “Salazar, Rodolphus! Quello era solo un bambino dell’età di mia sorella!”
    “Un bambino? E questo dovrebbe cambiare qualcosa?Anche chi ha messo al rogo per secoli la nostra gente, comprese bambine dell’età di tua sorella, all’inizio, era solo un marmocchio! Probabilmente non ti si presenterà più una situazione come quella, ma è bene che tu impari in fretta il concetto fondamentale: sono babbani! Il loro sangue li marcisce dentro fin da prima di venire al mondo, le loro madri li nutrono all’odio e all’ignoranza già dalla prima poppata. Sono belve, di cui non dobbiamo fidarci. Ora ascoltami bene: è inutile che ti dica che Pucey cercherà di fartela pagare, ma ricordati che può contare anche sull’appoggio di molti altri. Non provare perciò a mettere nei guai me, perché sono l’unico di cui puoi fidarti, il solo vero amico che hai, almeno finché non dimostrerai di condividere davvero la nostra missione… e ti sarà difficile, visto che non porti il marchio e non accetti di sporcarti le mani come tutti.”
    “Farò di tutto per non metterti in imbarazzo, ma per favore, evitami situazioni simili, perché…”
    “Quella missione era una prova, per te e per chi doveva prendere il marchio quella notte: Milord voleva vedere di che pasta sei fatto e ha organizzato qualcosa che ti mettesse in difficoltà. La prova l’hai fallita, è chiaro, ma gli imprevisti accaduti dopo ti hanno salvato. Ricordati però che non potrai contare per sempre sugli imprevisti, o su qualcuno che ti salvi il…!”
    “Hai ragione e ti ringrazio, per tutto quello che hai sempre fatto per me, Rodolphus. Per questo vorrei offrirti qualcosa di prezioso: te ne volevo parlare fin dall’inizio della serata…”

Quello all’improvviso mi sembrò il momento più adatto per parlargli di Bellatrix: avevo pensato di sfruttare la situazione per ingraziarmelo e non dovermi sporcare ancora di più le mani ma… Lestrange mi guardò incuriosito, un sorriso famelico ad alterargli i lineamenti.

    “Cos’è, tuo padre ti ha riaccolto a casa a mia insaputa e ora ha intenzione di unirsi alla causa?”
    “No, questo no, non ancora. C’è qualcuno, però, molto importante, che vorrebbe entrare nella cerchia di Milord. Presenta tu questa persona, prenditene il merito… e non solo quello…”
    “Quanto sei sibillino! Chi sarà mai, il Ministro in persona?”
    “Si tratta di Bellatrix Black, e non ridere, perché stavolta è davvero convinta: farebbe di tutto per conoscere Milord. Inoltre la sua famiglia non frequenta ancora l’ambiente, perciò non sa quanto tu sia vicino a Voldemort, è l’occasione giusta per farle vedere chi sei davvero e averla ai tuoi piedi!”

Rodolphus guardò il suo bicchiere: da quando avevo pronunciato quel nome, la sua baldanza era svanita, si era fatto circospetto, pensoso. Potevo immaginare i calcoli che faceva nella sua mente, l’elaborazione del suo piano, avrebbe trovato un sistema ingegnoso, un’entrata a effetto, per godersi appieno lo shock che avrebbe provocato in Bella quando si fosse svelato: la sognava da anni e lei l’aveva sempre maltrattato e umiliato, dicendogli che era solo un ragazzino viziato che si faceva forte del nome e del potere di suo padre, un pallone gonfiato, uno smidollato, e nulla più. Rodolphus aveva tutto, era straordinariamente ricco, si occupava a Londra degli interessi di suo padre, aveva gli agganci giusti per intraprendere un’importante carriera politica, per l’eleganza dei suoi modi e la piacevolezza del suo aspetto, oltre che per il suo nome, poteva scegliere tra le più belle e ricche streghe purosangue del paese. E ora, ad appena ventidue anni, era diventato il braccio destro di Milord. Tutto questo però non contava niente per lui, perché Bellatrix era il suo unico vero desiderio, finché non fosse stata sua, in un modo o nell’altro, ogni sua vittoria sarebbe stata incompleta. Io sapevo che erano perfetti l’uno per l’altra, Rodolphus probabilmente ne vedeva solo la bellezza esteriore e considerava il prestigio dei Black, Bellatrix si era fermata ai pregiudizi che si era fatta su di lui ai tempi della scuola, ma io, che negli anni avevo vissuto la vera natura di entrambi, non potevo non notare quanto fossero terribilmente e ferocemente simili.

    “Hai ragione, doverla istruire sarebbe la scusa che cerco per averla in pugno, ma non sarebbe un’opportunità propizia solo per me: Milord vuole i Black, il loro appoggio sposterebbe a nostro favore l’opinione di buona parte delle famiglie più nobili e antiche, che non hanno il coraggio di esporsi. I Black però sono difficili da coinvolgere e non fanno mai niente per niente, convincerli a passare dalla nostra costerebbe una fetta considerevole del potere che conquisteremo. Inoltre in passato, nelle dispute, si sono sempre mostrati alleati potenti ma imprevedibili, visto che si credono più puri degli altri. Se entrassi a far parte della loro famiglia, però, sarebbe tutto diverso. ”
    “Esatto, Rodolphus, perciò ora dimmi quando sei libero e fisserò l’incontro per te, lei aspetta solo che la contatti.”
    “No, non farai nulla del genere, Sherton!”
    “Che cosa? Ma se hai appena detto…”

Già da qualche minuto, presi nei nostri progetti, il fumo, le donne, il nemico, tutto ciò che ci circondava era diventato un insieme di pallide ombre che si muovevano su un palcoscenico di scarsa importanza. Rodolphus evidentemente era ormai ben lontano dai motivi per cui ci trovavamo lì, ma si manteneva stranamente freddo e distaccato, io, a mia volta, ero a un passo dal liberarmi di un fastidioso problema e dall’ottenere le informazioni su Tonks. E quella battuta di arresto m’irritava.

    “Non farò passi falsi, Sherton, non rischierò di perdere il favore di Milord. Quella donna, per quanto assolutamente irresistibile, anzi proprio per questo, è un sicuro passo falso, per me. Sarà mia, dovessi ricoprire d’oro suo padre, ma non mischierò Bella e i miei impegni con Milord.”
    “Se l’aiutassi a entrare nella cerchia di Milord, non ti servirebbe pagare Cygnus!”
    “Sei furbo, Sherton, sai quanto mi dispiaccia sprecare il denaro, ma il favore di Milord vale molto di più. E per trattare con Bella occorre prudenza, lo so bene, sarebbe capace di farmi fare una pessima figura di fronte a Milord solo per farsi gioco di me. Perciò la seguirai tu, al mio posto, per il tempo che ti servirà a capire che intenzioni ha, portala con te nelle missioni che svolgi da solo, studiala, verifica che sia affidabile. Ne hai già arruolati una mezza dozzina, con ottimi risultati, sai cosa devi fare. Se non farà scherzi, fisserò un incontro con lei. Perché stai ridendo?”
    “Nulla, è solo che, non immaginavo che nella tua scala di valori, l’ambizione venisse prima di…”

Feci un gesto volgare ed eloquente, per sdrammatizzare un po’ quel momento tanto importante per tutti noi. Rodolphus m’investì con la sua solita risata, venata però da qualcosa di stonato: c’era preoccupazione, dubbio, forse persino paura. Si riprese subito, mi guardò, enigmatico.

    “Allora siamo d’accordo, Sherton: mi farai un resoconto periodico. Non serve che ti chieda di essere severo con lei, so che lo sarai. Bisogna capire se vuol farci perdere tempo o fa sul serio.”
    “Se a te va bene così…”
    “Interverrò al momento giusto, non ti preoccupare. Ora, visto che non è bene sprecare la serata… Andrai tu da Burgin, da solo, cerca di non farti spillare più dei soldi pattuiti, una volta che avrai la merce, incontrerai Rookwood al luogo convenuto, senza aspettarmi.”
    “Credi sia una buona idea?Milord non sarebbe contento se sapesse…”
    “Ho già detto a Milord che forse mi sarei trattenuto qui stasera, mi ha dato licenza di studiare il nemico… fin nei più intimi dettagli…”

Fece un cenno e due ragazzotte, al seguito di Janine, si avvicinarono, andandosi a sedere sulle sue gambe e guardandomi invitanti. Lestrange infilò la mano sotto la striminzita maglietta della mora alla sua sinistra, che parve fargli le fusa in risposta. Lo guardai turbato: nemmeno Milord sarebbe stato contento di una cosa del genere.

    “Rod…”
    “Buonanotte, Mirzam: scusami ma, come vedi, stasera sono molto impegnato…”
 
*

Daily Prophet
Edizione del 4 maggio 1970

MISTERIOSO INCENDIO DEVASTA LOCALE NELLA LONDRA BABBANA

La squadra Aurors è intervenuta questa notte sulla scena di uno spaventoso incendio scoppiato nella zona portuale di Londra, per analizzare ciò che restava de “Lo squalo nero”, pub babbano gestito da Herbert Svenson, membro di una nota famiglia purosangue di Leeds, che da anni aveva abbandonato la comunità magica per vivere nel mondo babbano. L’incendio, che ha devastato ogni cosa, uccidendo numerosissime persone, tra cui tutti i membri del personale, numerosissimi clienti e, pare, lo stesso Svenson, appare di chiara natura magica, quindi dolosa. Barty Crouch, a capo della sezione Aurors, ha voluto prendere parte al sopralluogo personalmente e, intervistato dal nostro corrispondente, ha dichiarato che responsabile dei delitti deve ritenersi la banda di Maghi al seguito del famigerato Mago Oscuro a tutti tristemente noto come Lord Voldemort, che da numerosi mesi, ormai, attenta alla vita di maghi che si sono avvicinati al mondo babbano, causando una lunga serie di vittime. Sembrerebbe che Lord Voldemort… (pagg.2-3 e seguenti.)
Fine flashback

***

Mirzam Sherton
Amesbury, Wiltshire - dom. 20 dicembre 1970 (chap.3)

Kreya entrò tutta trafelata nella mia stanza, proprio mentre finivo di allacciarmi gli stivali di pelle di drago, per dirmi di sbrigarmi: con mio padre, avevamo deciso che sarei andato a vivere nella casa padronale, per tutto il tempo delle festività, così da non dar adito a pettegolezzi. Sapevo che Orion e la sua famiglia sarebbero stati i primi ad arrivare, perché mio padre doveva parlare di qualcosa di molto importante con il mio padrino, perciò, mentre la mamma avrebbe dovuto sorbirsi quell’arpia di Walburga Black, sarebbe toccato a me e a Rigel accogliere e intrattenere gli altri invitati che sarebbero via via arrivati; mi annodai i capelli, mi diedi un’ultima rapida occhiata allo specchio sistemando le maniche dell’abito cerimoniale e mi avviai di sotto. Scendendo le scale, m’imposi di fingere una serenità che non avevo: c’erano troppe incognite in quella giornata e avevo uno strano, oscuro, presentimento. Non mi andava di vedere Rodolphus, speravo che trovasse una qualsiasi scusa per non essere presente: benché negli ultimi mesi persino mio padre avesse cambiato opinione su di lui, riconoscendo che senza il suo intervento a Doire mi avrebbe perso, io, dopo l’incontro mancato di un paio di settimane prima, avevo evitato in tutti i modi di incontrarlo. Da parte sua Rodolphus, col suo silenzio, pareva pensarla allo stesso modo. Quel giorno, però, temevo che appena mi avesse avuto sottomano, mi avrebbe finalmente affrontato a proposito di Bellatrix. Alla fine avevo capito che cos’era successo: una sera mi ero fatto convincere da lei a cenare in un piccolo locale di Inverness, era stata una serata strana, avevamo parlato a lungo, piacevolmente, per la prima volta non avevo dovuto fingere di sentirmi bene con lei. All’uscita, però, per puro caso, così almeno avevo pensato in quel frangente, avevamo incontrato Pucey: probabilmente era stato lui a raccontare a Rodolphus di averci visti, instillandogli il dubbio che ci frequentavamo di nascosto e non per dovere, trovando così il modo di vendicarsi. L’altro motivo di profonda incertezza, naturalmente, era proprio Bella. Non avevo idea di che cosa potessi aspettarmi da lei, ma sapevo quanto odiasse sentirsi ignorata: dalla sera in cui Rodolphus mi aveva dato buca, non l’avevo più invitata a partecipare alle missioni che dovevo svolgere per Milord, sparendo completamente dalla sua vita. Ci saremmo rivisti lì, ad Amesbury, quel giorno, dopo quasi tre settimane, e di sicuro lei mi avrebbe messo in difficoltà, nemmeno la presenza della sua famiglia poteva garantirmi che non mi facesse una scenata. No, potevano accadere cose poco piacevoli quel giorno, c’erano troppe verità che non andavano in alcun modo svelate. Persino il pensiero di rivedere Meda, dopo quel terribile pomeriggio di fine maggio, invece di farmi piacere, com’era sempre accaduto, ora mi riempiva di angoscia.
Arrivato a piano terra, mi guardai intorno, alla ricerca di Rigel, invano. Il moccioso negli ultimi tempi era diventato un piccolo delinquente, che non ascoltava più niente e nessuno, e ora che era sparito, visto quanto mi aveva raccontato mio padre sulle sue recenti bravate, temevo stesse preparando qualche stupido scherzo ai danni di Malfoy. Avevano avuto in primavera una lite furiosa durante la quale, incredibile a dirsi, mio fratello, pur più giovane di quattro anni, aveva vinto, costringendo Lucius a restare una settimana in infermeria a leccarsi più che altro le ferite dell’orgoglio. Da allora i loro rapporti erano naturalmente pessimi. Di tutta quella vicenda, a dir poco incredibile, il fatto che mi aveva meravigliato in modo particolare era che Rigel si fosse battuto per difendere il mio nome. Non mi aspettavo che quella peste facesse qualcosa del genere, fino a quel momento i nostri rapporti non erano mai stati profondi, né idilliaci, mi dava fastidio anche solo vederlo, lo consideravo un viziato, e non sopportavo che facesse i dispetti a Meissa. Ora però, benché non credessi che l’avesse fatto solo per me, quanto piuttosto per il nome della nostra famiglia, o per farsi bello con qualche ragazzina di Hogwarts, sentivo che era davvero mio fratello. Ciò nonostante, non potevo permettere che con i suoi ardori, Rigel contribuisse a complicarmi ulteriormente quel dannato giorno di “festa”.
Quando feci il mio ingresso nel salone, per fortuna, gli unici che trovai furono i figli di Orion e pochi altri invitati: non vedevo da anni i fratelli Black, ma non ebbi difficoltà a riconoscerli, erano le copie in miniatura del padre, due ragazzini alti per la loro età, dai capelli corvini, pettinati con cura, gli occhi del color grigio chiaro tipico dei Black-McMillan, non l’azzurro acceso dei Black –Crabble, come Lady Walburga e i suoi due fratelli, Cygnus e Alphard. Li salutai con appena un cenno del capo, mantenendo un algido distacco che mi ero imposto di riservare a tutti gli ospiti, per non ritrovarmi impelagato in situazioni strane, ma continuai a osservarli per tutta la giornata: mio padre li aveva invitati a passare l’estate da noi, a Herrengton, era stata in realtà un’idea di Orion, fatta passare per propria, per permettere a quei due ragazzini di sottrarsi al controllo della loro ingombrante e dispotica madre. Ero curioso di capire se avessero preso l’altezzosità tipica di Lady Walburga, persona che mi aveva messo in difficoltà a ogni incontro di cui avessi ricordo, o fossero, invece, più simili al loro padre, uomo pieno d’inventiva e di ottima compagnia, ma anche con una certa, segreta, attitudine a mettersi nei guai. Da quanto diceva Bellatrix, Sirius, il maggiore, era quello che aveva ereditato questa nota caratteriale da suo padre, oltre ad assomigliargli di più fisicamente: ne ebbi la dimostrazione molto presto, quando vidi Sirius aggirarsi annoiato per la sala, evitare magistralmente gli altri invitati, avvicinarsi di soppiatto alla porta con fare guardingo, quindi filarsela diretto in giardino, all’insaputa di pressoché tutti. L’altro, Regulus, sembrava invece molto più calmo e composto: per quasi tutto il tempo era rimasto ad ammirare gli oggetti strani disseminati per la stanza, poi, come se fosse guidato da una magia potente, era finito davanti alla vetrina nella saletta laterale, dove erano custodire le foto e i trofei di mio padre al tempo del Puddlemere, chiacchierando infine di fluffa e boccini mentre giocava a scacchi con il più piccolo dei Rosier, uno dei suoi cugini. Orion aveva avuto un’ottima idea a volerli spedire in Scozia per l’estate: si sarebbero divertiti a Herrengton ed io mi sarei prestato a insegnar loro qualche trucco, così sarebbero stati le colonne portanti, insieme a mio fratello, della futura squadra di Quidditch di Serpeverde, visto che presto sarebbero entrambi andati a Hogwarts. Li osservavo compiaciuto, sorseggiando una delle migliori Burrobirre irlandesi che avessi mai assaggiato, chiacchierando amabilmente con gli invitati accorsi per il rito di presentazione di Wezen, che piano piano affollarono la casa. Anche se i miei erano riapparsi da un pezzo, al contrario di mio fratello che non si capiva dove fosse finito, mi destreggiai ad accogliere anche gli ultimi arrivati, trattenendomi a parlare un po’ con tutti e, alla fine, mi diressi da Emerson, al solo scopo di evitare un paio di streghe con figlie in età da marito. Kenneth si mise a ridere, avendo capito quale fosse la mia preoccupazione, e mi fece notare che ormai quelle imboscate sarebbero state all’ordine del giorno, perché tra quelli della mia età, ero rimasto uno dei pochi a non essermi ancora nemmeno fidanzato. Mi sembrava strano che avesse quell’atteggiamento così leggero e amabile con me, su quegli argomenti per giunta: sapeva bene in quali guai mi fossi cacciato, appena pochi mesi prima, proprio per una donna. Quando però notai come cercava di mettere sotto il naso di mio padre suo figlio William, un ragazzino biondo dell’età di Rigel, compresi quale fosse il vero interesse di quell’uomo per la nostra famiglia e apprezzai ulteriormente l’idea di mio padre di tenere Meissa lontana da quella festa, con la scusa di un raffreddore. Il pensiero che molti dei presenti fossero lì non per Wezen ma per proporre a mio padre qualsiasi cosa in cambio di mia sorella, mi colpì all’improvviso per la prima volta, facendomi rivoltare il sangue come non avrei mai immaginato. Non capivo razionalmente perché, ma d’istinto, iniziai a trattare chi aveva figli maschi con maggiore freddezza e persino con una viva ostilità. Nonostante questi inaspettati attacchi di strana “gelosia”, la mattinata finì con lo scorrere velocemente anche per me, senza nessuno dei problemi che avevo immaginato: tutti erano impegnati nelle chiacchiere, nei pettegolezzi, nelle proposte di affari, con un certo stupore mi trovai davanti a uno dei consiglieri dei Tornados che mi offrì un contratto per giocare nella sua squadra, invito che declinai cortesemente ma in maniera decisa. Ormai in attesa del pranzo, di Rigel non si avevano ancora notizie, e quel fatto stava diventando la mia unica vera preoccupazione, non sapevo più come giustificarlo né con gli ospiti né con mia madre. Quando mio padre mi avvicinò, pensai che l’avrei dovuto coprire anche con lui, anche se era ora che mio fratello si assumesse le proprie responsabilità, invece papà mi disse di aver visto Meissa salire dalla cantina tutta scompigliata e, come se non bastasse, oltre che di Rigel, si erano perse anche le tracce di Sirius Black. Pensai subito che Rigel potesse averne combinata una delle sue, così, ricordandomi che Sirius era uscito nel parco e non era rientrato, chiesi a Kreya il mantello per uscire a cercarli.
Fu allora che la giornata prese la piega che temevo. Non mi sarei mai aspettato di essere raggiunto da Narcissa, nel corridoio buio che univa il salone delle feste al giardino: fin dal suo arrivo con Bella e i genitori, aveva cercato di attirare la mia attenzione, forse voleva parlarmi di Meda, stranamente assente, ma Bellatrix continuava a girarle attorno, come uno squalo famelico, ed io, per evitarla, avevo finto di non accorgermi delle sue occhiate. Ora per fortuna era sparita anche Bella: a dire il vero sembrava che fossero spariti un po’ tutti, si era dileguato in giardino anche Malfoy e questo mi aveva reso particolarmente inquieto per le sorti di mio fratello. 

    “Mirzam, scusami, posso parlarti?”
    “Certamente! Che cosa succede, Cissa? Va tutto bene? Sembri preoccupata.”

Era strano che mi rivolgesse così apertamente la parola: in tanti anni che ci conoscevamo, i momenti in cui eravamo rimasti a parlare da soli si potevano contare sulle dita di un’unica mano. Meda una volta mi aveva raccontato che Narcissa mi trovava inquietante e aveva una non meglio precisata paura di me, io non ne avevo mai capito il motivo e non me ne ero mai curato più di tanto. Se ora era lì, perciò, in quel corridoio oscuro, a pochi centimetri da me, la questione doveva essere davvero seria.

    “Ho bisogno del tuo aiuto, Mirzam. Temo stia per succedere un disastro…”
    “Che cosa vuoi dire? State tutti bene, vero?”
    “Sì, stiamo bene ma… Forse tu non vuoi più sentir parlare di quell’ingrata di mia sorella, di Meda, però non saprei a chi altri chiedere aiuto: ho paura che stia per fare una sciocchezza.”

Il cuore aveva già iniziato a martellarmi nel petto, impazzito: avrei voluto leggere la sua mente per sapere subito quello che stava accadendo, troppo lente apparivano le sue parole. Che altro le aveva fatto quel maledetto? Mi trattenni, frenai la lingua. Avevo preso una decisione, quel lontano sabato di maggio, lungo la strada che collega Hogsmeade a Hogwarts, dopo averle detto addio: avevo detto parole terribili, definitive, a Meda e su quelle parole avevo creato menzogne da cui ormai non si poteva più tornare indietro.

    “Dovresti chiedere aiuto a tuo zio Alphard, è l’unica persona cui tua sorella per ora presta ancora ascolto. Ti consiglio di fare presto, prima che perda la testa e non si fidi più nemmeno di lui.”
    “Mio zio non può più fare niente per lei: Meda ha tradito anche la sua fiducia, si è fatta spedire le lettere di quel Tonks a casa di mio zio, quest’estate, ingannandoci tutti. E non è escluso che…”
    “Pensi che tuo zio sapesse e l’abbia aiutata? No, non ci credo! Alphard non è quel tipo di persona: è bizzarro, vero ma non esporrebbe mai a rischi simili voi nipoti, siete quanto ha di più caro!”

Cissa annuì, speranzosa, come se la mia opinione su Alphard fosse sufficiente a sconfiggere il dubbio che la tormentava da chissà quanto tempo.
 
    “Sì, probabilmente hai ragione tu, lo zio non lo farebbe mai. Mia madre ha scoperto una lettera di quel Tonks tra i libri che lo zio le ha spedito per tutta l’estate, forse sono rimasti in contatto per tutto il tempo, proprio sotto il nostro naso! Eravamo appena partite per la scuola, a settembre, quando mia madre ha scoperto quella lettera, chissà di quante altre mia sorella è riuscita a far sparire le tracce. Non so cosa ci fosse scritto, ma mia madre è quasi impazzita, ha persino chiesto aiuto a zia Walburga e sai che non vanno molto d’accordo! Oh, Salazar, scusami, io…”
    “Tranquilla, Cissa, con me puoi parlare, puoi fidarti. Posso capire benissimo quanto tu sia delusa, offesa e anche triste. Se posso fare qualcosa, ti prometto che ti aiuterò!”
    “Ti ringrazio, io… Non sapevo con chi parlare, io mi vergogno così tanto, per lei. Però è sempre mia sorella e le voglio bene… Con Bella… ho paura che possa farle del male, capisci? Tu invece… so che infondo le vuoi ancora bene e che non ci giudichi. Dopo quella storia, mi hanno chiesto di tenerla d’occhio ed io, te lo giuro, ho fatto del mio meglio, ho fatto di tutto per… Ora, però ho paura che possa succedere qualcosa di terribile: da quando siamo tornati a Manchester, mio padre la tiene segregata, controlla tutto quello che entra ed esce da casa, anche adesso, è sotto le cure di tutti i nostri elfi. Io, però, non sono tranquilla.”
    “Temi che voglia scappare con lui? È questo che mi stai dicendo?”

Le si riempirono gli occhi di lacrime, chinò appena il capo e annuì, avrei voluto abbracciarla per darle conforto, ma conoscendo l’orgoglio tipico di quella famiglia, sapevo che sarebbe stato un errore. Le offrii il mio fazzoletto, e lei mi fece un cenno di ringraziamento, risollevando su di me lo sguardo fiero e orgoglioso, che avevo imparato a riconoscere negli anni in tutte loro.

    “Per favore, vieni a casa nostra e parlale, Mirzam! Per la nostra antica amicizia, ti prego! Sono convinta che appena partiremo per Hogwarts, lei farà una follia.”
    “Verrei a parlarle anche adesso, Cissa, ma a che scopo? Lo sai che non vuol più vedermi. Se davvero c’è quel rischio, tuo padre dovrebbe impedirle di tornare a Hogwarts.”
    “Sarebbe lo stesso uno scandalo, ne parlerebbero tutti! Mirzam, io… io ho pensato… ho sentito… Bella dire che tu sei uno dei seguaci di… Milord…”
    “Cissa!”
    “No, Mirzam, ascoltami! Io… pensavo… se tu facessi intendere a Meda che sai dove vivono i Tonks e che se non torna in sè, tu potresti dare quell’indirizzo a … Milord… lei magari si spaventerebbe e…”

Mi prese la mano e me la strinse, guardandomi con quei profondi occhi azzurri che raramente non si mostravano gelidi e altezzosi. Sì, avrei potuto, in fondo non avevo più nulla da perdere con Meda e potevo persino non limitarmi alle minacce ma agire, senza più fermarmi a parlare. Forse aveva ragione Milord, al momento giusto avrei davvero sentito anch’io il richiamo del sangue. E quello forse era il momento giusto. In cuor mio sapevo già che non l’avrei fatto: quello che alimentava un odio feroce dentro di me, in quel momento, non era più Tonks, ma il pensiero che Bellatrix mi avesse tradito, rivelando con superficialità un mio segreto tanto pericoloso. Se era così che aveva deciso di farmela pagare, dovevo chiudere presto i conti che avevamo in sospeso. E nulla mi avrebbe distratto dalla mia vendetta.

    “È meglio che non ci vedano chiacchierare così seriamente troppo a lungo, Cissa, questa festa è piena di pettegoli e questo corridoio è inadatto a te, non voglio comprometterti. Quello che Bellatrix ti ha detto di me, non è vero, non conosco Milord: posso mostrarti il mio braccio, se vuoi. E non verrò a Manchester per parlare con Meda, perché non mi ascolterebbe, ma troverò Tonks e questa volta smetterà di essere un problema per tutti voi, per sempre…”

Cissa annuì, disorientata, delusa, ammutolita, poi parve comprendere la vera natura della promessa e di quanto le avevo detto e un lampo di compiacimento misto a terrore puro si formò nel suo sguardo. Si voltò per tornare indietro, dagli altri invitati, apparentemente più sollevata, ma prima di andarsene mi strinse la mano dimostrando di conoscermi più di quanto immaginassi.

    “Mi dispiace che sia andata così, Mirzam, tu…”
    “Ormai non è più importante, Cissa… è tutto passato…”
    “Ma forse, ancora…”

Feci un gesto di diniego e la salutai, sospirando, poi, con una nuova preoccupazione in testa, mi avviai verso il giardino.

***

Mirzam Sherton
Inverness - maggio 1970 - inizio flashback

Avevo rivisto Rodolphus appena due giorni dopo il nostro colloquio a “Lo Squalo Nero” e l’avevo trovato sereno e soddisfatto, con la faccia tipica di chi ti guarda e dice “Hai visto, uomo di poca fede?”: probabilmente la “soluzione” adottata ai danni di Herbert Svenson gli aveva già fruttato ancora più prestigio presso Milord. Personalmente, io ero rimasto sconvolto: ero disgustato all’idea che avesse fatto una simile carneficina, anche se una parte di me, quella oscura che aveva sempre qualcosa da dire e che faticavo a tenere a bada, era sollevata perché non si era mischiato con i babbani, come avevo temuto. L’avevo visto per portargli la “dote” di Bellatrix: l’avevo contattata con un gufo appena consegnata la “Sabetia” a Rookwood e lei si era presentata all’appuntamento del giorno seguente, euforica, consegnandomi in pratica tutto quello che possedeva, il ricavato della vendita di molti dei gioielli ricevuti negli anni dai suoi nonni. Ognuno di noi, infatti, all’atto di adesione, doveva donare alla causa una cospicua somma di denaro, che finiva in un fondo comune da cui si attingeva per acquistare tutto quello che serviva per le missioni: quella vita era piuttosto dispendiosa, erbe e ingredienti di natura oscura erano costosi e difficili da trovare, così le casse dovevano essere rimpinguate continuamente anche con donazioni successive dei membri e, quando questo non era possibile, con donazioni esterne, più o meno volontarie. Rookwood, per esempio, era particolarmente abile nel confondere colleghi e conoscenti, i quali si convincevano di aver fatto elargizioni molto più sostanziose della realtà a strutture pubbliche o enti benefici, in realtà donavano la differenza alle nostre tasche. La fetta più cospicua dei nostri averi, però, proveniva quasi totalmente da quello che rubavamo alle nostre vittime. Rodolphus mi sorprese quando mi diede circa un terzo della dote di Bella, dicendomi di usarla per la sua istruzione e la sua sicurezza; compresi subito il vero motivo del “filtro” che stava mettendo tra se stesso e Black: voleva tenerla lontana dai guai il più possibile e con me, per il momento non ne avrebbe corsi. Pretendeva che in caso di necessità mi occupassi di lei, come avevo fatto la notte che l’avevo salvata: non avrebbe potuto chiedere nulla del genere a nessun altro, nemmeno a se stesso. Inoltre, sapeva quanto la odiassi, perciò era convinto che non avrei mai approfittato della situazione per provarci con lei, al contrario della maggior parte dei nostri compagni. Da parte mia, essendo in debito con lui, non potevo dirgli di no e avrei sopportato di tutto, persino Bellatrix, per fargli un piacere.
Lasciato Lestrange ai suoi affari, ero ritornato a Inverness, cittadina insospettabile, lontana com’era dagli abituali scenari in cui Milord metteva in atto le sue imprese e, abilmente camuffato, avevo affittato una stanza a “La Dama Scarlatta”, un albergo di ottima reputazione in pieno centro: non avrei mai portato Bella a casa mia, non mi fidavo di lei, inoltre non avrei mai permesso a un’altra donna, per nessun motivo, di mettere piede tra quelle mura, in cui avrei dovuto vivere con Sile. Mi accordai col gestore per avere sempre a disposizione la stanza più elegante e spaziosa che possedeva, possibilmente la più isolata dalle altre: ero pronto a pagare molto generosamente per qualsiasi mio capriccio e per la sua assoluta discrezione, facendogli intendere che la mia compagna ed io eravamo una ricca coppia di amanti clandestini, dai gusti un po’eccentrici. In realtà, avevo in mente ben altro: conoscendo le sue notevoli abilità come pozionista, avevo deciso di sfruttare il tempo, che avrei dovuto passare a istruire e cercare di “domare” Bella, per preparare quell’enorme quantità di sieri e pozioni malefiche di cui avevamo continuamente bisogno, e per far questo nessuno doveva sospettare che avrei trasformato quella camera d’albergo in una specie di laboratorio segreto. Bellatrix iniziò a frequentare “La Dama Scarlatta” appena due giorni più tardi: si presentò irriconoscibile, come le avevo chiesto, con una lunga treccia di capelli rossi che emergeva dal cappuccio, l’aria da cucciolo smarrito, e per un attimo m’illusi che le cose sarebbero filate lisce. Appena chiuse la porta, però, la sua indole proruppe: immaginava che dal primo giorno saremmo andati a uccidere babbani a destra e sinistra, così quando comprese che mi avrebbe dovuto assistere nella preparazione di alcune sciocche pozioni, mi piantò in asso inviperita. Ed io mi guardai bene dal correrle dietro. Si ripresentò il giorno seguente, sperando di avere maggiore fortuna, ma vedendo che non le proponevo nulla di diverso, iniziò a insultarmi, dicendo che ero un ladro, un truffatore, un impostore, accendendosi via via di più, quando si accorse che non mi curavo di lei né dei suoi schiamazzi. Anche quel giorno se ne andò sbattendo la porta. Rodolphus aveva ragione, Bella non aveva intenzioni serie e, sollevato, immaginai che non l’avrei più rivista; appena ne fossi stato certo, avrei scritto a Lestrange per ammettere il fallimento e chiedergli di recuperare parte del denaro dei Black, per restituirglielo. Bellatrix, invece, si ripresentò a sorpresa circa una settimana più tardi, una sera piovosa di ormai metà maggio. Si sedette accanto a me, al bancone, ne avevo evocato uno enorme, al posto del baldacchino, proprio al centro della stanza, iniziò a studiare gli ingredienti e le ampolle che avevo distribuito con cura davanti a me, prese coltellini e cucchiai e ne ammirò le fattezze: doveva riconoscerli, perché me li aveva donati suo zio Orion, per il mio diciassettesimo compleanno. E immaginavo che a sua volta, com’era tradizione, ne avesse ricevuti da lui di simili.

    “Stai preparando una quantità davvero notevole di “Veritaserum”…”
    “Milord ha bisogno di molte informazioni e non tutti i suoi uomini sono Legilimens…”

Mi guardò, come se mi vedesse per la prima volta, io non distoglievo lo sguardo dalle mie Artemisie, le affettavo veloce e preciso, mescolavo il Sangue di Salamandra, intrugliavo. A sorpresa si tolse il mantello, che trasfigurò in un camice, coprì i suoi abiti eleganti e inadatti, prese un piattino, dell’Asfodelo, un paio di coltelli, poi, rapida e precisa, iniziò ad aiutarmi. Da quella sera ci vedemmo quasi tutti i giorni, sempre più spesso, sempre per più tempo: di pomeriggio preparavamo le pozioni e di sera ci procuravamo quanto ci serviva, non volevo però che si fermasse con me di notte, né che arrivasse troppo presto il mattino, sarebbe stato troppo difficile per lei spiegare la situazione, con la sua famiglia, così invece poteva dire di uscire per fare compere o per cenare e divertirsi con qualche amica. Bella sembrava confusa, all’inizio, poi parve apprezzare questa mia premura e, seppur lentamente, entrammo in sintonia: dimostrò con i suoi modi rudi e spicci che aveva capito le mie intenzioni, cercavo di aiutarla ad apprendere un minimo di disciplina e a imparare, lei che non dava mai retta a nessuno, ad accettare gli ordini. Da parte mia, seppi tutto quello che Bella aveva da dirmi su Tonks, e con una certa delusione mi accorsi che, di quella faccenda, io ne sapevo molto più di lei. Bellatrix si era accorta che Tonks aveva un insano interesse per Meda quando frequentava il suo ultimo anno a scuola, ma al contrario di me, che qualche sospetto iniziavo ad averlo, non riusciva a immaginare che sua sorella potesse corrispondere quell’interesse: era convinta che fossero la sua gentilezza e la sua debolezza a spingere Andromeda a dare ascolto a quell’essere inferiore, mettendosi così nei guai, perché con quel comportamento aperto, dava adito a maldicenze. Aveva perciò affrontato la situazione alla sua maniera, attaccando Tonks con i suoi amici Serpeverde, ma aveva ottenuto solo la rabbia di Meda e un suo maggior attaccamento a quel ragazzino insignificante. Aveva poi cercato di metterla in guardia, di minacciarla: in famiglia, aveva aizzato i genitori e Cissa perché la controllassero di più, nella speranza che, perdendo la libertà e le tante cose che amava, Meda si rendesse conto che quella sua stupida amicizia per un mezzo babbano le stava costando troppo e che non ne valeva la pena. Fino a quel momento, leggendo le lettere di Andromeda, avevo pensato che Bella parlasse male di lei ai suoi perché era nella sua natura essere cattiva, ora, però avevo il terribile sospetto che Meda non mi dicesse tutta la verità e che, consapevole dell’errore che stava commettendo, raccontasse frottole persino a se stessa, non solo a me, per non perdere la mia amicizia e il mio rispetto. D’altra parte, che Bellatrix fosse gelosa di Meda era un dato di fatto: Cissa era sicuramente la più bella delle tre sorelle, ma ciò che Bella invidiava ad Andromeda era la capacità di ottenere con la sua pacatezza e la sua dolcezza tutto ciò che voleva; al contrario, la sorella maggiore, pur disposta sempre a lottare contro tutto e tutti, non riusciva con la stessa facilità a raggiungere i propri scopi. Era gelosa perché Meda era una ragazza che sapeva amare e per questo era a sua volta amata, mentre lei, se anche amava qualcun altro oltre se stessa, non sapeva dimostrarlo. In quella stanza d’albergo, mentre preparavamo pozioni, mi accorsi che pur non essendoci stato nulla tra me e Andromeda, Bella non sopportava nemmeno i sentimenti d’affetto che ancora ci legavano, la luce che mi animava ogni volta che sentivo il suo nome o il sorriso che, a volte, mi usciva quando parlavamo di lei. All’inizio pensavo fosse solo gelosia per Meda o disprezzo per la mia debolezza, in seguito mi resi conto che nella sua ostilità verso di me c’era anche del sincero dolore e mi chiesi se si fosse pentita di come mi aveva trattato anni prima, se fosse sincero quello che ora, evidentemente, provava per me. La vita di entrambi sarebbe stata molto più semplice, di sicuro molto diversa, se lei... Feci finta di nulla, ripetendo a me stesso che Bellatrix era da sempre un’abile sfinge, qualcuno da temere, e, se possibile, da cui tenersi a distanza: avevo già avuto modo, in passato, di vedere quanto fosse pericoloso mostrare una qualsiasi debolezza in sua presenza. E quanto lei fosse abile a mentire. Alla fine, per evitare guai, decisi di chiudere quel discorso, cercai di rassicurarla, ricordandole che Tonks avrebbe presto finito la scuola e non avrebbe più potuto infastidire Meda: col tempo lei sarebbe ritornata alla normalità e avrebbe applicato la gentilezza del suo animo in favore di cause più nobili e giuste. A Bella, però, lo vedevo, tutto questo non bastava: secondo lei, a quel sangue sporco serviva comunque una lezione e, prima o poi, avrebbe certamente trovato il modo di fargliela pagare.

*

Mirzam Sherton
Hogsmeade, Highlands - maggio 1970 - flashback

Quel giorno, un sabato pomeriggio di fine maggio, non avendo trovato da Burgin gli ingredienti che ci servivano, Bella aveva preso appuntamento a “La Testa di Porco” con un tizio che introduceva nel Regno ingredienti di contrabbando. Non mi piaceva fare affari con persone che non conoscevo, tanto meno apprezzavo girare per Hogsmeade: non volevo che certi ricordi mi turbassero, mentre trattavo gli affari di Milord. Inoltre erano quasi le 17 e di Bella non c’erano tracce. Nervoso e arrabbiato per la sua scarsa serietà, mi ero deciso ad andarmene, quando un uomo, avvolto in un mantello semi sdrucito, col cappuccio che gli celava mezza faccia, entrò guardingo nel locale, m’individuò, si avvicinò, si sedette di fronte a me, stordendomi col suo tanfo di alcool misto a sudore, e dopo avermi studiato per qualche istante, mi passò un sacchetto da sotto il tavolo. Controllai la polvere iridescente nella scarsa luce del tugurio, puntai la bacchetta e formulai l’incantesimo che avevo appreso nei testi di mio nonno, per valutare la purezza di numerose sostanze poi, soddisfatto, misi il sacchetto nella tasca interna del soprabito e passai a mia volta un sacchetto pieno di galeoni all’uomo, che li contò, fece un cenno di assenso e si allontanò furtivo. Abeforth aveva finto di lucidare la sua“cristalleria” col suo lurido strofinaccio, in realtà non mi aveva perso di vista un solo istante, spiandomi di sottecchi, io non avevo fatto nulla per non farmi riconoscere, non mi ero mascherato in alcun modo, avevo addirittura parlato con un paio di avventori. Poteva sembrare un comportamento irresponsabile, in realtà non correvo rischi: se anche mi avessero fermato e mi avessero perquisito, potevo dire che quell’erba, la cui vendita era legale, era un narcotico di cui mi servivo per sopportare i terribili dolori che mi tormentavano le gambe. Nessuno, a parte Rodolphus, infatti, sapeva che ormai ero del tutto guarito. Rivolsi un sorriso tranquillo ad Abeforth e gli chiesi un altro firewhisky, indolente, fermandomi a studiare di nuovo il quadro di una ragazzina esposto sopra il caminetto.
Presi dalla tasca una busta e ne estrassi due fogli, ammirai la calligrafia, leggera ed elegante, era l’ultima lettera di Meda, arrivata il giorno prima, la rilessi ancora: mi raccontava dell’ottimo voto preso a pozioni, ennesimo successo di quelle ultime settimane. Quello che, però, in particolare, mi faceva piacere, era l’assoluta assenza di cenni, in nemmeno una riga, a quel bastardo di Tonks. Sorseggiai il mio firewhisky e mi chiesi, compiaciuto, se l’intensa corrispondenza che c’era sempre stata tra noi, non stesse dando, alla fine, i frutti sperati. E già sognavo il momento in cui, al nostro prossimo incontro, le avrei detto che, se lei era d’accordo, mi sarebbe piaciuto provare a riprendere quel nostro discorso rimasto in sospeso. Inbfondo, se avessi continuato a lavorare per Milord come pozionista, Meda non avrebbe corso rischi, pur stando al mio fianco. In quel modo potevamo farcela: l’avrei salvata da un triste destino e avrei finalmente reso felici entrambi. Perso nelle mie fantasie, mi sorprese sentire, per la strada, una risata che conoscevo bene. Non sapevo che quello fosse giorno di visita per gli studenti di Hogwarts, Meda non me l’aveva scritto ed io mi ero materializzato sulla collina poi mi ero intrufolato nella locanda da una strada secondaria, di solito disdegnata dai ragazzini: a parte il locale di Abeforth, che non era propriamente raccomandabile, in quella zona, infatti, non c’erano altro che case. Mi alzai, mi avvicinai al bancone, lasciai i galeoni delle consumazioni e uscii. In silenzio, con passo tranquillo, mi accodai a quella risata e svoltato l’angolo, vidi Meda camminare pochi passi davanti a me, lungo una stradina sconosciuta: non c’ero stato mai, immaginavo soltanto, dalla direzione, che portasse ai campi che dividevano le ultime case del villaggio da una strana catapecchia, abbandonata orai da decenni, perché si diceva fosse infestata dai fantasmi. E soprattutto… Meda non era sola.
Come potevo riconoscere la risata di Andromeda ovunque, ormai avevo imparato a riconoscere Tonks anche da dietro o da lontano. Allungai il passo, per non perderli in quel dedalo di viuzze, non avendo idea di dove si sarebbero imboscati, ragionando, preda della rabbia, su cosa fosse meglio fare: potevo lanciare contro di lui una maledizione alle spalle e allontanarmi prima ancora che Meda si rendesse conto che qualcuno l’aveva colpito, ma rischiavo di ferire anche lei, perché camminavano troppo vicini ed io dovevo tenermi distanziato per non farmi scoprire. Inoltre non ero un vigliacco: l’avrei affrontato faccia a faccia, l’avremmo finita una buona volta, e soprattutto avrei aperto gli occhi a Meda perché doveva capire fino a che punto quel maledetto era arrivato a raggirarla! Non era da lei fare una cosa simile: lei, una ragazza come lei, una ragazza responsabile e seria come lei, con il suo sangue, non sarebbe andata mai, di propria volontà, da sola, verso i campi, con nessuno, tanto meno con un uomo, tanto meno con uno come Tonks.

    Un mezzo babbano!

Già non potevo sopportare l’idea che qualcuno si approfittasse di lei e della sua ingenuità, se poi a farlo era un individuo che non avrebbe mai potuto rimediare, in alcun modo, al danno che le avrebbe arrecato, rovinandole per sempre la vita, io… Mantenendomi a breve distanza, uscimmo dal dedalo di viuzze nella luce piena dei campi, accarezzati dall’ultimo sole del pomeriggio: una brezza leggera muoveva i fili d’erba come fossero rapide onde che si accavallavano, s’infilava tra i capelli di Meda, raccolti da un fermaglio d’argento, facendoli brillare di riflessi d’oro e di fuoco, e portava fino a me le sue risate. Tremai, di rabbia e preoccupazione: ero di nuovo alla resa dei conti col mio passato, a un bivio da cui non sarei più potuto tornare indietro.

    “Dove credi di portarla, Tonks?”

Non finii di parlare che avevo già buttato il mio mantello a terra, insieme alla giacca, Tonks si voltò e mi guardò allibito: pareva essersi destato in quel momento dal sogno condiviso con Meda. Lei, a sua volta, gli era rimasta accanto impietrita, catturata dal mio sguardo deluso. Non poteva più mentire ed io mi sentii morire dentro, perché nei suoi occhi, nel suo silenzio c’erano tutte le verità che immaginavo, ma in cui non avevo mai voluto credere, in cui nemmeno in quell’istante riuscivo a credere: non era stata irretita, non era stata stregata, non era nemmeno stata condotta fin lì contro la sua volontà. L’aveva voluto, l’aveva cercato, l’aveva desiderato… con tutta se stessa.

    “Mirzam… ascolta… io… noi stavamo solo…”
    “Stai zitta, per Salazar! Stai almeno zitta! E soprattutto… vattene! Torna al castello, prima che qualcun altro ti veda e si sappia!”

Meda si era allontanata da Ted, aveva fatto un passo, poi un altro, verso di me, le mie parole l’avevano fermata a metà strada, mentre i miei occhi si fissavano su di lui e smettevano di vedere in lei, per sempre, colei che avevo amato.

    “No!”
 
Doveva aver capito cosa mi passasse per la testa ma pensava di poter ancora fermarmi in qualche modo: si sbagliava. Si avvicinò, sentii sulla mia mano, stretta attorno alla bacchetta tanto forte da poterla spezzare, la sua, gelida di paura. Mi sottrassi a quel contatto, disgustato, diretto verso Ted, Meda, colpita dal mio disprezzo e ormai prossima alle lacrime, si slanciò per trattenermi, ma io me la staccai da dosso infastidito, strattonandola e facendola cadere a terra, senza curarmi se si fosse fatta male. Ted cercò di aiutarla a rialzarsi, ma mi frapposi tra loro.

    “Veditela con me, sanguesporco… Affrontami da uomo, se ci riesci… o sei solo un vigliacco che si approfitta delle ragazzine stupide?”

Non sapevo se Tonks fosse un vigliacco o un coraggioso, magari restava lì, davanti a me, e non scappava, solo perché era impietrito per la sorpresa e la paura. Non importava. Ero stato fin troppo paziente con lui, meritava una lezione: una volta, prima dell’incidente di Doire, mi ero abbassato a parlargli, per cercare di fargli capire che se davvero era amico di Meda e le voleva bene, doveva agire di conseguenza, evitando di metterla ancora nei guai con la famiglia solo per soddisfare l’assurda ossessione che provava per lei. Fino a quel momento, non mi era mai passato per la testa, pur conoscendola, che fosse Meda a non voler rinunciare a lui, che fosse Meda a voler disobbedire alle regole, incurante delle conseguenze, e che, al contrario, Ted Tonks, riconoscendo che avevo ragione, avesse cercato di fare la cosa giusta, ma non fosse stato in grado di arginare l’entusiasmo e il desiderio di libertà di Andromeda, facendosi travolgere a sua volta.

    “Ti darò persino un vantaggio: niente magia, solo forza di braccia, sanguesporco!”

Sorrisi al suo sguardo incredulo, mentre mi toglievo pure la camicia e gettavo la bacchetta a terra, lui automaticamente fece altrettanto, non era tipo da tirarsi indietro, forse credeva che sarebbe stato più semplice, o forse, punto nell’orgoglio, non si rendeva conto, come me, di cosa stava accadendo. Meda, in lacrime, iniziò a gridare, a supplicare di fermarci, prima all’uno, poi all’altro, invano. Studiai il mio avversario: Ted appariva muscoloso e ben piantato, non era il placido Tassorosso che mi aspettavo. Ed io non ero al massimo della forma, non dopo quello che era successo a Doire. Per un attimo mi chiesi se avessi fatto bene a gettare la bacchetta, ma ormai non potevo più tornare indietro e, infondo, non era la prima volta che facevo a botte come un volgare babbano.

    “Come “milord” preferisce… ci metterò pure di meno a farti abbassare la testa, sbruffone!”

Eravamo soli, lontano dagli occhi indiscreti di chi rientrava dal villaggio alla scuola e di quanti ancora si attardavano per le strade; il vento che si era alzato leggermente, disperdeva le nostre grida verso il bosco, e Meda era troppo atterrita per fuggire e chiedere aiuto: nessuno ci avrebbe disturbato. Non sapevo cosa volessi dimostrare, quello che stavo per fare era di sicuro controproducente, ma nella mia follia immaginavo che alla fine lei si sarebbe preoccupata per me, come aveva fatto per tutto l’inverno dopo il mio “incidente”, avrebbe aperto gli occhi su Tonks e avrebbe capito perché ero stato costretto a fare tutto questo. Sarebbe tornata a vedermi come il cavaliere che ero sempre stato per lei, pronto a salvarla persino da se stessa e dalla follia che le avrebbe distrutto la vita.

    “Le conosci le regole, damerino?”
    “Le conosco secondo te?

Senza preavviso gli saltai addosso, colpendo in modo scoordinato, Ted si difese bene, nonostante la sorpresa, così mi sbilanciai e rovinai a terra; lo vidi ghignare, illuminato dal sole, mi rialzai e lo caricai, affondando con un pugno nel suo stomaco con tanta violenza, che quasi si piegò a terra. Mi staccai da lui per dargli il tempo di riprendere a respirare, Ted sollevò il suo sguardo su di me e appoggiandosi al mio braccio, barcollando, si rimise a stento in piedi: non aveva più la luce spavalda di chi crede di essere in vantaggio. Alzò la guardia, si avvicinò, sparò un paio di colpi che riuscii a schivare, evitò un mio nuovo affondo e mi centrò in piena faccia: dal rumore e dal dolore, ero certo che mi avesse rotto il naso. Non era una sensazione nuova per me, era invece nuovo il senso di assoluta indifferenza al dolore e al calore del sangue che mi scorreva sulle labbra e il mento. Non lo sentivo quel dolore, il cervello lo elaborava in qualcos’altro, in un odio primitivo, che mi alimentava dentro, che non mi faceva vedere, non mi faceva sentire, non mi faceva pensare. Dovevo solo andare avanti, sempre e solo avanti. Sferrai un nuovo colpo, che Tonks evitò, mi colpì a raffica entrambi i fianchi, togliendomi tutta l’aria che avevo dentro, ma non era determinato abbastanza da farmi davvero male, l’unica cosa che voleva era che smettessi di combattere e lo lasciassi andare. Quando si fosse stancato, e sarebbe successo presto, non avrebbe avuto la cattiveria necessaria per resistermi. E, infatti, al momento giusto mi girai, lo centrai con due pugni violenti e lo buttai steso a terra: stavolta, non lo lasciai rialzarsi. Come una belva, gli fui sopra e gli rimasi addosso. L’avevo bloccato sotto di me, stretto tra le mie ginocchia, e continuai a colpire, più e più volte, finché non sentii il suo corpo allentarsi sotto il mio, e vidi il mio sudore, le mie lacrime, il mio sangue, mischiarsi al suo. Mi portai la mano al viso, per asciugarmi, sentii il suo odore, l’odore del sangue, del sangue di feccia, mi passai le dita sul viso, macchiandomi la pelle di quel sangue, che mischiato al mio, mi scivolava fluido addosso. Ogni cosa attorno a me, ora, sapeva di Tonks. Mi chinai su di lui, portando le labbra a un centimetro dal suo orecchio, respirava a fatica, il cuore sembrava martellargli aritmico nel petto, tanto da far vibrare le mie gambe, pareva volesse saltar fuori e fuggire.

    “Non puoi cambiare la tua natura, Tonks… Non è sporcando lei che innalzeresti te stesso… Sei e rimarrai sempre un sangue sporco… io, invece, la mia natura posso cambiarla… Io non sono un assassino, Tonks, ma se servisse a salvare chi amo dalla rovina e dal dolore… potrei diventarlo… Perciò vattene, torna tra i tuoi simili e lasciala in pace!”

Alla fine l’avevo detto… e avevo fatto in modo che lo sentisse solo lui. Mi alzai e mi allontanai; Ted, il viso ridotto a una maschera di sangue, provò invano a fare altrettanto, allora Meda corse verso di lui per aiutarlo, io la osservai, senza mai staccare gli occhi dai suoi, convinto che avesse capito. Quando incrociai quegli occhi, però, mi accorsi che erano quelli di una sconosciuta. Di certo era spaventata, dovevamo aver dato uno spettacolo orrendo, ora gli avrei permesso di calmarsi, e di dirgli addio, poi l’avrei riportata io stesso al castello, mi sarei spiegato, e se avesse fatto resistenza… beh allora, l’avrei schiantata e me la sarei caricata sulle spalle, purché nessuno sapesse cosa stava per fare. Ripresi la bacchetta, mi ripulii e rivestii, incurante del dolore per le ferite, quando tornai a guardarli, Meda si stava ancora prodigando nelle cure e Tonks faceva cenno che ormai poteva rialzarsi da solo: mi guardò, serio e consapevole, le disse qualcosa che non sentii, di certo “addio”, perché Meda si arrabbiò come non l’avevo mai vista arrabbiarsi e cercò di scappare via. La rincorsi e dopo pochi dolorosi passi la bloccai, afferrandola per un braccio, lei cercò di divincolarsi e si ostinava a non guardarmi in faccia, capii dai suoi tremiti che stava piangendo. Ted, vedendo la sua smorfia di dolore per la stretta pesante, ebbe un moto di ribellione, ma mi bastò un’occhiata minacciosa, per farlo desistere e tornare in silenzio a rivestirsi. Continuò a fissarmi e mi sorprese non vedere l’odio che immaginavo provasse per me, quello che leggevo era solo preoccupazione e… forse una supplica… che davvero mi prendessi cura di lei, che davvero le stessi accanto per amarla, non solo per il suo nome e il suo sangue. Possibile che Ted Tonks, un sangue sporco, fosse animato da sentimenti tanto simili ai miei? Possibile che quello che aveva nel cuore non fosse volgare bramosia per il sangue più puro del mondo magico, ma un sentimento sincero, tanto forte da farsi picchiare a sangue per difenderla, e rinunciare alla fine a lei, per il suo bene? La sensazione che avevo dentro in quel momento mi disorientò, non potevamo essere così simili, no, lui era solo un volgare mezzo babbano, lui non poteva capire, lui non poteva essere degno di…

    “Ti riporto al castello, Meda… Mi assumerò tutta la responsabilità del tuo ritardo…”
    “Voglio che tu te ne vada Mirzam… Sparisci! Lasciami andare!”
    “Meda, sei già in ritardo… Slughorn potrebbe punirti…”
    “Non m’interessa! Vattene! Non voglio più ascoltarti… Vattene!”
    “Meda… se si sapesse che eri con…”

Mi strattonò il braccio, liberandosi, fece pochi rapidi passi davanti a me, nella direzione del villaggio, non più verso il bosco, in silenzio: non voleva avermi accanto e lo capivo, ma almeno sembrava aver compreso cosa fosse meglio per se stessa; dietro di me, Tonks ci seguiva lentamente, sempre più distanziato. Quasi vicino alle case, però, Meda si voltò di nuovo verso di me: non piangeva più, ma era molto arrabbiata, non l’avevo mai vista così arrabbiata, i suoi occhi parevano sul punto di incenerirmi, animata com’era dalla stessa furiosa violenza che albergava costantemente in sua sorella.

    “Se si sapesse che ero con lui, Sherton, sarebbero solo affari miei, non tuoi! Cosa diavolo vuoi da me? Chi diavolo credi di essere? Smettila di impicciarti di cose che non ti riguardano ed esci dalla mia vita!”
    “Sono affari miei, Meda, perché non sarei tuo amico se non m’interessassi al tuo bene…”
    “E ci credi pure a quello che dici? Che sei mio amico? Io credevo che almeno tu, fossi diverso dagli altri, che fossi sincero, quando parlavi con tanto trasporto di amicizia e d’amore… invece… Bella aveva proprio ragione quando diceva che sei un bugiardo e un ipocrita… Ti riempi la bocca di belle parole, ma ciò che conta per te è solo il sangue e l’onore… Solo questo stramaledetto sangue… A me invece del sangue e della sua falsità non importa niente, niente lo capisci? Niente!”
    “Puoi pensare quello che vuoi, su di me, Meda, ma quello che è in gioco, qui, è la tua vita! Cosa credi di poter ottenere da tutto questo? Da un sangue sporco? Ti aspettano solo disprezzo e umiliazioni accanto a lui!”
    “Sangue sporco? L’hai chiamato sangue sporco? Mi fai schifo! Tu… proprio tu! Che leggi poesie e ti credi migliore degli altri… Sei come tutti, anzi no… tu sei peggiore… perché sei bugiardo, sei falso… Usi belle parole per apparire meglio di come sei, poi tratti il resto del mondo come fossero pezze con cui pulirti le scarpe... Misuri la gente col sangue, come tutti gli altri… ma almeno gli altri non usano le parole a sproposito come fai tu…”
    “E tu cosa sei? Una che segue il primo che passa, in mezzo a un campo, per farsi prendere come un animale? Credi che facendolo con un sangue sporco non si saprà in giro, così potrai mantenere a casa la tua facciata di ragazzina per bene? Se senti il bisogno di uno che ti sbatta contro un muro senza l’obbligo di prendersi poi le proprie responsabilità, non c’è bisogno di scendere tanto in basso, se è questa la tua aspirazione, anche un purosangue sa tacere!”

Mi centrò con uno schiaffo che mi fece molto più male di tutti i pugni presi poco prima, perché sapevo di meritarlo, io stesso mi sarei picchiato per quello che le avevo appena detto. Doveva però capire che avevo ragione, doveva capire che cosa le sarebbe accaduto, se si fosse saputo in giro. Così la strinsi a me contro la sua volontà e la baciai con la forza, lei si divincolò e mi schiaffeggiò di nuovo.

    “Come osi? Come… io non sono una di quelle!”
    “È esattamente questo, invece, che penserebbero tutti di te, Meda… ed è così che d’ora in poi ti tratterebbero tutti, se si sapesse: come una donna che non merita alcun rispetto… Questa storia può solo rovinarti la vita: per evitarti questo genere di affronti, tuo padre ti costringerebbe a sposarti subito, con uno magari molto più vecchio di te e la tua vita finirebbe lì, perderesti tutto. Per cosa? Tonks non è come te, non lo sarà mai, e tu non puoi farci nulla…”.
    “Ne ho abbastanza di te, dei tuoi discorsi, io non ho bisogno di essere difesa, e di certo non da te… se c’è qualcuno da cui devo difendermi, quello sei tu… tu non sei mio amico… tu… non capisci, tu non sai niente di me, tu sai solo giudicare… ed io non so cosa farmene di uno come te…”
    “Hai ragione, su questo hai ragione… io non sono più un tuo amico… da un pezzo… io…”
    “No, Mirzam… Non ci provare… non ci provare…”

Scoppiò in lacrime, ma stavolta non era più per la tensione, la paura, il sangue: quando mi avvicinai di nuovo e provai ad abbracciarla per consolarla e farmi perdonare, mi puntò addosso occhi freddi come la morte.

    “Non voglio più vederti… Non ti avvicinare… Non toccarmi! Io lo amo! Io lo amo, capisci? E lui ama me!”
    “Non dire sciocchezze, Meda… è una follia… Non ripeterlo mai più!”
    “Ho pensato che mi sarebbe bastato un giorno, il ricordo di un singolo giorno felice per riempire la mia squallida vita, perché è vero, forse questa storia non ha futuro, la mia famiglia non mi permetterà mai di essere felice, e per il bene di Ted, per non rischiare che un pazzo come te lo massacri come hai appena fatto, io dovrei lasciarlo andare, libero, per la sua strada… Credevo che mi sarebbe bastato il ricordo di questo giorno per sopravvivere a una vita vuota, ma per merito tuo ora so che non è così… Mi avevi illuso che nel nostro mondo ci fosse almeno una speranza, ma è una bugia, nel nostro mondo non c’è speranza ed io non voglio vivere come te, che hai rovinato la tua vita per non aver saputo trattenere il vero amore…. Io non farò lo stesso errore, io non vivrò nel ricordo di un solo giorno, tanto meno per conservare il rispetto di un mondo cui non appartengo. Non m’interessa la considerazione della gente meschina come te né il denaro… la vita vera è vivere accanto a chi si ama, il resto è morte… è bugia… è dolore… Io voglio stare con lui… io voglio vivere con lui, fino alla fine dei miei giorni… e non ti permetterò di impedirmelo!”
    “Non ti rendi conto delle stupidaggini che stai dicendo, Meda… Ma farò qualsiasi cosa per fartelo capire!”
    “No… sei tu che non comprendi… Ted Tonks è l’unica persona vera e sincera che io abbia mai incontrato… lui mi ama, senza se e senza ma, senza impormi condizioni… mi ama per come sono e per ciò che voglio, non per il nome che porto o la famiglia da cui sono nata… Voglio vivere con lui tutta la mia vita: anche se dovesse durare un solo giorno, sarebbe il giorno più bello della mia vita, l’unico degno di essere vissuto…”
    “Meda… quello che sto dicendo… non lo dico per disprezzo verso di lui, ma perché ho paura per te… Forse ora non lo capisci, ma lo capirai e allora sarà troppo tardi…”
    “E allora se davvero hai paura per me, se davvero parli così perché temi per il mio futuro, non perché disprezzi Ted…. Se mi sei amico come dici di essere, non ostacolarmi… ti prego… se in questi anni mi hai detto la verità, quando dicevi di tenere a me… aiutami a essere felice…”
    “Lo farò, Meda, ma non così… perché questo è un suicidio ed io t’impedirò a qualunque costo di commetterlo…”
    “Se lo pensi davvero, allora tra noi finisce qui… non voglio più vederti, Mirzam… esci dalla mia vita e dimenticati che esisto… e non provare a fare di nuovo del male a Ted, perché ti giuro, anche se mi ha fatto promettere di lasciar perdere, io dirò tutto a Dumbledore, e alle autorità, se necessario…”
    “Non ti preoccupare… Black… Se è davvero questo che vuoi… io non ho alcuna intenzione di sprecare ancora il mio tempo dietro a qualcuno che si mischia alla feccia e disprezza i veri amici: non lascerò di certo che i tuoi errori macchino anche il mio nome, quando questa storia si saprà e trascinerà te e la tua famiglia nello scandalo. Hai ragione, è meglio finirla qui… Evidentemente su di te io mi ero sbagliato e non di poco… Ti auguro la vita che meriti, Black, e di imparare a capire le persone meglio di come stai facendo adesso. Ne avrai davvero bisogno. Addio.”
 
Mi allontanai, senza più voltarmi, smaterializzandomi tra le case: non vidi che Ted l’aveva raggiunta, si era avvicinato a lei e ora era al suo fianco. Non vidi che la strinse tra le sue braccia, come una solida ancora, pronto a difenderla, per tutta la vita, da ogni tempesta. Non vidi Meda affondare il viso nel suo collo, piangendo tutte le sue lacrime, per la fine della nostra amicizia e della nostra innocenza. Non le vidi, ma le conoscevo bene quelle lacrime: erano le stesse che versavo anch’io sulla tomba di quanto di più puro c’era stato nella mia vita, e sulla fine dell’illusione che avevamo condiviso per anni: che nel mondo, nel nostro mondo, ci fosse posto per la speranza. 

Fine flashback


*continua*


NdA:
Ringrazio quanti hanno letto, aggiunto a preferiti/seguiti, recensito...  
Questo è un altro capitolo che "sistema" alcuni passati dettagli. Quasi all'inizio della storia abbiamo visto Meissa, convinta che Mirzam fosse innamorato di un'altra ragazza, rimanere interdetta all'annuncio del suo fidanzamento con Sile Kelly. Da questo capitolo scopriamo che la misteriosa ragazza non è mai esistita, una bugia di cui Mirzam si serviva per distrarre Meissa: l'unica ragazza che frequentava in questo periodo era proprio Bellatrix Black. Inoltre, dal canon, sappiamo che la Stamberga Strillante, definita "La casa più infestata della Gran Bretagna", è costruita in occasione dell'arrivo di Remus a Hogwarts. A me nonostante tutto pare bizzarro che, in appena 20 anni, una nuova costruzione possa strappare a castelli millenari il titolo di "+ infestata del regno", perciò mi sono presa questa "licenza narrativa" rendendo la "futura casa" del nostro LupoMannaro preferito una costruzione un po' più datata.

Valeria



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