Under the same sky
Primo Capitolo.
Quel
giorno Sakura si era svegliata con uno strano presentimento,
probabilmente dovuto ai tetri spettri della notte; si era alzata con
un mal di testa a tratti violento,
ma cercò di non dar troppa
importanza a quella leggera emicrania, non in quel momento. Aveva
riposato un paio d'ore o poco più, il tempo concessole per
far
distendere bene i muscoli indolenziti e lasciar assorbire il dolore
provocatole in battaglia. Non vi era da stupirsi, poi, se
improvvisamente fossero scattati colpi a
vuoto o fossero ruotati
kunai e shuriken. Era tempo di stare allerta, quello, Sakura questo
lo rammentava bene. Dunque, quando aprì le palpebre e
realizzò di
trovarsi
ancora sul suolo erboso, a pochi metri di distanza dal fuoco
ormai spento, fece un gran sospiro di sollievo. Le iridi smeraldine
volsero al cielo plumbeo,
parzialmente annebbiato. S'intravedeva una
fitta foschia da un lato, dove si era prossimi alle montagne, mentre
dall'altro c'era ancora un barlume
limpido – di
speranza?
«Sakura-chan...»
Un
tono basso e non troppo rumoroso la fece scattare, conosceva solo una
persona a cui era concesso chiamarla in quel modo e la ragazza
incontrò il suo sorriso bonario proprio a pochi metri da
lei,
parallelamente al suo volto.
Quello sciocco le stava coprendo la
vista d'una nuvola, come al solito non sapeva stare al proprio posto.
«Mi togli l'aria, baka.»
Bastò
quella semplice frase, tagliente e affilata come una lama, a farlo
capitolare.
Il sorriso cristallino che aveva intravisto tra una
guancia e l'altra si rabbuiò poco a poco, fino a spegnersi
lentamente.
Sakura
scosse il capo, con una certa fermezza, acconciandosi i capelli in
modo quanto meno decente; sentì solo allora una pioggerella,
aghi
che
puntavano dritti alla sua pelle, anch'essi taglienti.
Cominciò
a pensare che quella zona fosse una congiura, tutto sembrava volger
contro, il pericolo di morte s'odorava, si sentiva, si avvicinava
con
qualche astruso strumento in loro direzione. Ed era cosa risaputa:
l'unica cosa che un essere umano non poteva fare a meno di fermare
era il proprio destino.
Egli,
in qualche modo imparentato con la dea Morte, qualificato dunque a
condannare gli uomini giusti – perché era
così che funzionava,
ormai, nel mondo –
e portare fortuna a coloro che son ricchi per
meriti non propri, avari però di bontà.
E, sulla base di quelle nuove scoperte, Sakura si trovò a fare i conti con la realtà, capendo d'un tratto quanto la vita fosse ingiusta, per certi versi.
«Ormai è quasi ora.»
Bisbigliò Naruto, in tono imperioso.
Sakura
lo precedette, dopo essersi curata di aver preso tutto l'occorrente.
Stava quasi per procedere in avanti – lo sguardo
incendiato, quasi
sapesse quello che le sarebbe spettato – e il capo rivolto
verso
l'alto; Naruto si fermò qualche istante ad osservare
l'espressione
dell'amica,
non l'aveva mai vista così sicura. Qualcosa,
però,
frenò il braccio di Sakura, un contatto freddo a primo
acchito.
Naruto le aveva bloccato il braccio, una morsa stretta quanto bastava
a farle bloccare l'intera circolazione sanguigna.
«Cosa c'è?»
Disse
lei, quasi infastidita da quel gesto. Non si potevano permettere di
perdere tempo, in nessun modo possibile: era tempo di guerra,
quello,
le emozioni e i sentimenti non erano adatti ad uno scenario
così
macabro.
«Questa potrebbe essere l'ultima volta che ci vediamo... Sakura-chan.»
Il
ragazzo chinò il capo, palesando una certa insofferenza.
Sakura
allora, con leggerezza estrema, gli prese anche l'altro
braccio,
fino
ad arrivare alla sua mano e a sovrapporla alla propria.
«Potrebbe...» proferì, con amarezza. «... ma questo non vuol dire che dovrebbe.»
Gli occhi cerulei di Naruto si specchiarono nei suoi cercando un abbraccio, una carezza, un qualsiasi gesto che avesse dell'affettuoso.
«Non
guardarmi così, Sakura-chan. Ti prego.» ritrasse
lo sguardo il
ragazzo, affascinato o forse infastidito dal gesto che gli era stato
riservato.
«Se il fatto che ti
amo – lo sai, ormai
–
conta qualcosa, non guardarmi così.»
Proprio
qualche giorno prima Naruto le si era dichiarato.
Sakura aveva
sospettato negli ultimi tempi qualcosa, ma non aveva pensato di certo
ad una prova d'amore così, servita su un piatto
d'argento.
Quella
sera aveva cercato di sfuggire dallo sguardo indagatore e innamorato
dell'amico, ma alla fine aveva dovuto fare i conti con il
cuore,
chiedendosi quale fosse la risposta. E, con enorme rammarico, dovette
convenire dandosi della stupida: cosa desiderava di
più?
Poteva
avere un ragazzo – un vero ragazzo e non un sogno, come lo
era
ormai da anni l'altro
– e si era lasciata sfuggire
l'occasione.
Con una sola parola – Sasuke
– aveva visto il
fiore della giovinezza che disegnava i suoi lineamenti appassire,
tramutandosi in un serio e cupo sguardo.
Le doleva ancora, ma,
dopotutto, come poteva ingannarsi e ingannarlo? Ingannare gli altri
equivale ad ingannare se stessi, assomiglia un po' ad
un omicidio, in
quanto, quando lo si commette si conosce il colpevole, ma anche la
vittima.
La
cosa che le faceva più male era essere il colpevole...
Colpevole
mille volte! Naruto l'amava, la stimava, la considerava in un modo
che Sasuke non
si sarebbe nemmeno sognato di pensare, la desiderava
non solo come un uomo innamorato, bensì come colui che
venerava una
divinità,
in piena contemplazione dell'eterna e immutabile bellezza
interiore ed esteriore che possedeva.
Perché?
– si domandava di notte, torcendosi in mille pensieri,
soffrendo
quando il pensiero di colui che era stato il primo amore, ma
anche
l'amore attuale, la disturbava.
Allora
le certezze venivano meno, i dissidi interiori erano all'ordine del
giorno. La sensibilità di un cuore innamorato è
tanto fragile
quanto duro:
più si rafforza, tanto più si frantuma, nel giro
di
un millesimo di secondo. Serviva a quello innamorarsi? – si
chiedeva abitualmente, tra una lacrima
e un sorriso di cartapesta per
attenuare il dolore.
Giurare
eterno riposo al proprio cuore non era un bel modo di andare avanti,
anzi, più soffriva più tornava indietro con la
memoria,
ripescando
ricordanze che sembravano sepolte.
«Perdonami,
Naruto.» bisbigliò Sakura, incespicando in qualche
lacrima
assassina. «Perdonami come ad un'assassina si potrebbe
perdonare un
reato,
perché quello che amo merita davvero di esser
punito.»
D'un
tratto non sentì più la stretta amica, Naruto
l'aveva lasciata
andare. Vide solamente il suo sguardo perduto, assente, forse piccato
nell'animo.
Un sorriso mesto indugiò con amarezza sulle sue labbra,
ormai denigrate in ogni maniera possibile.
Sakura
non lo vide più: una folata di vento investì
armonicamente i suoi
capelli, poi, più nulla.
Una lacrima giustiziò indegnamente il suo
zigomo, solitaria e crudele come solo l'amarezza sa esserlo.
Sakura
si alzò poco a poco, con le mani piuttosto doloranti. Le
ginocchia
le chiedevano pietà, date le numerose ferite che l'avevano
costretta
più volte
a cadere, sottomettendosi al dolore. I due occhi smeraldo
cercarono la figura di Tsunade-Sama, di Yamato-Sensei, di
Kakashi-Sensei... Persino di Naruto
– l'aveva immaginato gettarsi
in pista con il suo solito fare brioso, completamente estraneo alla
razionalità – ma non fu tentata di pronunciare i
loro nomi
ad alta
voce, quell'inquietante silenzio stava seriamente mettendo a dura
prova il suo coraggio. Faticò ad ergersi in piedi,
all'iniziò
ciondolò un po', ma
si mantenne ad una roccia nei paraggi. Quando si
sentì abbastanza sicura abbandonò anche quella
presa, ma, con suo
rammarico, lo spettacolo che vide non
gli piacque affatto: dalle sue
mani colava un liquido vermiglio, quasi inorridì
osservandolo.
Durante
la sua vita da medic-ninja aveva visto tante persone morire, aveva
pregato fino all'ultimo che il loro sangue fosse risparmiato,
trattenendolo addirittura
sulle sue mani quando le era possibile. Ma,
quella volta, quel sangue non era solo rosso, bensì anche
nero e
sembrava volerle dire qualcosa, come ad avvisarla
di uno spettacolo a
cui non era stata invitata, men che meno ne aveva preso parte.
E,
spostando lo sguardo oltre la semplice visuale delle proprie mani,
vide una serie di corpi martoriati e gettati insieme, uno sopra
l'altro,
quasi fossero un castello di anime ormai andate in pezzi,
uno scenario in cui il rosso era l'unico dolore che predominava.
Le
parve addirittura di vedere le loro anime salire verso l'alto e i
loro sguardi sorriderle per un'ultima volta. Erano davvero morti
tutti?
I suoi insegnanti, suoi mentori, sue guide, li vedeva li uni
accanto agli altri, nei loro volti la vita si era spenta e
ciò che
ne restava era solo il ricordo,
delle leggende che presto o tardi si
sarebbero tramandate, di padre in figlio, generazione dopo
generazione.
Tutti
i suoi amici, ogni cosa, ogni costruzione, persino i dettagli di
Konoha che fino ad allora aveva odiato, tutto era stato distrutto e,
in quel momento,
vide solo macerie a terra, camminava e calpestava il
Villaggio sotto di lei, ben attenta a non pestare l'orgoglio dei
ninja che avevano dato la vita per difenderla.
Poi,
mentre s'addentrava con passo lento e cadenzato nella foresta delle
anime, qualcosa attirò in particolar attenzione il suo
sguardo:
Sasuke Uchiha,
la lama impugnata con orgoglio da una parte e la
vittoria in tasca dall'altra, agiva in religioso silenzio, uccidendo
gli ultimi respiri degli abitanti di
Konoha, proprio sotto di lui.
La
ragazza strinse i pugni con forza, talmente tanto che le nocche
parvero arrossarsi anch'esse di rabbia, i suoi occhi dapprima
piangenti, frastornati dal macabro
spettacolo che aveva veduto senza
il minimo rispetto per quella popolazione che le aveva dato tanto,
ora brillavano di un colore estraneo al suo volto, un misto
tra il
rosso più acceso e il nero più cupo.
«Sasuke Uchiha»
Lo
chiamò ad alta voce, sperando di aver attirato la sua
attenzione;
così fu, perché un istante dopo vide il corpo del
ragazzo dirigersi
in sua direzione,
leggermente sbigottito. Non credeva davvero che
quell'inutile ragazza avrebbe mantenuto la pelle fino a quel
punto.
Per un buon minuto i loro sguardi si scontrarono, travolti da un
tripudio di emozioni, di parole dette e non dette, di silenzi che
precedevano un aspro scontro.
Addio sentimenti – proferì a bassa voce, pronta come una leonessa in battaglia a dare il massimo di sé.