«Edward,
devi… aiutare Phil» riuscii a farfugliare,
stringendogli il volto fra le mani.
Mi
occorsero
pochi istanti per comprendere il mio errore.
Gli
stessi
istanti in cui, tremante, volsi le mie dita verso i miei occhi.
Completamente
sporche di sangue.
Lo
stesso
sangue con cui avevo macchiato il viso rigido e pallidissimo di Edward,
lo
stesso che c’era sulle sue guance, sulle sue labbra.
Non mi
aspettai null’altro che vedere i suoi occhi neri e sentire il
ringhio cupo del
suo petto.
«Edward». Il
mormorio inconsapevole e sgomento,
prodotto dalle mie labbra, mi giunse flebile e ovattato.
La pelle perfetta e bianca della
sua guancia si tese,
mentre le labbra scoprivano una fila perfetta di denti,
l’arma letale pronta ad
uccidere.
Sentii che l’adrenalina
che in pochissimi istanti era
stata spinta con forza nelle mie vene, aveva cancellato ogni
annebbiamento e
stordimento, rendendomi perfettamente lucida. Fin troppo cosciente
della
situazione. «Edward, Edward, ti prego» sussurrai a
voce bassa, attenta a non
farmi sentire da Phil.
Ma gli occhi di mio marito
guardavano più avanti, alle
mie spalle, fissi e neri. Mi rendevo conto dello sforzo in cui si
stavano
impegnando i suoi muscoli in quel momento. Se non avesse avuto
l’autocontrollo
che aveva, in quell’istante i miei palmi aperti avrebbero
premuto contro il
vuoto, mentre ai miei occhi si sarebbe offerto uno spettacolo mostruoso
e
orripilante.
Mi voltai per un istante, timorosa
di perdere il
contatto visivo con Edward, eppure convinta della necessità
di tenere
sottocontrollo la situazione. Phil si teneva il braccio con una mano,
che aveva
ragionevolmente messo nel lavandino. Un battito di ciglia, e notai il
sangue.
Per terra, nel lavandino, sul braccio. Era tanto.
Resistetti, deglutendo, al pugno
che mi arrivò allo
stomaco. Mi voltai ancora immediatamente verso mio marito, guardandolo
negli
occhi stregati e cercando di catturare il suo sguardo.
«Edward, guardami, ti
prego, guardami» continuai a voce bassa, sollevandomi sulle
punte dei piedi per
avvicinarmi al suo viso.
Le mani, aperte, spingevano contro
il suo maglione
chiaro. Sentii il suo petto premere contro i miei palmi. Si stava
muovendo,
stava vacillando. «Ti prego!» sussurrai con un tono
leggermente più alto,
sentendo il cuore incespicare e balbettare nel petto. Ancora una volta,
fulmineamente, mi voltai a controllare dietro. Phil era troppo
impegnato a
bloccare il sangue e imprecare per accorgersi del pericolo che stava
correndo.
Nuovamente gli occhi di mio marito
si scontrarono con
i miei. «Amore» provai, addolcendo il tono
«amore, ti prego, ti prego. Torna in
te…» lo supplicai, spingendolo con tutte le forze.
Era come tentare di smuovere
una piramide. «Ti prego, va via. Vai Edward, vai fuori, ti
prego…».
Sentivo la pulsazione del mio cuore
persino nelle
dita, tese ad allontanarlo. «Amore, tu puoi farlo, puoi
resistere se vuoi. Ti
prego, ti prego, ce la fai Edward, puoi farlo». Speravo che
le mie parole
agitate fossero in qualche modo catturate dalla sua immensa mente, ma i
suoi
occhi continuavano ad essere lontani, e il suo petto tremava e vibrava
sotto il
suono dei ringhi.
«Edward!»
provai più forte, serrando forte le palpebre
e spingendo ancora con le mani, stringendo il suo maglione chiaro fra
le dita,
nei pugni.
Si piegò quasi
impercettibilmente sulle ginocchia. Era
pronto. Era pronto all’attacco, pronto ad uccidere,
più nulla l’avrebbe
fermato. Sentii una scossa elettrica estremamente dolorosa pervadere
per tutta
la sua lunghezza la mia spina dorsale. L’imminenza della
catastrofe mi lasciava
l’impronta dell’impossibilità nel corpo.
Come se in realtà tutto quello fosse
troppo assurdo per avvenire, come se fossi altro al di fuori di me, e
stessi
osservando la surreale scena.
La fine era vicina.
Tanto che quella parte al di fuori
di me, quel
dispettoso pezzettino d’anima, alzò un
sopracciglio, incuriosito, quando
accadde realmente l’impensabile.
Sotto i miei palmi aperti e tesi,
c’erano diversi
millimetri di vuoto, tanto di permettermi di notare
l’impronta rossa che con le
mani avevo lasciato sul cotone bianco.
Muovendomi istintivamente spinsi i
palmi in avanti, e
paradossalmente non fui quasi per nulla sorpresa comprendendo
l’estrema
facilità con cui riuscivo ad allontanare il suo petto, senza
neppure realmente
toccarlo, come se lo stessi spingendo con un invisibile cuscinetto
d’aria.
E lo sentivo davvero sotto le mie
dita, consistente,
irradiarsi da dentro me.
Destabilizzata, sollevai lentamente
lo sguardo verso
il viso di mio marito. Mi stava guardando fisso negli occhi, e sul suo
viso potei
leggere la mia stessa espressione vuota e smarrita.
«Devi andare
via» dissi neutra, automaticamente, senza
pensarci. Non passò neppure un battito di ciglia, e sotto i
miei palmi non vi
fu più nulla. Voltai le mani ancora macchiate, tremanti,
verso i miei occhi,
osservandole sconvolta.
Dalla mia bocca uscì un
respiro secco e veloce.
Poi, mi voltai rapidamente verso
Phil, decisa. Afferrai
un canovaccio e lo legai sul suo avambraccio, appena sopra la ferita,
senza
pensare al rosso, senza pensare all’odore, senza pensare al
sangue. Valutai in
un attimo la situazione. Era pallido. Serrai i denti, trattenni il
respiro,
guardai il polso. Non avevo certo una laurea in medicina, e nessuno
sciocco
attestato, ma la mia esperienza personale poteva bastare per decretare
la
serietà del taglio. Ci sarebbero voluti i punti, subito.
Phil mi parlava, mi
diceva qualcosa, ma decisi di escludere le sue parole recependo
automaticamente
che non si stava lamentando per il dolore, né mi stava dando
informazioni utili
per aiutarlo.
«Carlisle»
dissi asciutta, non appena rispose al
telefono. Mi bastarono poche parole per descrivere brevemente la
situazione.
Non far venire nessun altro. Manda Emmett e Jasper da Edward.
M’irrigidì
quando Phil mi chiese di lui. Ovviamente
aveva notato qualcosa, non era tanto annebbiato da non farlo.
«È sensibile al
sangue» risposi, in un tono tanto glaciale che non
azzardò altre constatazioni.
Lo aiutai a sedersi su una sedia. Gli sollevai le gambe e gli feci
tenere il
braccio alzato. Quando mi accertai di non poter fare nulla di
più per lui afferrai
il flacone della candeggina e la gettai direttamente sul pavimento e
nel
lavandino, coprendo l’odore nauseabondo. Pulii risoluta con
uno straccio,
attenta a non lasciare traccia di sangue.
Dopo aver riposto gli oggetti mi
voltai ad osservare
Phil. Mi fissava silenzioso. Sembrava, nonostante tutto, che se la
cavasse
piuttosto bene. Il carnato era chiaro, gli occhi un po’
disorientati, ma
tuttavia attenti. La cucina era pulita. Ispezionai
l’ambiente, facendo saettare
gli occhi in tutti gli angoli, retrocedendo sempre più per
ampliare il campo
visivo.
Cozzai contro qualcosa. Il frigo.
Mi lasciai scivolare
con la schiena contro la superficie liscia, lasciando le gambe piegate
e
divaricate. Mi osservai la punta della pancia, la parte più
alta, non pensando
sostanzialmente a niente.
Quando Carlisle arrivò
aveva un’espressione attenta,
preparata, pronta ad affrontare la situazione.
«Bella?».
Automaticamente indicai Phil, e la
sua testa si volse
verso di lui. Sentii solo la prima parte del loro discorso. Vidi
Carlisle
sedersi sulla sedia di fronte a quella di Phil, e aprire la sua borsa.
Poi i
miei occhi tornarono ad essere poco attenti, e la mia mente ancora
vuota.
La prima cosa da cui la mia
attenzione fu nuovamente
catturata fu il battito del mio cuore. Mi accorsi che il battito stava
cambiando, più debole e tranquillo. Non che prima avesse
battuto veloce,
piuttosto vigorosamente. Subito dopo sentii come se una patina di
lucidità
invisibile, che in quegli ultimi minuti mi aveva ricoperta, si stesse
man mano
ritirando, lasciandomi intorpidita. Sentii le dita delle mani
addormentate, poi
i piedi, la braccia, le gambe, finché il formicolio non si
trasformò in un
tremito.
In quel momento nacque
l’urgenza di comprendere quello
che era appena accaduto. Ma per quanto ne sentissi
l’esigenza, mi risultava impossibile
pensare coerentemente.
«Sì, me la
cavo, mi sento solo un po’ debole.
Piuttosto… Bella… sembra… strana».
Il mio viso schizzò in
un attimo nella direzione di
Phil, e Carlisle fece lo stesso, mandandomi un’occhiata
consapevole, per poi
ritornare immediatamente al suo lavoro di ago e filo. «Bella,
stai bene?».
«Sì» mormorai, incapace in ogni caso di
muovermi da
quell’innaturale posizione che avevo assunto. Le ginocchia
piegate e strette,
almeno quanto lo permetteva la piccola pancia.
«Perché non ti
vai a stendere un po’ di là, nel
soggiorno?».
Non risposi, deglutii. Le mani,
l’impronta, il vuoto.
L’avevo spinto via. Spinto via senza toccarlo, con le mani,
lasciando
l’impronta. I miei pensieri erano stretti in un dedalo assai
contorto, senza
nessun filo d’Arianna capace di farmene venire a capo.
«…Ho trovato
la porta aperta e… ehi, ma cos’è
quest’odore?! Phil!».
Mia madre si
precipitò accanto al marito, prendendogli la mano illesa fra
le sue. «Cos’è
successo?» chiese allarmata.
Carlisle la rassicurò,
risoluto. «Devo solo finire il
bendaggio, si è tagliato con un bicchiere, va tutto bene.
Dopo andrà al pronto
soccorso. Non è niente di troppo grave, ha perso un
po’ di sangue, ma
fortunatamente non ha reciso l’arteria e non ci sono danni
permanenti».
Vedevo le cose come un pesce rosso
rinchiuso nella sua
boccia. Le parole rimbombavano, le immagini erano distorte. Ripensai al
flusso
di energia che pochi minuti prima si era irradiato dal mio ventre alle
mani.
Gli occhi di mia madre
temporeggiarono, preoccupati,
passando dal marito a Carlisle. Era stato sufficientemente convincente.
«Sto bene
tesoro». Phil sorrise, a suffragio di quanto
appena detto dal medico.
Poi, lo sguardo di Reneè
saettò su di me, e proprio in
quel momento si accorse della mia presenza.
«Bella!» esclamò, venendomi subito
accanto. «Piccola, va tutto bene?» chiese,
accarezzandomi il viso, ma non
rompendo la bolla in cui ero rinchiusa.
«Accompagnala nel
soggiorno Reneè, falla stendere»
suggerì Carlisle.
Mia madre mi guardò
apprensiva, mettendomi un braccio
attorno alla schiena e aiutandomi ad alzarmi. Sentivo il calore della
sua
pelle, l’odore del profumo di fiori, sensazioni sensoriali
futili che mi
distraevano completamente da qualsiasi altro pensiero. Il formicolio
non aveva
smesso di pervadere i miei muscoli, tanto meno quando il sangue
tornò a
circolare liberamente nelle gambe, e prepotentemente verso la testa,
facendomi
perdere l’equilibrio appena dopo due passi.
«Bella,
tesoro!» esclamò Reneè, affaticata
dallo
sforzo di tenermi stretta a sé.
Durò pochi secondi, e
Carlisle venne subito in suo
soccorso. «Porta Phil in ospedale, lo sapranno aiutare. Ci
penso io a lei» tono
caldo, rassicurante. Sentii le parole tremanti di mia madre, un grazie.
Carlisle mi sollevò,
prendendomi fra le braccia e
portandomi sul letto. La testa mi girava un po’, e tutti i
muscoli delle
braccia, delle gambe, non avevano smesso di tremare.
Mi depose sul copriletto,
osservandomi, passandomi una
mano fredda sulla testa. Mi lamentai della testa che girava, del
tremore alle
mani.
Eppure, non potevo fare a meno di
pensare a quella
singolare sensazione che avevo provato. L’irradiarsi
dell’energia, il controllo
di qualcosa di invisibile.
«Respira tranquilla. Apri
e chiudi le mani, ci
riesci?».
Annuii, respirando piano,
rispondendo alle mani di
Carlisle, strette alle mie. Sbattei le palpebre, nell’ultimo
tentativo di
smettere di pensare a quell’affascinante effluvio di potere.
«Devo parlarti».
Edward
Era successo tutto così
velocemente che ne avevo
ancora in mente la precisa traccia. Saltai agevolmente da un ramo a
quello più
basso, lasciando andare l’ennesima carcassa. Ero abbastanza
controllato, ormai.
«Vuoi
tornare?».
Annuii ai pensieri di Emmett, e
ricominciai a correre
velocemente fra i rami e gli alberi, in direzione di casa, verso Bella,
verso
la bambina.
Ripensai ancora una volta a quello
che era accaduto.
Avevo immediatamente avvertito che qualcosa non andava, prima ancora di
percepire il sentore di sangue. Bella era spaventata, e certamente
indebolita
dalla presenza di quella sostanza che per me era come un nettare.
Chiusi gli occhi, scuotendo il
capo. Non mi serviva la
vista per continuare a correre senza incappare in alcun ostacolo. Ero
stato sul
punto di ucciderlo. Il mio autocontrollo non mi aveva mai tradito, ma
era
bastata una sola goccia di sangue, sentire il suo sapore dopo tanto
tempo,
osservare il suo colore provocante, la voluttuosa
umidità…
Jasper mi fu subito accanto,
percependo il mutamento
nel mio stato d’animo. «Edward,
sei
sicuro di voler tornare?».
«Sì».
E poi, tutto il resto. Una
distrazione, tanto grande
da farmi distogliere lo sguardo, ascoltare e dar retta alle parole di
mia
moglie, le uniche che potevano avermi fatto temporeggiare e che
continuavano a
rimbombarmi nella testa. Lo avevo letto nei suoi occhi grandi e
smarriti, non
sapeva neppure lei cosa stava accedendo. Avevo sentito qualcosa di
diverso nei
pensieri della piccola, un’esplosione potente e un senso di
beato potere.
Quando arrivai in casa, mio padre
stava uscendo dalla
nostra camera da letto, il suo
odore
proveniva da lì. Lo osservai allarmato, preoccupato di
quello che poteva essere
accaduto a mia moglie. «Sta
tranquillo,
sta bene» mi rassicurò immediatamente.
«Si è solo agitata molto, Esme è con
lei, sta bene» ribadì, informando anche Alice e
Rosalie, in piedi alle mie
spalle. Mi guardò comprensivo, mettendomi una mano sulla
spalla. Sapeva che
sarei voluto andare immediatamente da lei. «Permettimi
di rubarti due minuti figliolo» pensò,
guidandomi nello studio.
A malincuore lo seguì,
fidandomi di lui.
«Come sta?»
chiesi, ansioso di avere ben più profonde
rassicurazioni.
«È stata molto
brava, mi ha chiamato, ha aiutato Phil.
Anche lui sta bene. Si è spaventata molto, anche, ma
è stata all’altezza della
situazione. L’agitazione non giova certo al suo
stato».
Abbassai il capo, pensando a come,
al contrario, non
fossi stato all’altezza della situazione. Non riuscivo a
guardare mio padre
senza pensare di averlo deluso. Meritavo la comprensione di un essere
così
compassionevole?
«Edward»
sussurrò, venendomi accanto in un istante,
abbastanza da far percepire tutti i suoi spostamenti ai miei occhi,
«sei stato
bravo. Sei stato un ottimo figlio per me».
Corrugai le sopracciglia,
irrigidendo la mascella.
Gli occhi di Carlisle cercarono i
miei. «Ricorda, non
importa che tu abbia vacillato. L’importante è che
tu sia riuscito a temperare
te stesso. La prossima volta sarai più forte… In
pochi avrebbero resistito ad
una tentazione del genere».
Scossi il capo, afflitto.
«Mi dispiace».
Mi posò una mano sulla
spalla, e sentii nei suoi
pensieri l’esplicito e sincero desiderio di confortarmi, di
farmi comprendere
quanto fosse orgoglioso e nient’affatto deluso da me.
«Pensi
che
stia bene?». Si morse le labbra. «E se Emmett e
Jasper non l’avessero
trovato?». I pensieri di mia madre
arrivarono contemporanei al suono delle parole di Bella.
«Mia moglie ha bisogno di
me».
Carlisle annuì,
fissandomi serio. «Certo, vai,
parleremo dopo di quello che è
accaduto» compresi che Bella doveva avergli parlato
di come era riuscita a
spingermi via. «Philip
dovrà darci delle
risposte questa volta. Lo farà».
Già, il professor
Philip. Quell’uomo doveva restare
ancora in fondo ai miei
pensieri.
Mi avvicinai alla porta.
Temporeggiai, volgendomi
verso Carlisle, sentendomi in dovere di pronunciare
quell’ultima parola.
«Grazie».
Fece un cenno con la testa,
aprendosi in un piccolo
sorriso. «Di nulla figliolo, di nulla».
Aprii la porta della camera,
attento a causare il
minimo rumore. La trovai stesa sul letto, la schiena poggiata su un
muro di
diversi cuscini, addossati alla testiera. Era avvolta in una coperta,
lo
sguardo lontano, in un’altra direzione. Aveva quegli
adorabili nastrini rossi a
sollevarle i capelli da ambo i lati, facendoli poi ricrede lunghi sulle
spalle,
sul petto.
Sussultò, quando si
accorse di me, quando entrai nel
suo campo visivo. «Edward» mormorò
sollevata, e le guance le si colorarono
appena di un rosso tenue.
Le presi le manine piccole e
bianche fra le mie, ora
completamente terse e linde, portandole alle labbra e baciandone le
piccole
dita. Seguì i miei movimenti con i suoi occhi liquidi, la
piccola bocca rossa
lievemente dischiusa. «Come stai?» le chiesi,
fissandola negli occhi.
Annuì, sfiorandomi lo
zigomo con il palmo della mano.
«Va tutto bene?». La capacità di
preoccuparsi per gli altri oltre ogni misura,
e fare l’esatto contrario per sé stessa, era
qualcosa di radicato profondamente
in lei.
«Certo, va tutto
bene» la rassicurai. Stronfiò le
gambe, coperte dalle calze avorio, trapuntate, l’una contro
l’altra. Avvolsi
anche quelle nella coperta, proteggendola dal freddo, e insinuai una
mano sul
suo grembo, posando il capo sul suo petto florido. Avvertii nei
pensieri della
bambina un movimento.
Ero titubante e mi muovevo con
cautela, saggiando lo
stato d’animo di mia moglie. Avevo paura che questo potesse
essere un altro
destabilizzante colpo al suo fragile equilibrio. La strinsi a me,
accarezzandola. Morbida, calda…
«Non l’ho solo
immaginato, vero, Edward?» chiese,
continuando ad accarezzarmi i capelli.
Il suo tono, pur controllato,
pareva tranquillo.
Scossi il capo sul suo petto, sollevando poi il capo e guardandola
negli occhi.
Mi stesi accanto a lei, stringendola a me. Volevo necessariamente
sapere
qualcosa di più, ma stavo camminando su un mucchio di
cristallo. Poche volte mi
ero trovato così in difficoltà con mia moglie.
«Come… come è stato?» chiesi,
tremante, attento a commisurare con delicatezza le parole. Abbassai il
tono,
rendendolo istintivamente suadente. «Ti ha fatto
male?».
Scosse velocemente la testa,
facendo ricadere le
piccole ciocche di capelli qua e là. Era arrossita.
«No, Edward, te lo giuro»
disse velocemente, ansiosa, lo sapevo, di convincermi.
Le credetti, non perché
mi fidassi del suo stoicismo,
ma perché sapevo perfettamente che Bella non era in grado di
mentire. Non a me,
a maggior ragione. Tentai di comprendere in che misura potesse averla
turbata
tutto quello che era successo.
Ma prima che potessi parlare, mi
precedette. «Perché
l’ha fatto?» chiese curiosa,
«intendo… secondo te, perché la bambina
lo ha
fatto? Perché è stata lei, ne sono
certa» mormorò, accarezzandosi il ventre
gonfio.
Misi la mia mano sulla sua, e la
accarezzai anch’io. «È
vero. Ho sentito i suoi pensieri».
«Davvero?»
chiese, voltandosi di scatto nella mia
direzione e smettendo di accarezzare. Boccheggiò lievemente,
poi deglutì e
riprese. «Io… anch’io l’ho
sentita, sai? Ho sentito lei, e poi… tutta
quell’energia…».
Aspettai che concludesse la frase,
osservandola
attento. Non sembrava particolarmente scossa, più che altro
sembrava quasi…
orgogliosa. Come la madre che osserva il bambino pronunciare la sua
prima
parola.
«È stata
brava» aggiunse fiera, confermando la mia
teoria, «ci ha aiutato. Ha sentito che eravamo in pericolo e
ci ha aiutato. Se
non ci fosse stata lei…».
M’irrigidì,
colpito.
Anche lei si bloccò,
pentita forse delle sue parole.
«Edward, io, mi dispiace» farfugliò,
rossa in viso, «tu sei così bravo che io tendo
a dimenticare la tua natura e» deglutì
«oh, se non fossi stata così avventata,
se non ti avessi toccato».
Le misi un dito sulle labbra. Come
poteva, come,
sentirsi in colpa di una cosa di cui io ero l’unico reo?
«Eri completamente
frastornata. Se non fosse stato per colpa mia, non sarebbe mai accaduto
nulla.
Bella. Ti prego. Non fare quella faccia» dissi serio,
commentando la sua
occhiata scocciata. Distolsi lo sguardo. Avevo la paura costante, non
ancora
abbandonata, delle ripercussioni che quell’evento avrebbero
potuto portare
sull’andamento sereno delle nostre vite.
«Edward» mi
chiamò, distogliendomi dal rapido corso
dei miei pensieri «non essere così
apprensivo» affermò, e mi sorprese
l’intuito
con cui aveva percepito le mie intenzioni. Prese la mia mano fra le
sue,
intrecciandole. «Voglio che affrontiamo questa cosa insieme,
con calma. Non può
essere così terribile, no?». Mi sorrise, timida,
fiduciosa.
Le sorrisi di rimando, ancora
attento.
«Abbiamo affrontato di
peggio. Dobbiamo solo capire
cosa accade e perché. Ce la possiamo fare» il
fervore con cui pronunciava le
parole non scaturiva solo dal valore auto-persuasivo che avevano.
Doveva averci
rimuginato a lungo.
La strinsi a me, accarezzandole i
capelli. «Il
professor Philip ci aiuterà».
La sentii rabbrividire. Strinse le
mani sulla mia
camicia, unico indumento che ancora rimaneva a coprirmi, dopo che avevo
buttato
via il maglione sporco. Non che sentissi freddo. Strofinò il
viso sul mio
petto, così la strinsi di più a me. Sapevo che
odiava quell’uomo. Non volevo
metterla continuamente in questo genere di difficoltà, ma
diventava ogni giorno
più necessario.
«Sì» mormorò, infine,
«credo
proprio che lo farà».
Le sorrisi di rimando,
ringraziandola, perché per
l’ennesima volta era stata lei a rassicurare me.
Phil e Reneè tornarono
un’ora dopo, e fortunatamente
in buona salute. Non mi allarmai particolarmente per i pensieri di
Phil, tutti
piuttosto tranquilli, e mai sospettosi nei miei confronti. Era
abbastanza
persuaso del fatto di essere molto confuso, quindi evitò di
fare e porsi
domande.
Ero stato così vicino a
far scoprire il nostro
segreto…
Fui contento del fatto che Bella
fosse riuscita a
reinstaurare quel magnifico rapporto che aveva sempre avuto con la
madre.
Quella sera stessa, prima di andare
a dormire, mi
aveva chiamato, prendendo le mie mani fra le sue e guardandomi piena di
determinazione. Mi faceva così tanta tenerezza in quei
momenti, in cui la sua
espressione diventava crucciata e dolcemente buffa. «Edward,
ho pensato ad una
cosa» cominciò seria, in piedi davanti a me. Mi
aveva fatto sedere sul bordo
del letto. «Dobbiamo giocarci bene la carta del professor
Philip, è la nostra
unica opportunità, lo sai».
Annuii, seppur riluttante. Non
aveva limiti la
sfacciataggine di quell’uomo. Ma era la nostra unica fonte di
conoscenza,
l’unico modo per tenere sotto controllo la bambina e la
gravidanza. Eppure fui
sorpreso di sentire quelle parole pronunciate da
mia moglie.
Bella portò la mano che
avevo intrecciato alla sua
sulla pancia. Potevo sentire la sensazione fredda della membrana che
avvolgeva
la placenta, appena sotto la bella sottana di cotone bianco, che cadeva
liscia
sulle sue forme, accentuandole. Avevamo ridotto il problema di sua
madre, che
pure non si era astenuta in carezze nei confronti della piccola, con
l’uso di
stoffe spesse e pancere protettive.
«Edward» mi
richiamò, arrossendo lievemente «ci ho
riflettuto. Penso che abbiamo un’unica
opportunità. Dovrò parlargli io»
affermò
convinta.
Fui stupito da
quell’affermazione. Doveva averci
pensato a lungo. Così il suo strano atteggiamento non era
dovuto solo al timore
che provava per Philip, ma anche da quel ragionamento che stava
maturando.
Avevo sempre ritenuto che mia moglie possedesse spiccate
capacità di
perspicacia.
Per tutta la notte ebbi
l’occasione di osservarla,
pensando a quello che era accaduto, pensando a quello che mi aveva
detto. Ne
accarezzai i capelli bruni, il ventre gonfio, e strofinai il dorso
delle mani
perlacee. Era riuscita a spingermi via con le mani senza neppure
toccarmi.
Necessariamente doveva essere qualcosa che derivava dalla bambina, o al
più
dalla gravidanza, ma mille interrogativi imperversavano nella mia
mente, e
contemporaneamente mille ipotesi e teorie si sviluppavano.
C’era un solo modo per
scoprire la verità. Aveva
ragione Bella, lei era l’unica che poteva farsela rivelare.
Lo sapevo, perché
l’avevo letto nei pensieri di quell’uomo.
Bella
Guardai senza paura
l’uomo che mi era di fronte.
Quella mattina mi ero alzata carica
di energie, e
soprattutto ben decisa e determinata. Mi ero guardata allo specchio,
esaminato
la pancia in continua crescita, e avevo imposto a me stessa di fare
senza
remore quello che stavo facendo.
«Quindi vorrei che mi
dicesse quello che è successo. E
vorrei che me lo spiegasse, e che lo spiegasse anche a mio marito, e ai
presenti». Il cuore batté più forte, ma
io lo ignorai.
Il professor Philip
arcuò un sopracciglio, perplesso e
stranamente titubante. E non lo era perché cinque vampiri
erano insieme a noi
nella mia camera da letto, affatto. Semplicemente perché
avevo deciso che non
potevo più aspettare e cadere ancora una volta sotto il suo
ascendente. Ero
sicura, tranquilla. L’ansia che provavo nei suoi confronti
chiusa in un casettino,
seppur rumoroso, della mia mente, con una chiave
che indicava “per mia figlia”.
Mi ero alzata determinata, dunque,
e subito dopo aver
mandato via mia madre e Phil, in bella compagnia di Esme e Rosalie,
avevo fatto
chiamare il professore. E poiché sapevo che una richiesta da
parte di Edward o
un qualsiasi altro vampiro non sarebbe stata fruttifera, avevo deciso
di
intervenire personalmente, come avevo chiesto la sera prima a mio
marito.
«Certo,
Isabella».
Non potei evitare di emettere un
piccolo sospiro di
sollievo, sollievo palese su tutti i volti dei vampiri al mio fianco,
in
particolar modo di Jasper, che da subito aveva appoggiato la mia idea.
Malgrado
la determinazione con cui mi ero presentata, non ero del tutto certa
che le mie
parole potessero avere alcun effetto. Ci speravo però, ci
speravo ardentemente.
Diverso era per Edward, che sembrava, seppur riluttante ad attuarlo,
convinto
dell’efficacia del mio piano.
«La bambina ha
semplicemente manifestato i suoi
poteri. È normale che inizi a farlo in questo
periodo».
Lo ascoltai attenta, e come me
anche Edward, appena al
mio fianco. Dovevo immaginare che come tutti gli altri vampiri, e
mezzi, dato
quanto sapevo di Caterina Barbarigo,
anche mia figlia
avesse delle doti extra. In effetti era stata una delle possibili
ipotesi che
avevo vagliato. L’interessante era rendermi conto che la
bambina riuscisse a
manifestare il suo potere anche attraverso me.
«Cosa
comporterà?» chiese Jasper. Il mio sguardo
saettò fra lui e il professor Philip, che
s’irrigidì in un istante.
Ci furono alcuni secondi di
silenzio, in cui pensai
che non avrebbe mai risposto. Poi, però, si voltò
nuovamente verso di me. «Hai
un esame con me fra due settimane, non è così,
Isabella?».
Annuii.
«In
quell’occasione ti consegnerò un tomo in cui
potrete avere tutte le informazioni che cercate, senza chiamarmi per
ogni
singola, insignificante scoperta» fece schioccare la lingua
con disprezzo,
fissando i vampiri.
Presi un piccolo respiro, strinsi
convulsamente la
mano di Edward, stretta alla mia. «Che
cos’è questo potere?».
Il professore mi fissò
cauto, tranquillo. «Cosa ha
fatto, di preciso?» chiese attento, assottigliando lo
sguardo.
Mi concessi di fare un passo
avanti, rilassata, sicura
di lasciare mio marito appena dietro di me, e rispiegai con
più attenzione
quello che era avvenuto il giorno precedente.
Esitò, titubante.
Abbassò lo sguardo, e lo sollevò
nuovamente su di me, sorridendo sardonico.
Sussultai, così mosse un
passo nella mia direzione,
senza dire nulla, fissandomi in modo sinistro. Cacciò dalla
tasca dei pantaloni
un piccolo oggetto di legno, che identificai solo quando si
dispiegò in una
lama.
Respirai profondamente, sentendo
l’ansia crescere, e
la forzata tranquillità diradarsi velocemente. I suoi occhi
rimasero fissi nei
miei, mentre avanzava ancora, facendomi retrocedere. Il mio sguardo
saettò
nella stanza, mentre sentivo che il mio autocontrollo stava
deliberatamente
cedendo. Tutti i vampiri erano immobili. Persino Edward non pareva
particolarmente agitato, più che altro infastidito. Respirai
velocemente,
sentendo il fiato mancarmi. «Cosa… cosa sta
facendo…?» mormorai, attonita.
Si avvicinò ancora,
incedendo spavaldo, la lama
stretta nella mano.
Deglutii.
Che cosa aveva intenzione di fare?
Mi pareva assurdo e
surreale il repentino cambiamento del suo atteggiamento.
Mi volsi a Edward, sgomenta,
spaventata. Perché non mi
aiutava? Perché rimaneva fermo a fissarmi dispiaciuto?
Urtai con le gambe al materasso,
cadendo indietro con
la schiena, sollevandomi sugli avambracci per tentare di scappare. Mi
sembrava
di essere in dei miei peggiori incubi.
«Su Isabella, ti
farò male».
Angosciata, intrappolata, sollevai
istintivamente le
mani per proteggermi, mentre il suo braccio caricava il coltellino in
direzione
della mia pancia, e mentre la disperazione s’impossessava di
me.
Passarono diversi secondi, ma
l’inevitabile dolore che
mi aspettavo non arrivò. Sentii piuttosto una discreta
sensazione di
consistenza nelle mani. Aprii gli occhi, chiusi istintivamente di
fronte al
pericolo, e osservai attenta lo scenario che mi si presentò
dinanzi.
Philip era bloccato a mezzo metro
da me, fermo, col
braccio ancora alto, come se una bolla invisibile fosse frapposta fra
me e lui.
L’aveva fatto apposta. Mi aveva deliberatamente provocata per
scatenare una mia
reazione. E Edward lo sapeva.
Mi venne accanto in un istante,
abbracciandomi, riservandomi
un’occhiata di scuse.
Il professore si ricompose,
richiudendo con cura il
coltellino e allontanandomi.
Ancora agitata, scossa dalla paura
appena provata, chiusi
i palmi i due pugni e la bolla scomparve, non senza opporre una
discreta
resistenza.
«Interessante»
mormorò «è un resistente scudo
magnetico. Molto interessante».