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Autore: keska    21/03/2010    38 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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«Edward, devi… aiutare Phil» riuscii a farfugliare, stringendogli il volto fra le mani.

Mi occorsero pochi istanti per comprendere il mio errore.

Gli stessi istanti in cui, tremante, volsi le mie dita verso i miei occhi.

Completamente sporche di sangue.

Lo stesso sangue con cui avevo macchiato il viso rigido e pallidissimo di Edward, lo stesso che c’era sulle sue guance, sulle sue labbra.

Non mi aspettai null’altro che vedere i suoi occhi neri e sentire il ringhio cupo del suo petto.

 

«Edward». Il mormorio inconsapevole e sgomento, prodotto dalle mie labbra, mi giunse flebile e ovattato.

La pelle perfetta e bianca della sua guancia si tese, mentre le labbra scoprivano una fila perfetta di denti, l’arma letale pronta ad uccidere.

Sentii che l’adrenalina che in pochissimi istanti era stata spinta con forza nelle mie vene, aveva cancellato ogni annebbiamento e stordimento, rendendomi perfettamente lucida. Fin troppo cosciente della situazione. «Edward, Edward, ti prego» sussurrai a voce bassa, attenta a non farmi sentire da Phil.

Ma gli occhi di mio marito guardavano più avanti, alle mie spalle, fissi e neri. Mi rendevo conto dello sforzo in cui si stavano impegnando i suoi muscoli in quel momento. Se non avesse avuto l’autocontrollo che aveva, in quell’istante i miei palmi aperti avrebbero premuto contro il vuoto, mentre ai miei occhi si sarebbe offerto uno spettacolo mostruoso e orripilante.

Mi voltai per un istante, timorosa di perdere il contatto visivo con Edward, eppure convinta della necessità di tenere sottocontrollo la situazione. Phil si teneva il braccio con una mano, che aveva ragionevolmente messo nel lavandino. Un battito di ciglia, e notai il sangue. Per terra, nel lavandino, sul braccio. Era tanto.

Resistetti, deglutendo, al pugno che mi arrivò allo stomaco. Mi voltai ancora immediatamente verso mio marito, guardandolo negli occhi stregati e cercando di catturare il suo sguardo. «Edward, guardami, ti prego, guardami» continuai a voce bassa, sollevandomi sulle punte dei piedi per avvicinarmi al suo viso.

Le mani, aperte, spingevano contro il suo maglione chiaro. Sentii il suo petto premere contro i miei palmi. Si stava muovendo, stava vacillando. «Ti prego!» sussurrai con un tono leggermente più alto, sentendo il cuore incespicare e balbettare nel petto. Ancora una volta, fulmineamente, mi voltai a controllare dietro. Phil era troppo impegnato a bloccare il sangue e imprecare per accorgersi del pericolo che stava correndo.

Nuovamente gli occhi di mio marito si scontrarono con i miei. «Amore» provai, addolcendo il tono «amore, ti prego, ti prego. Torna in te…» lo supplicai, spingendolo con tutte le forze. Era come tentare di smuovere una piramide. «Ti prego, va via. Vai Edward, vai fuori, ti prego…».

Sentivo la pulsazione del mio cuore persino nelle dita, tese ad allontanarlo. «Amore, tu puoi farlo, puoi resistere se vuoi. Ti prego, ti prego, ce la fai Edward, puoi farlo». Speravo che le mie parole agitate fossero in qualche modo catturate dalla sua immensa mente, ma i suoi occhi continuavano ad essere lontani, e il suo petto tremava e vibrava sotto il suono dei ringhi.

«Edward!» provai più forte, serrando forte le palpebre e spingendo ancora con le mani, stringendo il suo maglione chiaro fra le dita, nei pugni.

Si piegò quasi impercettibilmente sulle ginocchia. Era pronto. Era pronto all’attacco, pronto ad uccidere, più nulla l’avrebbe fermato. Sentii una scossa elettrica estremamente dolorosa pervadere per tutta la sua lunghezza la mia spina dorsale. L’imminenza della catastrofe mi lasciava l’impronta dell’impossibilità nel corpo. Come se in realtà tutto quello fosse troppo assurdo per avvenire, come se fossi altro al di fuori di me, e stessi osservando la surreale scena.

La fine era vicina.

Tanto che quella parte al di fuori di me, quel dispettoso pezzettino d’anima, alzò un sopracciglio, incuriosito, quando accadde realmente l’impensabile.

Sotto i miei palmi aperti e tesi, c’erano diversi millimetri di vuoto, tanto di permettermi di notare l’impronta rossa che con le mani avevo lasciato sul cotone bianco.

Muovendomi istintivamente spinsi i palmi in avanti, e paradossalmente non fui quasi per nulla sorpresa comprendendo l’estrema facilità con cui riuscivo ad allontanare il suo petto, senza neppure realmente toccarlo, come se lo stessi spingendo con un invisibile cuscinetto d’aria.

E lo sentivo davvero sotto le mie dita, consistente, irradiarsi da dentro me.

Destabilizzata, sollevai lentamente lo sguardo verso il viso di mio marito. Mi stava guardando fisso negli occhi, e sul suo viso potei leggere la mia stessa espressione vuota e smarrita.

«Devi andare via» dissi neutra, automaticamente, senza pensarci. Non passò neppure un battito di ciglia, e sotto i miei palmi non vi fu più nulla. Voltai le mani ancora macchiate, tremanti, verso i miei occhi, osservandole sconvolta.

Dalla mia bocca uscì un respiro secco e veloce.

Poi, mi voltai rapidamente verso Phil, decisa. Afferrai un canovaccio e lo legai sul suo avambraccio, appena sopra la ferita, senza pensare al rosso, senza pensare all’odore, senza pensare al sangue. Valutai in un attimo la situazione. Era pallido. Serrai i denti, trattenni il respiro, guardai il polso. Non avevo certo una laurea in medicina, e nessuno sciocco attestato, ma la mia esperienza personale poteva bastare per decretare la serietà del taglio. Ci sarebbero voluti i punti, subito. Phil mi parlava, mi diceva qualcosa, ma decisi di escludere le sue parole recependo automaticamente che non si stava lamentando per il dolore, né mi stava dando informazioni utili per aiutarlo.

«Carlisle» dissi asciutta, non appena rispose al telefono. Mi bastarono poche parole per descrivere brevemente la situazione. Non far venire nessun altro. Manda Emmett e Jasper da Edward.

M’irrigidì quando Phil mi chiese di lui. Ovviamente aveva notato qualcosa, non era tanto annebbiato da non farlo. «È sensibile al sangue» risposi, in un tono tanto glaciale che non azzardò altre constatazioni. Lo aiutai a sedersi su una sedia. Gli sollevai le gambe e gli feci tenere il braccio alzato. Quando mi accertai di non poter fare nulla di più per lui afferrai il flacone della candeggina e la gettai direttamente sul pavimento e nel lavandino, coprendo l’odore nauseabondo. Pulii risoluta con uno straccio, attenta a non lasciare traccia di sangue.

Dopo aver riposto gli oggetti mi voltai ad osservare Phil. Mi fissava silenzioso. Sembrava, nonostante tutto, che se la cavasse piuttosto bene. Il carnato era chiaro, gli occhi un po’ disorientati, ma tuttavia attenti. La cucina era pulita. Ispezionai l’ambiente, facendo saettare gli occhi in tutti gli angoli, retrocedendo sempre più per ampliare il campo visivo.

Cozzai contro qualcosa. Il frigo. Mi lasciai scivolare con la schiena contro la superficie liscia, lasciando le gambe piegate e divaricate. Mi osservai la punta della pancia, la parte più alta, non pensando sostanzialmente a niente.

Quando Carlisle arrivò aveva un’espressione attenta, preparata, pronta ad affrontare la situazione. «Bella?».

Automaticamente indicai Phil, e la sua testa si volse verso di lui. Sentii solo la prima parte del loro discorso. Vidi Carlisle sedersi sulla sedia di fronte a quella di Phil, e aprire la sua borsa. Poi i miei occhi tornarono ad essere poco attenti, e la mia mente ancora vuota.

La prima cosa da cui la mia attenzione fu nuovamente catturata fu il battito del mio cuore. Mi accorsi che il battito stava cambiando, più debole e tranquillo. Non che prima avesse battuto veloce, piuttosto vigorosamente. Subito dopo sentii come se una patina di lucidità invisibile, che in quegli ultimi minuti mi aveva ricoperta, si stesse man mano ritirando, lasciandomi intorpidita. Sentii le dita delle mani addormentate, poi i piedi, la braccia, le gambe, finché il formicolio non si trasformò in un tremito.

In quel momento nacque l’urgenza di comprendere quello che era appena accaduto. Ma per quanto ne sentissi l’esigenza, mi risultava impossibile pensare coerentemente.

«Sì, me la cavo, mi sento solo un po’ debole. Piuttosto… Bella… sembra… strana».

Il mio viso schizzò in un attimo nella direzione di Phil, e Carlisle fece lo stesso, mandandomi un’occhiata consapevole, per poi ritornare immediatamente al suo lavoro di ago e filo. «Bella, stai bene?».

«Sì» mormorai, incapace in ogni caso di muovermi da quell’innaturale posizione che avevo assunto. Le ginocchia piegate e strette, almeno quanto lo permetteva la piccola pancia.

«Perché non ti vai a stendere un po’ di là, nel soggiorno?».

Non risposi, deglutii. Le mani, l’impronta, il vuoto. L’avevo spinto via. Spinto via senza toccarlo, con le mani, lasciando l’impronta. I miei pensieri erano stretti in un dedalo assai contorto, senza nessun filo d’Arianna capace di farmene venire a capo.

«…Ho trovato la porta aperta e… ehi, ma cos’è quest’odore?! Phil!». Mia madre si precipitò accanto al marito, prendendogli la mano illesa fra le sue. «Cos’è successo?» chiese allarmata.

Carlisle la rassicurò, risoluto. «Devo solo finire il bendaggio, si è tagliato con un bicchiere, va tutto bene. Dopo andrà al pronto soccorso. Non è niente di troppo grave, ha perso un po’ di sangue, ma fortunatamente non ha reciso l’arteria e non ci sono danni permanenti».

Vedevo le cose come un pesce rosso rinchiuso nella sua boccia. Le parole rimbombavano, le immagini erano distorte. Ripensai al flusso di energia che pochi minuti prima si era irradiato dal mio ventre alle mani.

Gli occhi di mia madre temporeggiarono, preoccupati, passando dal marito a Carlisle. Era stato sufficientemente convincente.

«Sto bene tesoro». Phil sorrise, a suffragio di quanto appena detto dal medico.

Poi, lo sguardo di Reneè saettò su di me, e proprio in quel momento si accorse della mia presenza. «Bella!» esclamò, venendomi subito accanto. «Piccola, va tutto bene?» chiese, accarezzandomi il viso, ma non rompendo la bolla in cui ero rinchiusa.

«Accompagnala nel soggiorno Reneè, falla stendere» suggerì Carlisle.

Mia madre mi guardò apprensiva, mettendomi un braccio attorno alla schiena e aiutandomi ad alzarmi. Sentivo il calore della sua pelle, l’odore del profumo di fiori, sensazioni sensoriali futili che mi distraevano completamente da qualsiasi altro pensiero. Il formicolio non aveva smesso di pervadere i miei muscoli, tanto meno quando il sangue tornò a circolare liberamente nelle gambe, e prepotentemente verso la testa, facendomi perdere l’equilibrio appena dopo due passi.

«Bella, tesoro!» esclamò Reneè, affaticata dallo sforzo di tenermi stretta a sé.

Durò pochi secondi, e Carlisle venne subito in suo soccorso. «Porta Phil in ospedale, lo sapranno aiutare. Ci penso io a lei» tono caldo, rassicurante. Sentii le parole tremanti di mia madre, un grazie.

Carlisle mi sollevò, prendendomi fra le braccia e portandomi sul letto. La testa mi girava un po’, e tutti i muscoli delle braccia, delle gambe, non avevano smesso di tremare.

Mi depose sul copriletto, osservandomi, passandomi una mano fredda sulla testa. Mi lamentai della testa che girava, del tremore alle mani.

Eppure, non potevo fare a meno di pensare a quella singolare sensazione che avevo provato. L’irradiarsi dell’energia, il controllo di qualcosa di invisibile.

«Respira tranquilla. Apri e chiudi le mani, ci riesci?».

Annuii, respirando piano, rispondendo alle mani di Carlisle, strette alle mie. Sbattei le palpebre, nell’ultimo tentativo di smettere di pensare a quell’affascinante effluvio di potere. «Devo parlarti».

 

Edward

 

Era successo tutto così velocemente che ne avevo ancora in mente la precisa traccia. Saltai agevolmente da un ramo a quello più basso, lasciando andare l’ennesima carcassa. Ero abbastanza controllato, ormai.

«Vuoi tornare?».

Annuii ai pensieri di Emmett, e ricominciai a correre velocemente fra i rami e gli alberi, in direzione di casa, verso Bella, verso la bambina.

Ripensai ancora una volta a quello che era accaduto. Avevo immediatamente avvertito che qualcosa non andava, prima ancora di percepire il sentore di sangue. Bella era spaventata, e certamente indebolita dalla presenza di quella sostanza che per me era come un nettare.

Chiusi gli occhi, scuotendo il capo. Non mi serviva la vista per continuare a correre senza incappare in alcun ostacolo. Ero stato sul punto di ucciderlo. Il mio autocontrollo non mi aveva mai tradito, ma era bastata una sola goccia di sangue, sentire il suo sapore dopo tanto tempo, osservare il suo colore provocante, la voluttuosa umidità…

Jasper mi fu subito accanto, percependo il mutamento nel mio stato d’animo. «Edward, sei sicuro di voler tornare?».

«Sì».

E poi, tutto il resto. Una distrazione, tanto grande da farmi distogliere lo sguardo, ascoltare e dar retta alle parole di mia moglie, le uniche che potevano avermi fatto temporeggiare e che continuavano a rimbombarmi nella testa. Lo avevo letto nei suoi occhi grandi e smarriti, non sapeva neppure lei cosa stava accedendo. Avevo sentito qualcosa di diverso nei pensieri della piccola, un’esplosione potente e un senso di beato potere.

Quando arrivai in casa, mio padre stava uscendo dalla nostra camera da letto, il suo odore proveniva da lì. Lo osservai allarmato, preoccupato di quello che poteva essere accaduto a mia moglie. «Sta tranquillo, sta bene» mi rassicurò immediatamente. «Si è solo agitata molto, Esme è con lei, sta bene» ribadì, informando anche Alice e Rosalie, in piedi alle mie spalle. Mi guardò comprensivo, mettendomi una mano sulla spalla. Sapeva che sarei voluto andare immediatamente da lei. «Permettimi di rubarti due minuti figliolo» pensò, guidandomi nello studio.

A malincuore lo seguì, fidandomi di lui.

«Come sta?» chiesi, ansioso di avere ben più profonde rassicurazioni.

«È stata molto brava, mi ha chiamato, ha aiutato Phil. Anche lui sta bene. Si è spaventata molto, anche, ma è stata all’altezza della situazione. L’agitazione non giova certo al suo stato».

Abbassai il capo, pensando a come, al contrario, non fossi stato all’altezza della situazione. Non riuscivo a guardare mio padre senza pensare di averlo deluso. Meritavo la comprensione di un essere così compassionevole?

«Edward» sussurrò, venendomi accanto in un istante, abbastanza da far percepire tutti i suoi spostamenti ai miei occhi, «sei stato bravo. Sei stato un ottimo figlio per me».

Corrugai le sopracciglia, irrigidendo la mascella.

Gli occhi di Carlisle cercarono i miei. «Ricorda, non importa che tu abbia vacillato. L’importante è che tu sia riuscito a temperare te stesso. La prossima volta sarai più forte… In pochi avrebbero resistito ad una tentazione del genere».

Scossi il capo, afflitto. «Mi dispiace».

Mi posò una mano sulla spalla, e sentii nei suoi pensieri l’esplicito e sincero desiderio di confortarmi, di farmi comprendere quanto fosse orgoglioso e nient’affatto deluso da me.

«Pensi che stia bene?». Si morse le labbra. «E se Emmett e Jasper non l’avessero trovato?». I pensieri di mia madre arrivarono contemporanei al suono delle parole di Bella.

«Mia moglie ha bisogno di me».

Carlisle annuì, fissandomi serio. «Certo, vai, parleremo dopo di quello che è accaduto» compresi che Bella doveva avergli parlato di come era riuscita a spingermi via. «Philip dovrà darci delle risposte questa volta. Lo farà».

Già, il professor Philip. Quell’uomo doveva restare ancora in fondo ai miei pensieri.

Mi avvicinai alla porta. Temporeggiai, volgendomi verso Carlisle, sentendomi in dovere di pronunciare quell’ultima parola. «Grazie».

Fece un cenno con la testa, aprendosi in un piccolo sorriso. «Di nulla figliolo, di nulla».

Aprii la porta della camera, attento a causare il minimo rumore. La trovai stesa sul letto, la schiena poggiata su un muro di diversi cuscini, addossati alla testiera. Era avvolta in una coperta, lo sguardo lontano, in un’altra direzione. Aveva quegli adorabili nastrini rossi a sollevarle i capelli da ambo i lati, facendoli poi ricrede lunghi sulle spalle, sul petto.

Sussultò, quando si accorse di me, quando entrai nel suo campo visivo. «Edward» mormorò sollevata, e le guance le si colorarono appena di un rosso tenue.

Le presi le manine piccole e bianche fra le mie, ora completamente terse e linde, portandole alle labbra e baciandone le piccole dita. Seguì i miei movimenti con i suoi occhi liquidi, la piccola bocca rossa lievemente dischiusa. «Come stai?» le chiesi, fissandola negli occhi.

Annuì, sfiorandomi lo zigomo con il palmo della mano. «Va tutto bene?». La capacità di preoccuparsi per gli altri oltre ogni misura, e fare l’esatto contrario per sé stessa, era qualcosa di radicato profondamente in lei.

«Certo, va tutto bene» la rassicurai. Stronfiò le gambe, coperte dalle calze avorio, trapuntate, l’una contro l’altra. Avvolsi anche quelle nella coperta, proteggendola dal freddo, e insinuai una mano sul suo grembo, posando il capo sul suo petto florido. Avvertii nei pensieri della bambina un movimento.

Ero titubante e mi muovevo con cautela, saggiando lo stato d’animo di mia moglie. Avevo paura che questo potesse essere un altro destabilizzante colpo al suo fragile equilibrio. La strinsi a me, accarezzandola. Morbida, calda…

«Non l’ho solo immaginato, vero, Edward?» chiese, continuando ad accarezzarmi i capelli.

Il suo tono, pur controllato, pareva tranquillo. Scossi il capo sul suo petto, sollevando poi il capo e guardandola negli occhi. Mi stesi accanto a lei, stringendola a me. Volevo necessariamente sapere qualcosa di più, ma stavo camminando su un mucchio di cristallo. Poche volte mi ero trovato così in difficoltà con mia moglie. «Come… come è stato?» chiesi, tremante, attento a commisurare con delicatezza le parole. Abbassai il tono, rendendolo istintivamente suadente. «Ti ha fatto male?».

Scosse velocemente la testa, facendo ricadere le piccole ciocche di capelli qua e là. Era arrossita. «No, Edward, te lo giuro» disse velocemente, ansiosa, lo sapevo, di convincermi.

Le credetti, non perché mi fidassi del suo stoicismo, ma perché sapevo perfettamente che Bella non era in grado di mentire. Non a me, a maggior ragione. Tentai di comprendere in che misura potesse averla turbata tutto quello che era successo.

Ma prima che potessi parlare, mi precedette. «Perché l’ha fatto?» chiese curiosa, «intendo… secondo te, perché la bambina lo ha fatto? Perché è stata lei, ne sono certa» mormorò, accarezzandosi il ventre gonfio.

Misi la mia mano sulla sua, e la accarezzai anch’io. «È vero. Ho sentito i suoi pensieri».

«Davvero?» chiese, voltandosi di scatto nella mia direzione e smettendo di accarezzare. Boccheggiò lievemente, poi deglutì e riprese. «Io… anch’io l’ho sentita, sai? Ho sentito lei, e poi… tutta quell’energia…».

Aspettai che concludesse la frase, osservandola attento. Non sembrava particolarmente scossa, più che altro sembrava quasi… orgogliosa. Come la madre che osserva il bambino pronunciare la sua prima parola.

«È stata brava» aggiunse fiera, confermando la mia teoria, «ci ha aiutato. Ha sentito che eravamo in pericolo e ci ha aiutato. Se non ci fosse stata lei…».

M’irrigidì, colpito.

Anche lei si bloccò, pentita forse delle sue parole. «Edward, io, mi dispiace» farfugliò, rossa in viso, «tu sei così bravo che io tendo a dimenticare la tua natura e» deglutì «oh, se non fossi stata così avventata, se non ti avessi toccato».

Le misi un dito sulle labbra. Come poteva, come, sentirsi in colpa di una cosa di cui io ero l’unico reo? «Eri completamente frastornata. Se non fosse stato per colpa mia, non sarebbe mai accaduto nulla. Bella. Ti prego. Non fare quella faccia» dissi serio, commentando la sua occhiata scocciata. Distolsi lo sguardo. Avevo la paura costante, non ancora abbandonata, delle ripercussioni che quell’evento avrebbero potuto portare sull’andamento sereno delle nostre vite.

«Edward» mi chiamò, distogliendomi dal rapido corso dei miei pensieri «non essere così apprensivo» affermò, e mi sorprese l’intuito con cui aveva percepito le mie intenzioni. Prese la mia mano fra le sue, intrecciandole. «Voglio che affrontiamo questa cosa insieme, con calma. Non può essere così terribile, no?». Mi sorrise, timida, fiduciosa.

Le sorrisi di rimando, ancora attento.

«Abbiamo affrontato di peggio. Dobbiamo solo capire cosa accade e perché. Ce la possiamo fare» il fervore con cui pronunciava le parole non scaturiva solo dal valore auto-persuasivo che avevano. Doveva averci rimuginato a lungo.

La strinsi a me, accarezzandole i capelli. «Il professor Philip ci aiuterà».

La sentii rabbrividire. Strinse le mani sulla mia camicia, unico indumento che ancora rimaneva a coprirmi, dopo che avevo buttato via il maglione sporco. Non che sentissi freddo. Strofinò il viso sul mio petto, così la strinsi di più a me. Sapevo che odiava quell’uomo. Non volevo metterla continuamente in questo genere di difficoltà, ma diventava ogni giorno più necessario.

«Sì» mormorò, infine, «credo proprio che lo farà».

Le sorrisi di rimando, ringraziandola, perché per l’ennesima volta era stata lei a rassicurare me.

 

Phil e Reneè tornarono un’ora dopo, e fortunatamente in buona salute. Non mi allarmai particolarmente per i pensieri di Phil, tutti piuttosto tranquilli, e mai sospettosi nei miei confronti. Era abbastanza persuaso del fatto di essere molto confuso, quindi evitò di fare e porsi domande.

Ero stato così vicino a far scoprire il nostro segreto…

Fui contento del fatto che Bella fosse riuscita a reinstaurare quel magnifico rapporto che aveva sempre avuto con la madre.

Quella sera stessa, prima di andare a dormire, mi aveva chiamato, prendendo le mie mani fra le sue e guardandomi piena di determinazione. Mi faceva così tanta tenerezza in quei momenti, in cui la sua espressione diventava crucciata e dolcemente buffa. «Edward, ho pensato ad una cosa» cominciò seria, in piedi davanti a me. Mi aveva fatto sedere sul bordo del letto. «Dobbiamo giocarci bene la carta del professor Philip, è la nostra unica opportunità, lo sai».

Annuii, seppur riluttante. Non aveva limiti la sfacciataggine di quell’uomo. Ma era la nostra unica fonte di conoscenza, l’unico modo per tenere sotto controllo la bambina e la gravidanza. Eppure fui sorpreso di sentire quelle parole pronunciate da mia moglie.

Bella portò la mano che avevo intrecciato alla sua sulla pancia. Potevo sentire la sensazione fredda della membrana che avvolgeva la placenta, appena sotto la bella sottana di cotone bianco, che cadeva liscia sulle sue forme, accentuandole. Avevamo ridotto il problema di sua madre, che pure non si era astenuta in carezze nei confronti della piccola, con l’uso di stoffe spesse e pancere protettive.

«Edward» mi richiamò, arrossendo lievemente «ci ho riflettuto. Penso che abbiamo un’unica opportunità. Dovrò parlargli io» affermò convinta.

Fui stupito da quell’affermazione. Doveva averci pensato a lungo. Così il suo strano atteggiamento non era dovuto solo al timore che provava per Philip, ma anche da quel ragionamento che stava maturando. Avevo sempre ritenuto che mia moglie possedesse spiccate capacità di perspicacia.

Per tutta la notte ebbi l’occasione di osservarla, pensando a quello che era accaduto, pensando a quello che mi aveva detto. Ne accarezzai i capelli bruni, il ventre gonfio, e strofinai il dorso delle mani perlacee. Era riuscita a spingermi via con le mani senza neppure toccarmi. Necessariamente doveva essere qualcosa che derivava dalla bambina, o al più dalla gravidanza, ma mille interrogativi imperversavano nella mia mente, e contemporaneamente mille ipotesi e teorie si sviluppavano.

C’era un solo modo per scoprire la verità. Aveva ragione Bella, lei era l’unica che poteva farsela rivelare. Lo sapevo, perché l’avevo letto nei pensieri di quell’uomo.

 

Bella

 

Guardai senza paura l’uomo che mi era di fronte.

Quella mattina mi ero alzata carica di energie, e soprattutto ben decisa e determinata. Mi ero guardata allo specchio, esaminato la pancia in continua crescita, e avevo imposto a me stessa di fare senza remore quello che stavo facendo.

«Quindi vorrei che mi dicesse quello che è successo. E vorrei che me lo spiegasse, e che lo spiegasse anche a mio marito, e ai presenti». Il cuore batté più forte, ma io lo ignorai.

Il professor Philip arcuò un sopracciglio, perplesso e stranamente titubante. E non lo era perché cinque vampiri erano insieme a noi nella mia camera da letto, affatto. Semplicemente perché avevo deciso che non potevo più aspettare e cadere ancora una volta sotto il suo ascendente. Ero sicura, tranquilla. L’ansia che provavo nei suoi confronti chiusa in un casettino, seppur rumoroso, della mia mente, con una chiave che indicava “per mia figlia”.

Mi ero alzata determinata, dunque, e subito dopo aver mandato via mia madre e Phil, in bella compagnia di Esme e Rosalie, avevo fatto chiamare il professore. E poiché sapevo che una richiesta da parte di Edward o un qualsiasi altro vampiro non sarebbe stata fruttifera, avevo deciso di intervenire personalmente, come avevo chiesto la sera prima a mio marito.

«Certo, Isabella».

Non potei evitare di emettere un piccolo sospiro di sollievo, sollievo palese su tutti i volti dei vampiri al mio fianco, in particolar modo di Jasper, che da subito aveva appoggiato la mia idea. Malgrado la determinazione con cui mi ero presentata, non ero del tutto certa che le mie parole potessero avere alcun effetto. Ci speravo però, ci speravo ardentemente. Diverso era per Edward, che sembrava, seppur riluttante ad attuarlo, convinto dell’efficacia del mio piano.

«La bambina ha semplicemente manifestato i suoi poteri. È normale che inizi a farlo in questo periodo».

Lo ascoltai attenta, e come me anche Edward, appena al mio fianco. Dovevo immaginare che come tutti gli altri vampiri, e mezzi, dato quanto sapevo di Caterina Barbarigo, anche mia figlia avesse delle doti extra. In effetti era stata una delle possibili ipotesi che avevo vagliato. L’interessante era rendermi conto che la bambina riuscisse a manifestare il suo potere anche attraverso me.

«Cosa comporterà?» chiese Jasper. Il mio sguardo saettò fra lui e il professor Philip, che s’irrigidì in un istante.

Ci furono alcuni secondi di silenzio, in cui pensai che non avrebbe mai risposto. Poi, però, si voltò nuovamente verso di me. «Hai un esame con me fra due settimane, non è così, Isabella?».

Annuii.

«In quell’occasione ti consegnerò un tomo in cui potrete avere tutte le informazioni che cercate, senza chiamarmi per ogni singola, insignificante scoperta» fece schioccare la lingua con disprezzo, fissando i vampiri.

Presi un piccolo respiro, strinsi convulsamente la mano di Edward, stretta alla mia. «Che cos’è questo potere?».

Il professore mi fissò cauto, tranquillo. «Cosa ha fatto, di preciso?» chiese attento, assottigliando lo sguardo.

Mi concessi di fare un passo avanti, rilassata, sicura di lasciare mio marito appena dietro di me, e rispiegai con più attenzione quello che era avvenuto il giorno precedente.

Esitò, titubante. Abbassò lo sguardo, e lo sollevò nuovamente su di me, sorridendo sardonico.

Sussultai, così mosse un passo nella mia direzione, senza dire nulla, fissandomi in modo sinistro. Cacciò dalla tasca dei pantaloni un piccolo oggetto di legno, che identificai solo quando si dispiegò in una lama.

Respirai profondamente, sentendo l’ansia crescere, e la forzata tranquillità diradarsi velocemente. I suoi occhi rimasero fissi nei miei, mentre avanzava ancora, facendomi retrocedere. Il mio sguardo saettò nella stanza, mentre sentivo che il mio autocontrollo stava deliberatamente cedendo. Tutti i vampiri erano immobili. Persino Edward non pareva particolarmente agitato, più che altro infastidito. Respirai velocemente, sentendo il fiato mancarmi. «Cosa… cosa sta facendo…?» mormorai, attonita.

Si avvicinò ancora, incedendo spavaldo, la lama stretta nella mano.

Deglutii.

Che cosa aveva intenzione di fare? Mi pareva assurdo e surreale il repentino cambiamento del suo atteggiamento.

Mi volsi a Edward, sgomenta, spaventata. Perché non mi aiutava? Perché rimaneva fermo a fissarmi dispiaciuto?

Urtai con le gambe al materasso, cadendo indietro con la schiena, sollevandomi sugli avambracci per tentare di scappare. Mi sembrava di essere in dei miei peggiori incubi.

«Su Isabella, ti farò male».

Angosciata, intrappolata, sollevai istintivamente le mani per proteggermi, mentre il suo braccio caricava il coltellino in direzione della mia pancia, e mentre la disperazione s’impossessava di me.

Passarono diversi secondi, ma l’inevitabile dolore che mi aspettavo non arrivò. Sentii piuttosto una discreta sensazione di consistenza nelle mani. Aprii gli occhi, chiusi istintivamente di fronte al pericolo, e osservai attenta lo scenario che mi si presentò dinanzi.

Philip era bloccato a mezzo metro da me, fermo, col braccio ancora alto, come se una bolla invisibile fosse frapposta fra me e lui. L’aveva fatto apposta. Mi aveva deliberatamente provocata per scatenare una mia reazione. E Edward lo sapeva.

Mi venne accanto in un istante, abbracciandomi, riservandomi un’occhiata di scuse.

Il professore si ricompose, richiudendo con cura il coltellino e allontanandomi.

Ancora agitata, scossa dalla paura appena provata, chiusi i palmi i due pugni e la bolla scomparve, non senza opporre una discreta resistenza.

«Interessante» mormorò «è un resistente scudo magnetico. Molto interessante».

   
 
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