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Autore: willHole    17/03/2010    3 recensioni
“Quella che mi appresto ora a raccontarvi è una storia particolare, fatta di quel buio e di quell’oscurità che animano, talvolta senza essere percepiti, il nostro stesso spirito. Ma è anche una storia che parla di luce, di quella luce che gli uomini stessi, anche i più oscuri, sanno produrre.”
Nata sotto la profonda ispirazione del contest "The Double" indetto da Shnusschen sul forum di Efp, questa storia si è classificata seconda.
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Luce sotterranea

Luce sotterranea

Il gatto del buio

 

 

Sei parte d’una parte ch’era tutto,

del buio che la luce generò.

 

W. Moers

 

 

 

Un sotterraneo non è mai ciò che sembra. Acquisisce autonomamente, senza l’influsso dell’uomo, connotazioni del tutto particolari.

Un sotterraneo è tutto fuorché una semplice cantina. In un sotterraneo sopravvive in eterno la notte, il buio più profondo colto nella sua forma più subdola.

In un sotterraneo, amici miei lettori, alberga l’essenza stessa della tenebra umana.

Quella che mi appresto ora a raccontarvi è una storia particolare, fatta di quel buio e di quell’oscurità che animano, talvolta senza essere percepiti, il nostro stesso animo.

Ma è anche una storia che parla di luce, di quella luce che gli uomini stessi, anche i più oscuri, sanno produrre.

 

Centinaia di anni or sono, quando le Tempeste ancora imperversavano sulle Terre di Wongar, nei boschi del Confine viveva un uomo, il cui nome non ci è stato tramandato dalle leggende.

Egli era un brigante e un assassino.

Nei villaggi sparuti dei limiti delle Terre, il timore di ciò che quel farabutto avrebbe potuto compiere occupava senza sosta le menti dei contadini.

Tra razzie, scontri e tafferugli continui, la gente aveva paura di ogni cosa: nemmeno l’Antica Magia bastava a frenare l’impeto del terrore.

Le Tempeste erano ormai il pane quotidiano di ogni uomo e di ogni donna.

Ogni giorno dovevano lottare contro il pericolo che inesorabile sopravanzava, ogni secondo delle loro esistenze passato a guardarsi le spalle, forti solo di una labile quanto imperfetta alleanza.

Poi, però, dopo dieci anni di un clima di puro terrore, venne eletta Regina Wyn Lithuen, maga di luce. Era una strega forte, potente, sicura di sé e determinata oltre ogni dire.

Non accettava consigli e non permetteva ad alcuno di imporle una volontà a lei estranea. Ma riuscì, lei sola, a portare la pace.

Con l’ausilio delle proprie arti la maga regina fermò le rivolte, placò il popolo, e catturò il brigante.

Quell’uomo senza nome, il cui cuore si era macchiato delle colpe più turpi, fu arrestato senza colpo ferire e condannato senza appello alla pena più perfetta: la detenzione sempiterna nelle Carceri Sotterranee.

Percosso, distrutto, annichilito, il malvagio assassino fu gettato come un sacco nella segreta più buia, e lì rimase, accasciato e immobile, per giorni. I giorni si trasformarono in settimane, le settimane in  mesi, e i mesi infine, per quell’incontrovertibile proprietà che ha il Tempo di scorrere senza mai fermarsi, divennero anni.

Decine e decine di lunghi anni trascorsi nel buio.

 

Nemmeno una lama di luce filtrava nella cella.

Era quella la vera pena che si infliggeva a coloro che avevano compiuto i reati più gravi: la mancanza assoluta di ogni forma di luce e, con essa, la rinuncia definitiva al sublime senso della vista.

Nel buio, tuttavia, gli altri sensi erano affinati, come se ogni piccola particella dell’uomo volesse cogliere, in barba ad ogni tortura, un minuto frammento di realtà.

Ogni fruscio risultava amplificato, ingigantito; ogni percezione ricavata dalle dita, gelide per il freddo, era esasperata, eccessiva.

Molti, il brigante lo sapeva bene, finivano per impazzire in quelle celle.

La cecità forzata, il gelo, la paura atavica del nulla apparente: tutto, in qualche misura, contribuiva a forzare fino allo spasimo lo scrigno instabile della mente umana, distruggendone, alla fine, il prezioso tesoro della ragione.

Fu anche per questo, si tramanda, che egli non si stupì troppo quando, in un momento imprecisato della sua detenzione a vita, cominciò a udire una voce.

Era un mormorio suadente, leggero, sibillino. Si insinuava, quasi senza che fosse possibile accorgersene, attraverso il condotto uditivo e poi scendeva giù giù fino al timpano. Lo faceva vibrare dolcemente, come per una carezza, e poi si insediava nel cervello, quasi  quello fosse il suo habitat naturale.

E da lì, da lì non si allontanava mai.

Per il brigante, quel sussurro non era altro che la voce della sua follia.

In realtà, esso era molto, molto di più.

Quel costante stillicidio sonoro, quell’insinuante e subdolo frusciare di parole non dette, era, più semplicemente, la voce carezzevole del Buio Sotterraneo.

 

Il tempo passò, continuando a scorrere ineluttabile. Nella cella il regolare alternarsi del giorno e della notte non produceva alcun effetto: ormai, in effetti, il brigante passava dal sonno alla veglia senza soluzione di continuità, perdendo addirittura il senso e la percezione di sé, cancellando giorno dopo giorno ogni pensiero.

Frattanto, la voce costituiva una sgradita e infinita compagnia, come fosse un ospite importuno e incapace di allontanarsi da lui.

Con il malinconico fluire dei mesi, l’assassino si accorse però di una consistente variazione: la voce, che continuava incessante, esasperante, a sussurrare parole alla sua anima oscura, si faceva via via più densa.

La sensazione che provava il nostro uomo era proprio questa: il mormorio sembrava staccarsi progressivamente dal mondo dei suoni ed invadere, come una muffa dannosa, tutte le sfere sensoriali.

Era una voce corporea, fisica, quasi tangibile. Dopo un tempo che gli parve infinito, il brigante fu certo –certo nel profondo del proprio spirito- che il sussurro fosse ora una creatura, un essere vivo, reale, che si stava scrupolosamente nutrendo di lui.

Solo l’idea terrorizzò il pover’uomo, lo colpì al punto da farlo urlare, a lungo e senza requie, nella sua notte eterna.

Una voce, una voce lo stava divorando! Era come un tarlo che lo rodesse dall’interno, in modo meticoloso, continuo, crudele. E intanto, il fruscio si faceva più forte, più robusto, sì, più vivido.

Si faceva più vivo, e questa era l’unica verità degna di essere pensata.

 

Fu all’improvviso, quando la situazione sembrava essersi stabilizzata in questo nuovo baratro di terrore puro, essenziale, che il brigante fu toccato dal buio.

Un tocco leggero, vellutato, quello che ci si sarebbe aspettato dalla carezza leggera di una mano inguantata, proprio sulla sua caviglia martoriata dalla catena. L’uomo ebbe un brivido di orrore, un fremito che non avrebbe mai provato se si fosse trattato semplicemente di un ratto.

Aveva superato da molto, ormai, la fase del disgusto verso l’ambiente che lo circondava. Ciò che in quei momenti lo poteva toccare era solo qualcosa di grande, di antico e di potente. Non ebbe dubbi sulla natura di quel tocco. Seppe subito, senza doverci riflettere nemmeno per un secondo, che era stato il Buio, il buio del sotterraneo, a sfiorarlo.

 

L’episodio si ripeté, pressoché analogamente, molte altre volte: man mano, però, il tocco, caldo e suadente, indugiava più a lungo e più fermamente. Un poeta di corte avrebbe detto che il buio era voluttuoso, animato da una rovente e gelida cupidigia, ma lo stanco assassino riusciva solo a formulare pensieri vacui, alla ricerca inesausta di un’escatologia, di un destino un poco più luminosi.

Il contatto con la tenebra, a quel punto, non era più assimilabile a quello con un guanto: piuttosto, in modo se possibile ancor più inquietante,  esso faceva pensare a un non so che di animalesco, di bestiale. L’immagine che per prima si presentò agli occhi ciechi del malfattore fu infatti, così si dice, proprio quella di una coda.

Una lunga coda flessuosa, nera come la pece, lucente come l’ala di un corvo, mobile come l’aria invernale. Nella sua mente la visione apparve così chiaramente da provocare un violento sobbalzo: e proprio mentre il brigante stava lì, raggomitolato e tremante nel buio, a riascoltare nella mente i fruscii della propria paura, la coda lo toccò ancora, e la voce parlò chiaramente.

 

-Ti saluto, uomo malvagio- esordì con lo stesso tono suadente e sibilante insieme che aveva caratterizzato tutte le sue parole smozzicate.

-C-cosa siete voi?-

Una risata, un solo, cristallino scoppio di risa ancor più inquietante del silenzio completo della segreta.

-Chi sono io? Tu, sciocco mortale, reo di mille colpe, tu che ti sei macchiato dell’assassinio dei tuoi fratelli, tu! Tu osi domandarmi chi io sia?-

La frase della voce rimbombò, crepitò, si insinuò in ogni anfratto della mente del brigante, facendolo ricadere nel più completo ottundimento.

Non disse nulla, e un silenzio pregno di significato si instaurò tra le due creature.

Fu la voce, sempre calda e tintinnante, gelida e suadente insieme, a rompere quella fugace malia.

 

-Te lo dirò, allora, crudele mortale. Sappi però che né le tue suppliche né il tuo silenzio hanno avuto il potere di farmi parlare; ma l’hanno posseduto  la tua essenza, la tua anima cui ho attinto senza riserve, il tuo spirito oscuro e senza remissione. E sappi dunque, mortale, che io sono il Sotterraneo, l’Oscuro, la Tenebra. Io sono colui che nel cuore della terra ha aspettato una nuova anima; io sono colui che oggi si è risvegliato; io sono il Buio, il Buio Sotterraneo!-

 

La voce si era levata alta, possente, violenta. La terra stessa, le pietre antiche del sotterraneo sembravano rimbombare del suo potere, riecheggiando con energia sempre rinnovata quelle parole terribili.

Una disfonia di suoni sinistri si impadronì della cella. Rumore, echi, frastuono. Un lampo improvviso di luce –una luce malsana, crudele anch’essa- sferzò d’improvviso la mente del brigante.

E allora egli vide la creatura da lui stesso alimentata, quella che da mesi, ormai ne era certo, gli stava risucchiando la mente e lo spirito. Nel fragore di tuono riverberato dalle pietre, in quel fugace istante illuminato dalla scarica di luce, il brigante spalancò gli occhi e, finalmente, scorse colui che lo tormentava, il Buio.

Era un gatto.

Un gatto che sembrava fatto della stessa materia che risiede tra le stelle più lontane: nero, rifulgente di uno splendore oscuro, malefico, rimandava lo sguardo annichilito dell’uomo con due inquietanti, profondissime iridi gialle.

Intorno alla sua coda, di cui il malfattore aveva già avuto una visione, sembrava avvolgersi una nube di puro nulla, il nulla dei buchi neri e delle notti senza luna, quel nero così forte da inglobare in sé ogni cosa. In altre parole, il gatto del buio stava assorbendo, assimilando su di sé l’oscurità dilagante nel cuore dell’uomo.

La nuvola baluginava nella propria tenebra, si avviluppava tremando, mentre, tanto fugaci da apparire inconsistenti, immagini sempre diverse si affastellavano sulla sua superficie.

Volti, fuochi, fiamme, case. Gente urlante, lacrime, pianti. La paglia di un fienile data alla furia del fuoco. Il volto tumefatto di un contadino pestato. Il fulgore sottile di una catena d’oro puro.

Quelle visioni oniriche si avvicendavano senza sosta, in una girandola sempre più rapida, sempre più vorticosa. La vertigine si impadronì del brigante, così repentina da impedirgli, ancora una volta, il pensiero. Le pietre del sotterraneo tremavano, vibravano sempre più forte, ripercuotendo incessantemente una sorta di accordo ancestrale.

Il mondo girava, senza freno. Una cacofonia intollerabili di voci urlanti si mescolò al vortice delle immagini, ormai il rosso delle fiamme si confondeva con le scariche di luce, mentre il nero del gatto di buio si estendeva sempre più.

Un ultimo guizzo, un ultimo spasmo, e la tenebra tornò a dominare.

 

Silenzio, a lungo, mentre il tremore si acquietava.

-Ecco, questo sono io- profferì il gatto sotterraneo in un soffio sibilante.

Il brigante tacque. Per  la prima volta da quando si trovava in quella cella, nell’oscurità vorace di quella segreta, per la prima volta in quel momento gli sembrò di riuscire a pensare con chiarezza.

Quelle immagini, quelle tremende visioni di cui era stato coatto spettatore, erano il simbolo e la rappresentazione delle sue colpe, egli lo sapeva molto bene.

Fu in quell’istante che provò, ci dicono le leggende, l’emozione più forte della propria vita.

Tutte le sue colpe, ogni singolo peccato da lui commesso contro  i suoi simili uomini, in un solo istante gli si era rivelato: lo shock era stato enorme, ma proprio allora il brigante si sentì libero.

Non aveva mai provato nella propria vita una simile sensazione di serenità.

Egli era libero, libero come gli uccelli del cielo, capace di volare, davvero e compiutamente, oltre quel luogo, oltre il sotterraneo, oltre il gatto, oltre il buio. Ma soprattutto, in quel momento egli si accorse di poter volare oltre se stesso.

Colui che era stato assassino, comprese allora la portata del proprio crimine; colui che era stato ladro, capì con certezza che aveva fatto del male; colui che si era distinto nel buio, si rese conto di dover tendere alla luce.

Fu un solo istante, fuggevole ed effimero. Ma quell’istante si verificò, non so se per miracolo o per destino, e l’uomo comprese anche che il gatto-sotterraneo, la personificazione della tenebra, l’oscuro tormentatore della sua esistenza, l’aveva in realtà salvato.

In quell’unico, monolitico istante di eternità, un ruscello di pura luce sgorgò nella sua mente, spazzando via lungo il suo corso ogni brandello di tenebra.

Scorreva così, tintinnando argentino, come un arpeggio suonato da mani di fata: e con sé portava quella dolcezza commossa, incomprensibile, priva di fondamento, ma reale come può esserlo la salvezza, che è inevitabilmente sottesa al cuore di ognuno.

Il gatto del buio, avvolgendosi la coda intorno al corpo flessuoso, emise dagli occhi d’oro un bizzarro, assurdo bagliore: e poi scomparve, silenzioso e frusciante com’era venuto, come riassorbito dalle pietre stesse del sotterraneo.

 

 

 

 

 

 

  
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