Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: keska    11/03/2010    43 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Scesi le scale con attenzione, sorreggendomi al passamano, attenta a non perdere l’equilibrio per il vassoio che portavo nell’altra. Ormai ero alla fine del quinto mese e far passare inosservata la pancia era piuttosto difficile, data la mia corporatura esile.

Affrontai anche l’ultimo gradino senza cadere, e mi affrettai a lavare i piatti sporchi che portavo sul vassoio. Mancava appena una settimana a Natale, e mia madre, insieme a Phil, sarebbe arrivata il giorno stesso. In quel periodo Carlisle era stato sommerso di lavoro, causa l’epidemia di raffreddore e influenza che aveva colpito Forks, e anche il suo invincibile sceriffo, mio padre.

Quando suonarono alla porta andai ad aprire, certa di trovarvi mio marito.

«Come sta?» mi chiese baciandomi, indicando il piano superiore.

Ero stata per tutto il pomeriggio a casa di mio padre, per dargli una mano, cucinargli qualcosa di buono e caldo, e tenere pulita la casa in vista delle feste, senza badare a nessuna delle sue proteste. «Bene, si è addormentato dopo mangiato» sorrisi «l’ho sentito russare».

Mio marito rispose con la stessa espressione complice sull’amabile viso da giovanotto che si ritrovava.

Rassettai le ultime cose in cucina. Da tanto tempo ormai, tanto da far persistere un’espressione contenta e serena sul mio viso, ogni cosa andava piuttosto bene. Avevo scoperto un rinnovato rapporto con mia figlia, preceduto da una breve fase di senso di colpa per la paura che avevo provato nei suoi confronti. Passavo molto tempo, ormai, sola con lei, a dirle quanto le volessi bene, a comunicarle emozioni positive, il mio amore nei suoi confronti. Avevo sviluppato un forte senso d’orgoglio per lei, trasformando quello di cui avevo paura in un motivo di felicità.

Edward aveva certamente avvertito un certo mutamento al riguardo, ma non aveva fatto alcuna esplicita considerazione, preferendo rimanere in silenzio ad osservarci, suonarci una melodia, o cullarci fino a tardi, la sera, in una tacita e muta promessa di comprensione.

Tutto procedeva con il ritmo delle feste natalizie, appena iniziate. Emmett e Rose erano da poco tornati per festeggiare il Natale in famiglia, e presto Jasper e Alice sarebbero partiti al loro posto.

Forse quello era l’unico pensiero fonte di una leggera ansia. Alice aveva avuto dei ricordi del passato, di uno dei suoi periodi più tristi. Vedere me in quello stato le aveva ricordato il periodo in cui l’aveva subito anche lei quel dolore, a causa dell’elettroshock, tecnica frequentemente utilizzata nei manicomi del periodo.

«A che pensi?» mi chiese Edward, facendomi voltare e scontrare i suoi occhi chiarissimi con i miei. Era appena andato a caccia.

Sospirai, scrollando le spalle, legando le braccia al suo collo. Lo baciai con tenerezza, prendendo il suo labbro inferiore fra i denti e provando a torturarlo, senza fargli alcunché. Si trasformò in qualcosa di molto meno tenero quando mi strinse con le mani i capelli, traendomi a sé. «Edward» gemetti, confusa ed eccitata.

In poco tempo mi ritrovai seduta sul ripiano della cucina appena pulito. «Mi sei mancata…» mormorò, baciandomi il collo, accarezzandomi le gambe, fasciate dai fuseaux.

Ormai era diventata un’abitudine farci sorprendere dalla passione nei posti più strani e inusitati, amarci con foga e passione più e più volte, senza stanchezza, senza calma, ma con la frenesia di appartenere l’uno all’altro sempre più.

«Edward» gemetti «a casa di mio padre…».

Continuò imperterrito a stuzzicarmi. «Sta dormendo, l’hai detto anche tu» mormorò roco.

Feci roteare il capo, presa dal piacere, il rimbombo del cuore nelle orecchie. «Sulla sua cucina…».

Sentii le sue labbra piegarsi in un sorriso, e il suono di una risata sommessa, maliziosa. «La nostra l’abbiamo provata anche troppo, ormai».

Arrossii alla verità di quella affermazione, e dalla mia bocca non uscirono più parole. Almeno, non che avessero un proprio senso compiuto.

 

Nella seguente settimana mi applicai molto per rendere tutto perfetto. Pulire, sistemare la casa, preparare quello che sarebbe stato il nostro pranzo.

La fonte di distrazione principale era costituita da Edward. E che distrazione! Mi facevo distrarre molto, spesso e volentieri, per tempo breve o lungo, sempre pronta ad adattarmi a lui, a sentirmi una sua stessa parte. E in quei momenti mi sentivo perfettamente completa. Lui, la bambina, i miei amori più grandi dentro di me, uniti a me. Meraviglioso e perfetto.

L’altra fonte di distrazione era la gravidanza e la bambina. Se da un lato mi incentivava a fare, creare, sistemare, ogni tanto mi capitava di essere stanca o di dover fare alcuni respiri più profondi del solito dopo un piccolo sforzo. Avevo avuto ancora qualche problema a causa della perenne anemia e dell’ipotensione, niente che non si fosse sistemato con uno spuntino extra e con tante coccole di Edward.

«Hai preso la carne, Edward? Il tacchino dev’essere grande ma non esagerato, se non è proporzionato mia madre ci farà un sermone sulla fame nel mondo. Sta seguendo un nuovo corso New Age» sospirai, alzando gli occhi al cielo e finendo di sistemare gli ultimi oggetti che avevamo acquistato nella cameretta della bambina.

Sussultai spaventata quando sentii le sue braccia stringermi improvvisamente da dietro. «Certo, come mi hai detto. È tutto sistemato secondo i tuoi piani?» chiese attento e disponibile, baciandomi una guancia.

Gli accarezzai i morbidi capelli con una mano, osservando con lui i nostri nuovi acquisti. Il fasciatoio, con alcuni piccoli pannolini e salviettine, la culletta, il baby-monitor, e tanti altri piccoli oggetti. Molto pochi, mi dicevo, rispetto a quelli che la bambina avrebbe avuto dopo Natale. Avevo deciso di organizzare tutte queste cose, di dedicarmi a lei, ora che avevo la forza e il tempo di farlo. Le lezioni erano sospese, io ero quasi totalmente pronta per gli imminenti ed ultimi esami della sessione, e potevo dedicarmi a lei.

«Vorrà sapere il suo nome» borbottai, riferendomi a mia madre, gli occhi sempre fissi sulla cameretta.

Edward ridacchiò, facendomi voltare. «Tutti lo vogliono sapere ormai».

Sospirai. Ci avevamo discusso a lungo, ma ancora non avevamo trovato il nome giusto, quello adatto a lei. Quello che mi convincesse davvero. Era stata un’impresa ardua quella di convincere Emmett a non incidere “Lilla” sulla culla.

«Bella, devi decidere solo tu. Non farti condizionare» mi disse serio, prendendomi il mento fra le mani.

«Insieme» puntualizzai «dobbiamo decidere insieme».

In quel periodo svolgevo assiduamente i miei esercizi yoga, con gli attrezzi che Alice aveva fatto pervenire appositamente a casa. La folla iniziale che si era presentata a casa mia, Alice, Jasper, Emmett, Rosalie, tutti pronti a farmi da insegnanti, mi aveva fatto alterare, tanto che Edward aveva fatto appena in tempo a mandarli via. Non ero disposta a sopportare più di un insegnante, punto. Sapeva quanto fossi suscettibile sulla questione della ginnastica.

E come Emmett aveva intuito, borbottando imbronciato «Tu vuoi solo lui sorellina. Chissà perché», l’insegnante che volevo era proprio Edward.

Ero arrossita violentemente, causa il modo in cui quegli attrezzi, quelle strana palla su cui mantenere l’equilibrio, e bel tappetino blu, fossero entrati nelle mie grazie in maniera molto poco ortodossa, in un estenuante pomeriggio di esercizi.

Ero così stanca, e soprattutto scocciata, che non la smettevo di lamentarmi. E avevo continuato a farlo fino a quando i pantaloni blu scuro della tuta di Edward non erano entrati nel mio campo visivo. La mia mente, al pensiero di quella stoffa morbida e soffice, custode di qualcosa di molto più duro e sodo, aveva fatto le capriole e i salti di gioia, obbligando le mani ad agire di conseguenza. E l’incidente dell’acqua, portata con solerzia da Edward per rinfrescarmi, finita accidentalmente sulla mia maglietta sottile non aveva affatto aiutato, così che, entrambi con un autocontrollo pari a zero, ci eravamo lasciati andare.

Così mi aveva insegnato quanto interessanti potessero essere quei comunissimi oggetti.

Pochi giorni prima, dopo aver saputo che la gravidanza avrebbe avuto una durata normale di nove mesi, avevamo programmato la data del taglio cesareo. Avevo una certa paura che non manifestavo, nascosta dalla rassegnazione per non poter avere un parto naturale. Sarebbe stato il 24 aprile, ed oltre a Mark Green, lo specializzando, mi avrebbe assistito un’ostetrica, la dottoressa Emily, donna matura e saggia. Forse un po’ taciturna, ma con me sempre gentile.

Ero sempre stata contenta di poter avere una gravidanza piuttosto normale, tuttavia man mano che il tempo passava notavo sempre più differenze. Il parto era solo la prima di una lunga serie. Il più recente punto di difficoltà era stata la prevista - dalla cara e gentile Alice - insistente voglia di mia madre di vedere l’ecografia della bambina.

Probabilmente lo sapeva solo Esme, o al più Rosalie, ma ci ero rimasta davvero molto male quando aveva sancito che l’unica soluzione sarebbe stata farle vedere l’ecografia di un altro bambino. Non ero strettamente legata a questo genere di cose, eppure, anche se per poco, non avevo potuto fare a meno di soffrire.

Tuttavia man mano che il giorno di Natale di avvicinava ero sempre più attiva e agitata, troppo, per curarmi di questi problemi. Dovevo preparare, sistemare, perfezionare tutto. Avevo comprato dei regali insieme a Edward, sperando che fossero quelli giusti. Avevo fatto un piccolo pensiero anche a lui. Niente di che, ma speravo gli piacesse. Volevo che tutto fosse pronto, sistemato e perfetto.

Passai, la notte di Natale, una magnifica serata insieme a tutti i Cullen e a mio padre, appena rimessosi dall’influenza. I regali per la bambina, come avevo sospettato, furono davvero tantissimi, tanto che mi chiesi se la sua cameretta sarebbe stata abbastanza grande da contenerli.

«Tieni, spero le piacerà» mi aveva detto Alice con un sorriso, dandomi un pacchetto giallo e verde. Tuttavia l’espressione sul suo volto non mi convinceva. Non era presente la comune euforia che dominava i suoi dolci tratti.

«Stanca di non poter vedere il futuro?» azzardai, scartando il dono.

Scosse la testa facendo spallucce. Abbassò il viso e poi lo risollevò, guardandomi negli occhi. «Mi dispiace per quello che hai provato Bella, so quanto fa male». Sussultai alla sua affermazione improvvisa. Nei suoi occhi passò una luce strana. «Perdonami, non te l’ho detto prima perché non volevo fartelo ricordare. Scusami, tu dovresti solo dimenticare queste cose e non stare a sentire me che ti…».

«Alice» la interruppi, prendendole le mani fra le mie «dispiace anche a me che tu abbia provato quello che ho provato io».

Mi fissò per alcuni secondi, con gli occhi che le brillavano, poi mi abbracciò stretta, facendo cadere entrambe dal divano su cui eravamo sedute. Ridemmo.

Jasper venne in nostro gentile soccorso, aiutando soprattutto me a rimettermi in piedi. Alice lo prese amorevolmente per mano, guardandolo. «Jasper mi sta aiutando» abbassò il viso, «non sono cose belle, ma fanno parte del mio passato, l’unico che ho» si voltò verso il marito, guardandolo con adorazione devozione, «non so come farei senza lui».

Sorrisi, contenta, e subito dopo mi trovai stretta nell’abbraccio di mio marito. La serata passò piacevolmente, fra le risate e le chiacchiere. Fu molto divertente e sereno.

Tuttavia il vero Natale iniziò la mattina successiva.

Mi svegliai di buon’ora, mettendomi immediatamente ai fornelli, armata di tanta forza di volontà, rimboccandomi le maniche e legandomi i capelli in una bella coda alta.

«Ehi. Sei già qui» mormorò Edward venendomi incontro con i capelli ancora umidi. Era appena uscito dalla doccia.

Mi strofinai la fronte con un braccio, le mani impegnate a tenere una mela e il coltello. «Devo riuscire a finire presto, il tacchino deve cuocere quattro ore» sospirai, «mi passi quel coltello?» chiesi, indicandone uno più piccolo.

Fece come gli avevo chiesto, fissandomi scettico. «Non vorrei che ti stancassi troppo. Perché non ti fai aiutare da Esme, lei non deve cucinare per nessuno oggi».

Scossi vigorosamente il capo, continuando a sbucciare con solerzia le mie mele. «No, voglio farlo io. Ce la faccio».

Mi posò le mani sulle spalle, costringendomi a fermarmi. «Bella, è da una settimana che lavori tutto il tempo per rendere tutto perfetto e preciso. E lo sarà. Ma perché oggi non ti fai aiutare?».

Mi voltai verso di lui, sospirando. Mi fissai, per quando riuscissi, le punte dei piedi, rossa in viso.

Mise due dita fredde sotto il mio mento, costringendomi a guardarlo negli occhi. «Bella» mormorò crucciato. Questo doveva essere uno di quei momenti in cui avrebbe certamente voluto leggermi nel pensiero.

Presi un profondo respiro, e parlai con tutta la tranquillità di cui ero dotata. «È solo che» deglutii «è la prima volta che faccio una cosa del genere, okay? Il Natale, il pranzo in famiglia. Noi, siamo una famiglia, io, te, e la nostra bambina. E vorrei che noi riuscissimo a farlo, da soli» ammisi, sentendomi stupida. «Vorrei che mi capissi». Balbettai.

Mi accarezzò una guancia, fissandomi serio. «Quindi dici che varrebbe lo stesso se ti aiutassi io, visto che faccio parte della famiglia?». Un sorriso divertito e sghembo era comparso sulle sue labbra.

Pochi minuti dopo anche lui era al lavoro, col suo bel grembiule bordeaux. Mi pelava le patate, tagliava la carne. Diceva che io ero il suo chef. Certamente, avevo compreso, avrebbe fatto di tutto pur di farmi sentire appagata nel nuovo ruolo che stavo man mano scoprendo. E se come madre dovevo ancora fare i conti con mille problemi, secondo la sua opinione come moglie ero semplicemente fantastica. Ma Edward aveva una visione piuttosto distorta della realtà per quanto riguardava la mia persona.

«Edward, ti prego!» esclamai d’un tratto, strappandogli il tagliere dalle mani. Lo portai velocemente dalla mia parte, facendolo scivolare sul ripiano di marmo.

«Che cosa succede? Ehi, calmati» disse, vedendomi ansante per la paura appena provata.

«Non ti avvicinare» lo minacciai. Poi, silenziosa, afferrai ciò che stava per tagliare e gli restituii il tagliere con delle mele. «Taglia quelle» borbottai, triturando io stessa l’aglio.

Non passarono che pochi secondi, e la sua risata argentina mi raggiunse. Arrossii profondamente, ma continuai imperterrita la mia opera, senza alzare il viso.

«Bella?» mi chiamò. Non riposi, come non risposi a nessuna delle sue successive chiamate. Sentii le sue braccia fredde intorno alla mia larga vita. Mi baciò una guancia. «Sai che da quando aspetti la bambina hai sviluppato uno strano istinto materno anche nei miei confronti?» chiese ironico.

Mi mordicchiai il labbro, arrossendo. «Può darsi».

Speravo davvero che in qualche parte dentro di me ci fosse quell’istinto fantomatico di cui tutti parlavano. Avevo solo diciannove anni, non avrei mai pensato di diventare madre così presto e nonostante spesso mi sentissi più matura dei ragazzi della mia età sentivo che c’erano moltissime cose in cui ancora dovevo crescere. E poi quella gravidanza così particolare, quello strano rapporto con mia figlia, la possibilità di sentire le sue emozioni, la paura di comunicarle le emozioni sbagliate.

Non era ancora nata e ne avevamo già passate così tante.

Teoricamente mi ripetevo come avrei dovuto educare, sostenere, far crescere o non crescere mia figlia. Pensavo a quello che non avrei mai voluto fare, né ottenere, e a quello che invece volevo perseguire.

Inevitabilmente mi ritrovai a pensare a me stessa. Volevo che mi figlia diventasse come me? Volevo semplicemente che prendesse i miei pregi e che evitasse il più possibile i miei difetti.

Come fare allora per perseguire il mio scopo? L’educazione impartitami da mia madre era stata a dir poco eccentrica. Per quanto le volessi infinitamente bene dovevo ammettere che spesso io stessa mi ero ritrovata a farle da madre, e non volevo che lo stesso avvenisse con mia figlia. Volevo dunque essere migliore di lei? Oppure volevo semplicemente dimostrarle di essere anch’io, per conto mio, capace di portare avanti la mia famiglia?

Sistemai con minuzia il centrotavola, rendendo perfetto anche quell’ultimo particolare. La tavola imbandita, gli addobbi, il profumo d’arrosto, cannella e vischio nell’aria. Mi ero molto applicata per il mio scopo. Forse anche un po’ stancata, ma di sicuro ne sarebbe valsa la pena.

Presi un profondo respiro quando sentii un movimento veloce della piccola. Accarezzai la pancia con un sorriso, comunicando tanto amore alla mia piccola bambina.

Il tacchino fu presto tirato fuori dal forno, sistemato sul suo piatto da portata, pronto per essere servito; così potei dedicarmi a me stessa, mentre Edward aveva deciso di andare a prendere da solo Phil e mamma all’aeroporto. Mi aveva invitato a rilassarmi e riposarmi, e prendermi tutto il tempo per diventare ancora più bella di quanto già non fossi. Il solito adulatore.

Non appena sentii lo stipite della porta cigolare e la risata allegra da ragazzina adulta, posseduta dal timbro inconfondibile di mia madre, nulla m’impedì di farmi nuovamente sommergere dall’ansia e dall’agitazione. Una sorta di subdola euforia mista ad angoscia.

«Bella!» esclamò non appena mi vide, in piedi davanti al divano e allargò le braccia, osservandomi contenta.

In pochi secondi riuscii a notare dei cambiamenti sul suo volto. Fu una stretta al cuore, sapere di aver perso quel tempo con lei. Ma Reneè era giovane dentro, uno spirito libero, e io sapevo che lei stava bene, che era giusto così. «Mamma» singhiozzai, vergognandomi delle mie stesse lacrime e della parola che avevo appena usato.

Corse da me, stringendomi forte fra le braccia, accarezzandomi i capelli e baciandomi la testa.

Stavo bene, stavo così bene fra le braccia di mia madre. E forse avrei voluto sentirmi ancora semplicemente una ragazzina, protetta da lei, stretta nel suo abbraccio. In quel momento non riuscivo a pensare al fatto che dentro di me un’altra vita, che sarebbe fra poco nata, avrebbe avuto ogni diritto di pretendere lo stesso da me.

«Mi sei mancata» mormorai, stringendola più forte, zittendo i singhiozzi.

«Anche tu amore mio, anche tu mi sei mancata» sussurrò, continuando ad accarezzarmi la schiena.

Mi lasciò tutto il tempo di cui avevo bisogno. Infine decisi di staccarmi dalla sua spalla, lasciandomi osservare. Avevo indossato il vestito di velluto rosso, lungo fino al ginocchio, che la sera prima Edward mi aveva regalato.

«Sei un incanto!» esclamò con un’espressione dolce, soffermandosi ad osservare la pancia. «Oh, guarda! Sei non fossi così esile neppure si vedrebbe questa pancina così piccola! Falla mangiare Edward, mi raccomando!».

Mio marito mi fu subito accanto, prendendomi una mano fra le sue. «Certo Reneè, non mancherò».

Ma mia madre stava già andando avanti, osservandomi e palpeggiandomi. «Oh, se ci penso! C’è la mia nipotina lì dentro?».

Annuii, asciugandomi gli ultimi residui di lacrime, contenta di non essermi truccata in volto.

Sentii la piccola fare una capriola quando mia madre posò una mano sul ventre tondo. Sussultai, prendendo un respiro profondo, mentre un effluvio di curiosità mi raggiungeva da dentro.

«Cosa succede?». Gli occhi chiari di mia madre saettarono dal ventre tondo a me.

Scossi il capo. «Si è mossa».

Edward sorrise, piegandosi sulle ginocchia. «È la nonna. L’altra nonna. Reneè. Curiosona».

Mi scappò un risolino quando si mosse ancora, facendomi il solletico. Anche Phil mi salutò, cordiale. E ricevetti un bacio anche da mio padre, timido e a disagio. L’agitazione momentanea, la sete di perfezione, scemarono pian piano, mentre il clima si faceva tranquillo e sereno, e mentre, discorrendo con mia madre, potei ritrovare la Reneè di sempre.

Apprensiva obbiettò per il fatto che fossi continuamente in movimento, dalla cucina al soggiorno, senza permetterle di aiutarmi. Edward la rassicurò, spiegandole, convincendola, che ero perfettamente in grado di fare tutto. Per quanto sapessi quanto fosse di parte la sua osservazione, non potei fare a meno di esserne lusingata.

Come quando fui orgogliosa di mio marito, quando tagliò le fette perfette del tacchino, o quando abbassai il capo, arrossendo, quando si complimentarono per la cucina.

«E quando aspettavo te, Bella, non stavi ferma un attimo, eri davvero impossibile, una bambina super attiva, tanto che Charlie dovette, una notte, andare a prendere la valeriana a Port Angeles. Oh, Charlie, raccontaglielo!».

Mio padre arrossì per essere stato tirato al centro dell’attenzione. «Beh» borbottò «non riusciva a dormire per i calci che le tiravi, e l’unica cosa che ti faceva calmare era la valeriana. Ma a quanto pare avevamo esaurito le scorte di Forks».

«Certo!» lo interruppe Reneè, ansiosa di dare il suo contributo al racconto «quindi lui andò, alle due di notte, a prendere la valeriana a Port Angeles» e rise.

«Non potevo essere così iperattiva».

«Magari eri un po’ scoordinata già nella mia pancia, chissà» buttò lì mia madre.

«Reneè» la riprese Phil.

Arrossii, accarezzandomi il grembo. «Lei per ora è tranquilla» dissi, sorridendo.

«Oh tesoro, io avevo sempre la nausea, la pressione bassa, e dormire era una tortura. Per non parlare poi delle gambe gonfie».

«Gambe gonfie?» chiesi allarmata.

Phil rise. «La stai facendo spaventare».

Edward mi accarezzò una spalla, baciandomi una guancia. «Ci vuole ben altro».

Ben presto si gettò in una discussione con Phil e Charlie, lasciando a me mia madre, gestendo perfettamente la situazione. Non avevo ancora appurato che genere di relazione intercorresse fra mio padre e il nuovo marito di mia madre, così li osservai a lungo, in silenzio. Per quanto inizialmente Charlie mi fosse apparso timido e silenzioso, non appena era stata aperta una discussione sullo sport avevano entrambi trovato un punto di intesa, aprendosi vicendevolmente.

Avevo raggiunto il mio scopo, ma non era quello a farmi felice. Mi sentivo contenta per il clima leggero, le battute, la serenità, che aleggiava nella mia casa. Perché era proprio in questo clima sereno e familiare che avrei voluto far nascere mia figlia.

«Tesoro, come mai non abbiamo pranzato anche con la famiglia di Edward?».

Rimasi lievemente stupita dalla domanda di mia madre, ed ebbi un attimo di esitazione, poco avvezza com’ero a mentire.

Edward mi salvò immediatamente. «Rosalie e Emmett sono appena tornati da un viaggio di studio, e hanno pensato di aver bisogno di intimità, volendo concedere lo stesso a noi; in ogni caso ci incontreremo nel pomeriggio, verranno senz’altro a farci visita».

In realtà avevo voluto risparmiargli la tortura di mangiare tutto quello che avevo preparato, tortura che, ahimé, doveva invece subire Edward.

«Come stai?» sussurrai al suo orecchio.

«A cosa ti riferisci?» rispose col mio stesso tono. Gettai uno sguardo eloquente al cibo, a cui rispose con un sorriso. «Istinto materno» sillabò, ironico.

Impulsivamente lo colpii con una gomitata. «Ahi» esclamai subito dopo. Tutti si voltarono verso di me. «Ho… mmm… sbattuto con la gamba al piede del tavolo…» mormorai, rossa in viso.

Mio padre rise. «Tipico di te. Mi sorprende che tu non sia ancora finita in ospedale, Edward deve averti marcata a uomo». E tutti risero.

«Tu sei pazza» sussurrò divertito al mio orecchio, massaggiandomi il gomito.

Con tranquillità passammo al dopo pranzo, appena dopo aver mangiato la mia gelatina all’arancia. Mia madre mi fece i complimenti, richiedendomi la ricetta di quella prelibatezza, che lei avrebbe riprodotto in modo certamente assai più buffo. Ridemmo, ricordando il nostro pudding ai pennarelli a cera! Mi aveva lasciato così tante libertà da bambina, che farmi mettere dei colori in un dolce non le era parso poi così tanto strano.

«Tesoro, devi farti aiutare, ti prego. I piatti li lavo io».

«Ma no mamma. Devo solo metterli in lavastoviglie, non ti preoccupare. Mi aiuterà Edward».

Mio padre corrugò le sopracciglia. «Edward deve accompagnarmi a casa. La mia auto ha deciso di prendere le vacanze di Natale».

La brillante soluzione venne da Phil, che propose a Reneè di accompagnare Charlie a casa. Gli fui grata per l’occasione che in realtà gli stava regalando. Non erano molto in contatto, pur mantenendo un rapporto amichevole. Fu molto gentile da parte sua.

«Edward mi porti i bicchieri per favore? Non posso» riuscii a programmare la lavastoviglie «ecco. Grazie, mettili nel lavandino».

«Sistemo quello che è rimasto» disse, scomparendo nuovamente nel soggiorno.

Annuii, voltandomi verso Phil, offertosi anche lui di dare una mano. «Dobbiamo solo mettere i bicchieri, e asciugare quei piatti. Abbiamo finito» lo informai soddisfatta.

«Bene» mi rispose gentile, aiutandomi a caricare la lavastoviglie.

L’imprevisto avvenne proprio in quell’istante. Un bicchiere bagnato mi scivolò dalla mano, e non sarebbe accaduto nulla di grave se Phil non avesse tentato di afferrarlo. Inutile fu il mio tentativo di bloccarlo, di deviarne la traiettoria. Cadde sul suo polso, con forza, frantumandosi.

«Oh, dannazione» imprecò fra i denti, ritraendo il braccio.

In pochi istanti il copioso odore nauseabondo mi raggiunse. La testa cominciò a girarmi violentemente, e le gambe mi tremarono, mentre vedevo il sangue cremisi colare dalla ferita.

Quasi inconsapevolmente mi portai una mano alla pancia, retrocedendo, tremante, disorientata. Tutto girava. Volevo concentrarmi su Phil, sulle sue parole, aiutarlo magari, ma non comprendevo nulla di quello che stava accadendo. I contorni della mia cucina erano sempre più sfocati e distorti.

Prima che potessi crollare mi sentii sorreggere dalla vita da due mani fredde e decise. Mi voltò verso di sé, guardandomi negli occhi. «Bella? Bella, mi senti?».

Mi sentii in dovere di parlare, di dire qualcosa. «Io… Ed… Edward…» lo chiamai sconnessamente, agitata, desiderosa di mettere a fuoco la sua immagine sfocata. Gli volevo dire di non pensare a me, di aiutare Phil, volevo comprendere cosa stesse accadendo, valutare l’entità del danno.

«Edward, devi… aiutare Phil» riuscii a farfugliare, stringendogli il volto fra le mani.

Mi occorsero pochi istanti per comprendere il mio errore.

Gli stessi istanti in cui, tremante, volsi le mie dita verso i miei occhi.

Completamente sporche di sangue.

Lo stesso sangue con cui avevo macchiato il viso rigido e pallidissimo di Edward, lo stesso che c’era sulle sue guance, sulle sue labbra.

Non mi aspettai null’altro che vedere i suoi occhi neri e sentire il ringhio cupo del suo petto.

   
 
Leggi le 43 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: keska