Scesi le scale con attenzione,
sorreggendomi al
passamano, attenta a non perdere l’equilibrio per il vassoio
che portavo
nell’altra. Ormai ero alla fine del quinto mese e far passare
inosservata la
pancia era piuttosto difficile, data la mia corporatura esile.
Affrontai anche l’ultimo
gradino senza cadere, e mi
affrettai a lavare i piatti sporchi che portavo sul vassoio. Mancava
appena una
settimana a Natale, e mia madre, insieme a Phil, sarebbe arrivata il
giorno
stesso. In quel periodo Carlisle era stato sommerso di lavoro, causa
l’epidemia
di raffreddore e influenza che aveva colpito Forks, e anche il suo
invincibile
sceriffo, mio padre.
Quando suonarono alla porta andai
ad aprire, certa di
trovarvi mio marito.
«Come sta?» mi
chiese baciandomi, indicando il piano
superiore.
Ero stata per tutto il pomeriggio a
casa di mio padre,
per dargli una mano, cucinargli qualcosa di buono e caldo, e tenere
pulita la
casa in vista delle feste, senza badare a nessuna delle sue proteste.
«Bene, si
è addormentato dopo mangiato» sorrisi
«l’ho sentito russare».
Mio marito rispose con la stessa
espressione complice
sull’amabile viso da giovanotto che si ritrovava.
Rassettai le ultime cose in cucina.
Da tanto tempo
ormai, tanto da far persistere un’espressione contenta e
serena sul mio viso,
ogni cosa andava piuttosto bene. Avevo scoperto un rinnovato rapporto
con mia
figlia, preceduto da una breve fase di senso di colpa per la paura che
avevo
provato nei suoi confronti. Passavo molto tempo, ormai, sola con lei, a
dirle
quanto le volessi bene, a comunicarle emozioni positive, il mio amore
nei suoi
confronti. Avevo sviluppato un forte senso d’orgoglio per
lei, trasformando
quello di cui avevo paura in un motivo di felicità.
Edward aveva certamente avvertito
un certo mutamento al
riguardo, ma non aveva fatto alcuna esplicita considerazione,
preferendo rimanere
in silenzio ad osservarci, suonarci una melodia, o cullarci fino a
tardi, la
sera, in una tacita e muta promessa di comprensione.
Tutto procedeva con il ritmo delle
feste natalizie,
appena iniziate. Emmett e Rose erano da poco tornati per festeggiare il
Natale
in famiglia, e presto Jasper e Alice sarebbero partiti al loro posto.
Forse quello era l’unico
pensiero fonte di una leggera
ansia. Alice aveva avuto dei ricordi del passato, di uno dei suoi
periodi più
tristi. Vedere me in quello stato le aveva ricordato il periodo in cui
l’aveva
subito anche lei quel dolore, a causa dell’elettroshock,
tecnica frequentemente
utilizzata nei manicomi del periodo.
«A che pensi?»
mi chiese Edward, facendomi voltare e
scontrare i suoi occhi chiarissimi con i miei. Era appena andato a
caccia.
Sospirai, scrollando le spalle,
legando le braccia al
suo collo. Lo baciai con tenerezza, prendendo il suo labbro inferiore
fra i
denti e provando a torturarlo, senza fargli alcunché. Si
trasformò in qualcosa
di molto meno tenero quando mi strinse con le mani i capelli, traendomi
a sé.
«Edward» gemetti, confusa ed eccitata.
In poco tempo mi ritrovai seduta
sul ripiano della
cucina appena pulito. «Mi sei mancata…»
mormorò, baciandomi il collo,
accarezzandomi le gambe, fasciate dai fuseaux.
Ormai era diventata
un’abitudine farci sorprendere
dalla passione nei posti più strani e inusitati, amarci con
foga e passione più
e più volte, senza stanchezza, senza calma, ma con la
frenesia di appartenere
l’uno all’altro sempre più.
«Edward»
gemetti «a casa di mio padre…».
Continuò imperterrito a
stuzzicarmi. «Sta dormendo,
l’hai detto anche tu» mormorò roco.
Feci roteare il capo, presa dal
piacere, il rimbombo del
cuore nelle orecchie. «Sulla sua
cucina…».
Sentii le sue labbra piegarsi in un
sorriso, e il
suono di una risata sommessa, maliziosa. «La nostra
l’abbiamo provata anche
troppo, ormai».
Arrossii alla verità di
quella affermazione, e dalla
mia bocca non uscirono più parole. Almeno, non che avessero
un proprio senso
compiuto.
Nella seguente settimana mi
applicai molto per rendere
tutto perfetto. Pulire, sistemare la casa, preparare quello che sarebbe
stato
il nostro pranzo.
La fonte di distrazione principale
era costituita da
Edward. E che distrazione! Mi facevo distrarre molto, spesso e
volentieri, per
tempo breve o lungo, sempre pronta ad adattarmi a lui, a sentirmi una
sua
stessa parte. E in quei momenti mi sentivo perfettamente completa. Lui,
la
bambina, i miei amori più grandi dentro di me, uniti a me.
Meraviglioso e
perfetto.
L’altra fonte di
distrazione era la gravidanza e la
bambina. Se da un lato mi incentivava a fare, creare, sistemare, ogni
tanto mi
capitava di essere stanca o di dover fare alcuni respiri più
profondi del
solito dopo un piccolo sforzo. Avevo avuto ancora qualche problema a
causa
della perenne anemia e dell’ipotensione, niente che non si
fosse sistemato con
uno spuntino extra e con tante coccole di Edward.
«Hai preso la carne,
Edward? Il tacchino dev’essere
grande ma non esagerato, se non è proporzionato mia madre ci
farà un sermone
sulla fame nel mondo. Sta seguendo un nuovo corso New Age»
sospirai, alzando
gli occhi al cielo e finendo di sistemare gli ultimi oggetti che
avevamo
acquistato nella cameretta della bambina.
Sussultai spaventata quando sentii
le sue braccia
stringermi improvvisamente da dietro. «Certo, come mi hai
detto. È tutto
sistemato secondo i tuoi piani?» chiese attento e
disponibile, baciandomi una
guancia.
Gli accarezzai i morbidi capelli
con una mano,
osservando con lui i nostri nuovi acquisti. Il fasciatoio, con alcuni
piccoli
pannolini e salviettine, la culletta, il baby-monitor, e tanti altri
piccoli
oggetti. Molto pochi, mi dicevo, rispetto a quelli che la bambina
avrebbe avuto
dopo Natale. Avevo deciso di organizzare tutte queste cose, di
dedicarmi a lei,
ora che avevo la forza e il tempo di farlo. Le lezioni erano sospese,
io ero
quasi totalmente pronta per gli imminenti ed ultimi esami della
sessione, e
potevo dedicarmi a lei.
«Vorrà sapere
il suo nome» borbottai, riferendomi a
mia madre, gli occhi sempre fissi sulla cameretta.
Edward ridacchiò,
facendomi voltare. «Tutti lo
vogliono sapere ormai».
Sospirai. Ci avevamo discusso a
lungo, ma ancora non
avevamo trovato il nome giusto, quello adatto a lei. Quello che mi
convincesse
davvero. Era stata un’impresa ardua quella di convincere
Emmett a non incidere
“Lilla” sulla
culla.
«Bella, devi decidere
solo tu. Non farti condizionare»
mi disse serio, prendendomi il mento fra le mani.
«Insieme»
puntualizzai «dobbiamo decidere insieme».
In quel periodo svolgevo
assiduamente i miei esercizi
yoga, con gli attrezzi che Alice aveva fatto pervenire appositamente a
casa. La
folla iniziale che si era presentata a casa mia, Alice, Jasper, Emmett,
Rosalie, tutti pronti a farmi da insegnanti, mi aveva fatto alterare,
tanto che
Edward aveva fatto appena in tempo a mandarli via. Non ero disposta a
sopportare più di un insegnante, punto. Sapeva quanto fossi
suscettibile sulla
questione della ginnastica.
E come Emmett aveva intuito,
borbottando imbronciato
«Tu vuoi solo lui sorellina. Chissà
perché», l’insegnante che volevo era
proprio Edward.
Ero arrossita violentemente, causa
il modo in cui
quegli attrezzi, quelle strana palla su cui mantenere
l’equilibrio, e bel
tappetino blu, fossero entrati nelle mie grazie in maniera molto poco
ortodossa, in un estenuante pomeriggio di esercizi.
Ero così stanca, e
soprattutto scocciata, che non la
smettevo di lamentarmi. E avevo continuato a farlo fino a quando i
pantaloni
blu scuro della tuta di Edward non erano entrati nel mio campo visivo.
La mia
mente, al pensiero di quella stoffa morbida e soffice, custode di
qualcosa di
molto più duro e sodo, aveva fatto le capriole e i salti di
gioia, obbligando
le mani ad agire di conseguenza. E l’incidente
dell’acqua, portata con solerzia
da Edward per rinfrescarmi, finita accidentalmente sulla mia maglietta
sottile
non aveva affatto aiutato, così che, entrambi con un
autocontrollo pari a zero,
ci eravamo lasciati andare.
Così mi aveva insegnato
quanto interessanti potessero
essere quei comunissimi oggetti.
Pochi giorni prima, dopo aver
saputo che la gravidanza
avrebbe avuto una durata normale di nove mesi, avevamo programmato la
data del taglio
cesareo. Avevo una certa paura che non manifestavo, nascosta dalla
rassegnazione per non poter avere un parto naturale. Sarebbe stato il
24 aprile,
ed oltre a Mark Green, lo specializzando, mi avrebbe assistito
un’ostetrica, la
dottoressa Emily, donna matura e saggia. Forse un po’
taciturna, ma con me
sempre gentile.
Ero sempre stata contenta di poter
avere una
gravidanza piuttosto normale, tuttavia man mano che il tempo passava
notavo
sempre più differenze. Il parto era solo la prima di una
lunga serie. Il più
recente punto di difficoltà era
stata la prevista -
dalla cara e gentile Alice - insistente voglia di mia madre di vedere
l’ecografia della bambina.
Probabilmente lo sapeva solo Esme,
o al più Rosalie,
ma ci ero rimasta davvero molto male quando aveva sancito che
l’unica soluzione
sarebbe stata farle vedere l’ecografia di un altro bambino.
Non ero
strettamente legata a questo genere di cose, eppure, anche se per poco,
non
avevo potuto fare a meno di soffrire.
Tuttavia man mano che il giorno di Natale
di avvicinava ero
sempre più attiva e agitata, troppo, per curarmi di questi
problemi. Dovevo
preparare, sistemare, perfezionare tutto. Avevo comprato dei regali
insieme a
Edward, sperando che fossero quelli giusti. Avevo fatto un piccolo
pensiero
anche a lui. Niente di che, ma speravo gli piacesse. Volevo che tutto
fosse
pronto, sistemato e perfetto.
Passai, la notte di Natale, una
magnifica serata
insieme a tutti i Cullen e a mio padre, appena rimessosi
dall’influenza. I
regali per la bambina, come avevo sospettato, furono davvero
tantissimi, tanto
che mi chiesi se la sua cameretta sarebbe stata abbastanza grande da
contenerli.
«Tieni, spero le
piacerà» mi aveva detto Alice con un
sorriso, dandomi un pacchetto giallo e verde. Tuttavia
l’espressione sul suo volto non mi convinceva. Non era
presente la comune
euforia che dominava i suoi dolci tratti.
«Stanca di non poter
vedere il futuro?» azzardai,
scartando il dono.
Scosse la testa facendo spallucce.
Abbassò il viso e
poi lo risollevò, guardandomi negli occhi. «Mi
dispiace per quello che hai
provato Bella, so quanto fa male». Sussultai alla sua
affermazione improvvisa. Nei
suoi occhi passò una luce strana. «Perdonami, non
te l’ho detto prima perché
non volevo fartelo ricordare. Scusami, tu dovresti solo dimenticare
queste cose
e non stare a sentire me che ti…».
«Alice» la
interruppi, prendendole le mani fra le mie
«dispiace anche a me che tu abbia provato quello che ho
provato io».
Mi fissò per alcuni
secondi, con gli occhi che le
brillavano, poi mi abbracciò stretta, facendo cadere
entrambe dal divano su cui
eravamo sedute. Ridemmo.
Jasper venne in nostro gentile
soccorso, aiutando
soprattutto me a rimettermi in piedi. Alice lo prese amorevolmente per
mano,
guardandolo. «Jasper mi sta aiutando»
abbassò il viso, «non sono cose belle, ma
fanno parte del mio passato, l’unico che ho» si
voltò verso il marito,
guardandolo con adorazione devozione, «non so come farei
senza lui».
Sorrisi, contenta, e subito dopo mi
trovai stretta
nell’abbraccio di mio marito. La serata passò
piacevolmente, fra le risate e le
chiacchiere. Fu molto divertente e sereno.
Tuttavia il vero Natale iniziò
la mattina successiva.
Mi svegliai di buon’ora,
mettendomi immediatamente ai
fornelli, armata di tanta forza di volontà, rimboccandomi le
maniche e
legandomi i capelli in una bella coda alta.
«Ehi. Sei già
qui» mormorò Edward venendomi incontro
con i capelli ancora umidi. Era appena uscito dalla doccia.
Mi strofinai la fronte con un
braccio, le mani
impegnate a tenere una mela e il coltello. «Devo riuscire a
finire presto, il
tacchino deve cuocere quattro ore» sospirai, «mi
passi quel coltello?» chiesi,
indicandone uno più piccolo.
Fece come gli avevo chiesto,
fissandomi scettico. «Non
vorrei che ti stancassi troppo. Perché non ti fai aiutare da
Esme, lei non deve
cucinare per nessuno oggi».
Scossi vigorosamente il capo,
continuando a sbucciare
con solerzia le mie mele. «No, voglio farlo io. Ce la
faccio».
Mi posò le mani sulle
spalle, costringendomi a
fermarmi. «Bella, è da una settimana che lavori
tutto il tempo per rendere
tutto perfetto e preciso. E lo sarà. Ma perché
oggi non ti fai aiutare?».
Mi voltai verso di lui, sospirando.
Mi fissai, per
quando riuscissi, le punte dei piedi, rossa in viso.
Mise due dita fredde sotto il mio
mento,
costringendomi a guardarlo negli occhi. «Bella»
mormorò crucciato. Questo
doveva essere uno di quei momenti in cui avrebbe certamente voluto
leggermi nel
pensiero.
Presi un profondo respiro, e parlai
con tutta la
tranquillità di cui ero dotata. «È solo
che» deglutii «è la prima volta che
faccio
una cosa del genere, okay? Il Natale, il pranzo in famiglia. Noi, siamo
una
famiglia, io, te, e la nostra bambina. E vorrei che noi riuscissimo a
farlo, da
soli» ammisi, sentendomi stupida. «Vorrei che mi
capissi». Balbettai.
Mi accarezzò una
guancia, fissandomi serio. «Quindi
dici che varrebbe lo stesso se ti aiutassi io, visto che faccio parte
della famiglia?». Un
sorriso divertito e
sghembo era comparso sulle sue labbra.
Pochi minuti dopo anche lui era al
lavoro, col suo bel
grembiule bordeaux. Mi pelava le patate, tagliava la carne. Diceva che
io ero
il suo chef. Certamente, avevo compreso, avrebbe fatto di tutto pur di
farmi
sentire appagata nel nuovo ruolo che stavo man mano scoprendo. E se
come madre
dovevo ancora fare i conti con mille problemi, secondo la sua opinione
come
moglie ero semplicemente fantastica. Ma Edward aveva una visione
piuttosto
distorta della realtà per quanto riguardava la mia persona.
«Edward, ti
prego!» esclamai d’un tratto,
strappandogli il tagliere dalle mani. Lo portai velocemente dalla mia
parte,
facendolo scivolare sul ripiano di marmo.
«Che cosa succede? Ehi,
calmati» disse, vedendomi
ansante per la paura appena provata.
«Non ti
avvicinare» lo minacciai. Poi, silenziosa,
afferrai ciò che stava per tagliare e gli restituii il
tagliere con delle mele.
«Taglia quelle» borbottai, triturando io stessa
l’aglio.
Non passarono che pochi secondi, e
la sua risata
argentina mi raggiunse. Arrossii profondamente, ma continuai
imperterrita la
mia opera, senza alzare il viso.
«Bella?» mi
chiamò. Non riposi, come non risposi a
nessuna delle sue successive chiamate. Sentii le sue braccia fredde
intorno
alla mia larga vita. Mi baciò una guancia. «Sai
che da quando aspetti la
bambina hai sviluppato uno strano istinto materno anche nei miei
confronti?»
chiese ironico.
Mi mordicchiai il labbro,
arrossendo. «Può darsi».
Speravo davvero che in qualche
parte dentro di me ci
fosse quell’istinto fantomatico di cui tutti parlavano. Avevo
solo diciannove
anni, non avrei mai pensato di diventare madre così presto e
nonostante spesso
mi sentissi più matura dei ragazzi della mia età
sentivo che c’erano moltissime
cose in cui ancora dovevo crescere. E poi quella gravidanza
così particolare,
quello strano rapporto con mia figlia, la possibilità di
sentire le sue
emozioni, la paura di comunicarle le emozioni sbagliate.
Non era ancora nata e ne avevamo
già passate così
tante.
Teoricamente mi ripetevo come avrei
dovuto educare,
sostenere, far crescere o non crescere mia figlia. Pensavo a quello che
non
avrei mai voluto fare, né ottenere, e a quello che invece
volevo perseguire.
Inevitabilmente mi ritrovai a
pensare a me stessa. Volevo
che mi figlia diventasse come me? Volevo semplicemente che prendesse i
miei
pregi e che evitasse il più possibile i miei difetti.
Come fare allora per perseguire il
mio scopo?
L’educazione impartitami da mia madre era stata a dir poco
eccentrica. Per
quanto le volessi infinitamente bene dovevo ammettere che spesso io
stessa mi
ero ritrovata a farle da madre, e non volevo che lo stesso avvenisse
con mia
figlia. Volevo dunque essere migliore di lei? Oppure volevo
semplicemente
dimostrarle di essere anch’io, per conto mio, capace di
portare avanti la mia
famiglia?
Sistemai con minuzia il
centrotavola, rendendo
perfetto anche quell’ultimo particolare. La tavola imbandita,
gli addobbi, il
profumo d’arrosto, cannella e vischio nell’aria. Mi
ero molto applicata per il
mio scopo. Forse anche un po’ stancata, ma di sicuro ne
sarebbe valsa la pena.
Presi un profondo respiro quando
sentii un movimento
veloce della piccola. Accarezzai la pancia con un sorriso, comunicando
tanto
amore alla mia piccola bambina.
Il tacchino fu presto tirato fuori
dal forno,
sistemato sul suo piatto da portata, pronto per essere servito;
così potei dedicarmi
a me stessa, mentre Edward aveva deciso di andare a prendere da solo
Phil e
mamma all’aeroporto. Mi aveva invitato a rilassarmi e
riposarmi, e prendermi
tutto il tempo per diventare ancora più bella di quanto
già non fossi. Il
solito adulatore.
Non appena sentii lo stipite della
porta cigolare e la
risata allegra da ragazzina adulta, posseduta dal timbro inconfondibile
di mia
madre, nulla m’impedì di farmi nuovamente
sommergere dall’ansia e
dall’agitazione. Una sorta di subdola euforia mista ad
angoscia.
«Bella!»
esclamò non appena mi vide, in piedi davanti
al divano e allargò le braccia, osservandomi contenta.
In pochi secondi riuscii a notare
dei cambiamenti sul suo
volto. Fu una stretta al cuore, sapere di aver perso quel tempo con
lei. Ma Reneè
era giovane dentro, uno spirito libero, e io sapevo che lei stava bene,
che era
giusto così. «Mamma» singhiozzai,
vergognandomi delle mie stesse lacrime e
della parola che avevo appena usato.
Corse da me, stringendomi forte fra
le braccia,
accarezzandomi i capelli e baciandomi la testa.
Stavo bene, stavo così
bene fra le braccia di mia
madre. E forse avrei voluto sentirmi ancora semplicemente una
ragazzina,
protetta da lei, stretta nel suo abbraccio. In quel momento non
riuscivo a
pensare al fatto che dentro di me un’altra vita, che sarebbe
fra poco nata,
avrebbe avuto ogni diritto di pretendere lo stesso da me.
«Mi sei
mancata» mormorai, stringendola più forte,
zittendo i singhiozzi.
«Anche tu amore mio,
anche tu mi sei mancata»
sussurrò, continuando ad accarezzarmi la schiena.
Mi lasciò tutto il tempo
di cui avevo bisogno. Infine
decisi di staccarmi dalla sua spalla, lasciandomi osservare.
Avevo indossato il vestito di velluto rosso, lungo fino al ginocchio,
che la
sera prima Edward mi aveva regalato.
«Sei un
incanto!» esclamò con un’espressione
dolce,
soffermandosi ad osservare la pancia. «Oh, guarda! Sei non
fossi così esile
neppure si vedrebbe questa pancina così piccola! Falla
mangiare Edward, mi
raccomando!».
Mio marito mi fu subito accanto,
prendendomi una mano
fra le sue. «Certo Reneè, non
mancherò».
Ma mia madre stava già
andando avanti, osservandomi e
palpeggiandomi. «Oh, se ci penso! C’è la
mia nipotina lì dentro?».
Annuii, asciugandomi gli ultimi
residui di lacrime,
contenta di non essermi truccata in volto.
Sentii la piccola fare una capriola
quando mia madre
posò una mano sul ventre tondo. Sussultai, prendendo un
respiro profondo,
mentre un effluvio di curiosità mi raggiungeva da dentro.
«Cosa
succede?». Gli occhi chiari di mia madre
saettarono dal ventre tondo a me.
Scossi il capo. «Si
è mossa».
Edward sorrise, piegandosi sulle
ginocchia. «È la
nonna. L’altra nonna. Reneè. Curiosona».
Mi scappò un risolino
quando si mosse ancora,
facendomi il solletico. Anche Phil mi salutò, cordiale. E
ricevetti un bacio
anche da mio padre, timido e a disagio. L’agitazione
momentanea, la sete di
perfezione, scemarono pian piano, mentre il clima si faceva tranquillo
e
sereno, e mentre, discorrendo con mia madre, potei ritrovare
Apprensiva obbiettò per
il fatto che fossi
continuamente in movimento, dalla cucina al soggiorno, senza
permetterle di
aiutarmi. Edward la rassicurò, spiegandole, convincendola,
che ero
perfettamente in grado di fare tutto. Per quanto sapessi quanto fosse
di parte
la sua osservazione, non potei fare a meno di esserne lusingata.
Come quando fui orgogliosa di mio
marito, quando
tagliò le fette perfette del tacchino, o quando abbassai il
capo, arrossendo,
quando si complimentarono per la cucina.
«E quando aspettavo te,
Bella, non stavi ferma un
attimo, eri davvero impossibile, una bambina super attiva, tanto che
Charlie
dovette, una notte, andare a prendere la valeriana a Port Angeles. Oh,
Charlie,
raccontaglielo!».
Mio padre arrossì per
essere stato tirato al centro
dell’attenzione. «Beh»
borbottò «non riusciva a
dormire per i calci che le tiravi, e l’unica cosa che ti
faceva calmare era la
valeriana. Ma a quanto pare avevamo esaurito le scorte di
Forks».
«Certo!» lo
interruppe Reneè, ansiosa di dare il suo
contributo al racconto «quindi lui andò, alle due
di notte, a prendere la
valeriana a Port Angeles» e rise.
«Non potevo essere
così iperattiva».
«Magari eri un
po’ scoordinata già nella mia pancia,
chissà» buttò lì mia madre.
«Reneè»
la riprese Phil.
Arrossii, accarezzandomi il grembo.
«Lei per ora è
tranquilla» dissi, sorridendo.
«Oh
tesoro, io avevo sempre
la nausea, la pressione bassa, e dormire era una tortura. Per non
parlare poi
delle gambe gonfie».
«Gambe gonfie?»
chiesi allarmata.
Phil rise. «La stai
facendo spaventare».
Edward mi accarezzò una
spalla, baciandomi una
guancia. «Ci vuole ben altro».
Ben presto si gettò in
una discussione con Phil e
Charlie, lasciando a me mia madre, gestendo perfettamente la
situazione. Non
avevo ancora appurato che genere di relazione intercorresse fra mio
padre e il
nuovo marito di mia madre, così li osservai a lungo, in
silenzio. Per quanto
inizialmente Charlie mi fosse apparso timido e silenzioso, non appena
era stata
aperta una discussione sullo sport avevano entrambi trovato un punto di
intesa,
aprendosi vicendevolmente.
Avevo raggiunto il mio scopo, ma
non era quello a
farmi felice. Mi sentivo contenta per il clima leggero, le battute, la
serenità, che aleggiava nella mia casa. Perché
era proprio in questo clima
sereno e familiare che avrei voluto far nascere mia figlia.
«Tesoro, come mai non
abbiamo pranzato anche con la
famiglia di Edward?».
Rimasi lievemente stupita dalla
domanda di mia madre,
ed ebbi un attimo di esitazione, poco avvezza com’ero a
mentire.
Edward mi salvò
immediatamente. «Rosalie e Emmett sono
appena tornati da un viaggio di studio, e hanno pensato di aver bisogno
di
intimità, volendo concedere lo stesso a noi; in ogni caso ci
incontreremo nel
pomeriggio, verranno senz’altro a farci visita».
In realtà avevo voluto
risparmiargli la tortura di
mangiare tutto quello che avevo preparato, tortura che, ahimé,
doveva invece subire Edward.
«Come stai?»
sussurrai al suo orecchio.
«A cosa ti
riferisci?» rispose col mio stesso tono.
Gettai uno sguardo eloquente al cibo, a cui rispose con un sorriso.
«Istinto
materno» sillabò, ironico.
Impulsivamente lo colpii con una
gomitata. «Ahi»
esclamai subito dopo. Tutti si voltarono verso di me.
«Ho… mmm… sbattuto con la gamba al
piede del tavolo…» mormorai, rossa in viso.
Mio padre rise. «Tipico
di te. Mi sorprende che tu non
sia ancora finita in ospedale, Edward deve averti marcata a
uomo». E tutti
risero.
«Tu sei pazza»
sussurrò divertito al mio orecchio,
massaggiandomi il gomito.
Con tranquillità
passammo al dopo pranzo, appena dopo
aver mangiato la mia gelatina all’arancia. Mia madre mi fece
i complimenti,
richiedendomi la ricetta di quella prelibatezza, che lei avrebbe
riprodotto in
modo certamente assai più buffo. Ridemmo, ricordando il
nostro pudding ai
pennarelli a cera! Mi aveva lasciato così tante
libertà da bambina, che farmi
mettere dei colori in un dolce non le era parso poi così
tanto strano.
«Tesoro, devi farti
aiutare, ti prego. I piatti li
lavo io».
«Ma no mamma. Devo solo
metterli in lavastoviglie, non
ti preoccupare. Mi aiuterà Edward».
Mio padre corrugò le
sopracciglia. «Edward deve
accompagnarmi a casa. La mia auto ha deciso di prendere le vacanze di
Natale».
La brillante soluzione venne da
Phil, che propose a
Reneè di accompagnare Charlie a casa. Gli fui grata per
l’occasione che in
realtà gli stava regalando. Non erano molto in contatto, pur
mantenendo un
rapporto amichevole. Fu molto gentile da parte sua.
«Edward mi porti i
bicchieri per favore? Non posso»
riuscii a programmare la lavastoviglie «ecco. Grazie, mettili
nel lavandino».
«Sistemo quello che
è rimasto» disse, scomparendo
nuovamente nel soggiorno.
Annuii, voltandomi verso Phil,
offertosi anche lui di
dare una mano. «Dobbiamo solo mettere i bicchieri, e
asciugare quei piatti.
Abbiamo finito» lo informai soddisfatta.
«Bene» mi
rispose gentile, aiutandomi a caricare la
lavastoviglie.
L’imprevisto avvenne
proprio in quell’istante. Un
bicchiere bagnato mi scivolò dalla mano, e non sarebbe
accaduto nulla di grave
se Phil non avesse tentato di afferrarlo. Inutile fu il mio tentativo
di
bloccarlo, di deviarne la traiettoria. Cadde sul suo polso, con forza,
frantumandosi.
«Oh,
dannazione» imprecò fra i denti, ritraendo il
braccio.
In pochi istanti il copioso odore
nauseabondo mi
raggiunse. La testa cominciò a girarmi violentemente, e le
gambe mi tremarono,
mentre vedevo il sangue cremisi colare dalla ferita.
Quasi inconsapevolmente mi portai
una mano alla
pancia, retrocedendo, tremante, disorientata. Tutto girava. Volevo
concentrarmi
su Phil, sulle sue parole, aiutarlo magari, ma non comprendevo nulla di
quello
che stava accadendo. I contorni della mia cucina erano sempre
più sfocati e
distorti.
Prima che potessi crollare mi
sentii sorreggere dalla
vita da due mani fredde e decise. Mi voltò verso di
sé, guardandomi negli
occhi. «Bella? Bella, mi senti?».
Mi sentii in dovere di parlare, di
dire qualcosa. «Io…
Ed… Edward…» lo chiamai sconnessamente,
agitata, desiderosa di mettere a fuoco
la sua immagine sfocata. Gli volevo dire di non pensare a me, di
aiutare Phil,
volevo comprendere cosa stesse accadendo, valutare
l’entità del danno.
«Edward, devi…
aiutare Phil» riuscii a farfugliare,
stringendogli il volto fra le mani.
Mi occorsero pochi istanti per
comprendere il mio
errore.
Gli stessi istanti in cui,
tremante, volsi le mie dita
verso i miei occhi.
Completamente sporche di sangue.
Lo stesso sangue con cui avevo
macchiato il viso rigido
e pallidissimo di Edward, lo stesso che c’era sulle sue
guance, sulle sue labbra.
Non mi aspettai
null’altro che vedere i suoi occhi
neri e sentire il ringhio cupo del suo petto.