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Autore: tanechka    07/03/2010    2 recensioni
Il grammofono suonava senza sosta in quel luogo maledetto e incantato.
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi piaceva tanto spaccare vetri

Mi piaceva tanto spaccare vetri, sporcare specchi e ridere sino a perdere il respiro. Strappavo fogli per hobby, perché me lo chiedevano.

Avevo quattro anni.

 


Compresi d’improvviso di essere cresciuta quando le ferite appena procurate smisero di bruciarmi. Ero cresciuta perché non sentivo più il dolore, perché la mia mente era già concentrata sui possibili modi di farmi ancora più male.

 


Io ho conosciuto l’amore in un negozio di dischi polveroso, il cui proprietario era un pianista cieco che non rideva più. Ho conosciuto l’amore con indosso un vestito blu, grigio e bianco addosso e senza niente sotto, e ricordo ancora le sue mani esitanti che mi sfioravano sorprese…

 


Ridevo per rancore e desideravo vendicarmi di tutti quegli specchi rotti, delle mie mani gocciolanti, del lieve, leggero sangue che mi bagnava le ginocchia bianche.

Raggomitolata su me stessa aspettavo che la luna sorgesse e mi domandavo dove cominciasse e terminasse l’arcobaleno della mia follia.

 


…sorprese di trovare solo pelle nuda, sorpreso lui stesso di sentire il mio respiro calmo sulla sua nuca. Perduti per sempre tra la polvere, noi due, insieme, in quel negozio chiuso da anni.

 

 



Lui fingeva di non udire la mia voce rotta, venerava le mie cicatrici rosse e ancora umide di dolore come se fossero reliquie sante, mi accarezzava le caviglie e ripeteva ai suoi dischi quanto io fossi bellissima.

 


Tutto è finito quando ho cominciato a spaccare gli orologi della sua stanza. Io vedevo il tempo passare, lo sentivo ferirmi e mangiarmi e lui non poteva saperlo. Non mi hai mai vista, gli gridai senza parlare. Non puoi sapere come il tempo mi ha ridotta.

Frantumai in silenzio anche il mio rancore e aspettai che lui, chiuso nell’altra stanza, spaventato dal suono dei vetri e dalle urla della mia follia, smettesse di piangere.

 


Il grammofono suonava senza sosta in quel luogo maledetto e incantato.

Non aver paura, mi ripeteva lui ogni sera, carezzandomi i capelli. Spacca tutti i vetri che vuoi.

Se li spacco poi mi faccio male, rispondevo io ogni sera, lasciandomi carezzare i capelli. E poi guardo quei pezzi scintillanti tra le mani e le chiudo a pugno senza…

Mi baciava piangendo e lasciava che dai suoi occhi scoloriti colassero nella mia bocca aperta tutte le lacrime che non riuscivo più a piangere.

 


Quando siamo morti me lo ricordo ancora. Visto che non ti fa paura il dolore, mi scrisse, ti lascio un pugnale argenteo chiuso in una busta di plastica. La busta si trova nel baule con gli intarsi dorati, dietro le pile di dischi di Čajkovskij e dei libri di teoria musicale.

Gli sussurrai, prima di calare il pugnale sul suo petto scintillante, che credevo fosse cieco.

Mi sorrise solo un’ultima volta prima di baciarmi ancora e lasciare che lo ferissi mortalmente.

Giurami, mormorò, che sono stato l’ultimo vetro che hai deciso di frantumare. Passami il pugnale.

Lo giuro.

E poi mi uccise.

 


Ogni tanto ascoltiamo ancora qualche buon disco sorseggiando tè caldo, a volte mi suona ancora le sue belle composizioni, altre volte sediamo ancora l’uno accanto all’altra contemplando la pioggia e la polvere, altre volte lo cullo ancora tra le mie braccia in notti senza senso, aspettando che esca dai suoi incubi, dalle sue paure sottili e dai suoi dolori insondabili per tornare ad amarmi.

  
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