Chapitre 11
La lezione di canto
Quello che
sto per
scrivere non uscirà mai dalle mie labbra – non ne
avrò il coraggio.
Ma ho
bisogno di
sfogarmi, e l’unica cosa che posso fare è
scrivere. Sento una strana affinità
con la piuma che graffia il foglio e sulle parole che prendono vita su
questa
pagina bianca, come se non fosse la prima volta che ricorro ad una
sorta di
diario per aprire la mia anima… Anche l’odore
pungente dell’inchiostro fresco
mi è amico. Che siano residui del passato che ho scordato?
Quando ho
chiesto a
Meg se aveva dei fogli e qualcosa per scrivere, mi ha osservato stupita ed incuriosita insieme, ma
grazie al Cielo
non ha posto domande alle quali non avrei saputo cosa rispondere.
Perché hai
bisogno di un diario? Credo che mi avrebbe risposto così se
glielo avessi
detto. Puoi confidarti con me per ogni cosa, chèrie!
Ma il fatto
è che
non posso, Meg, non posso!
Ho paura
che
le
lacrime possano colare sulla pagina e sciogliere
l’inchiostro, perciò mi mordo
il labbro e le ingoio silenziosamente, osservando di tanto in tanto la
candela
che si consuma lentamente. Ho tutto il tempo necessario per scrivere, e
nessuno
verrà a distubarmi – ormai dormono tutti.
Ah, la mia
mano
trema… Ho ancora paura che Lui possa venire da me, come ieri
sera, e scoprire
che affido le memorie della nostra prima lezione a queste pagine, che
forse
farei meglio a bruciare. Ma non mi importa: ho bisogno di scrivere ogni
cosa.
Questa
mattina mi
sono svegliata molto prima del solito – in realtà
non sono riuscita a chiudere
occhio la notte scorsa, così non ho fatto altro che alzarmi
dal letto non
appena la luce del sole è penetrata nella mia stanza. Mi
sono lavata con
l’acqua gelida come se questo avesse potuto rinforzarmi, e
appena ho sentito
Agnese scendere le scale per andare in cucina mi sono precipitata
dietro di lei
per aiutarla con la colazione. Ho visto che sembrava sorpresa della mia
mattiniera presenza in sala da pranzo, ma è una signora
troppo discreta per
porgere delle domande al riguardo.
Ciò
che temevo davvero
era madame Giry, ma quando è entrata in cucina, seguita
dalla figlia, si è
limitata a dedicarmi uno sgaurdo neutro che non ha preceduto nessun
genere di
interrogatorio: mi ha semplicemente augurato il buongiorno, senza
aggiungere
nient’altro. Meglio così.
Ho dovuto
domandare
a Meg di aiutarmi con l’abito, perché le mani mi
tremavano troppo per riuscire
ad agganciare i bottoni del corpetto senza fare un disastro, e credo
che si sia
dovuta mordere la lingua fino a farla sanguinare per evitare di
indagare sulle
mie condizioni. Io per prima mi sarei preoccupata se avessi visto Meg
pallida
in volto e con un tremore delle mani che sembrava non voler cessare, ma
forse
lei l’ha scambiato per una conseguenza della mia amnesia, e
ha fatto finta di
niente con delicatezza.
Fino
all’ultimo –
fino a quando non ebbi varcato la soglia di casa – fui
incerta se andare o meno
a teatro per affrontare il mio Diavolo, ma le minacce che egli aveva
rivolto,
sia pure indirettamente, alle persone che si stanno prendendo cura di
me, mi
fecero decidere subito di obbedirgli. Cos’altro
c’era da fare, dopotutto?
La lezione
con Lui,
ad ogni modo, era di pomeriggio; di mattina mi spettava la consueta
lezione con
il coro e il maestro Reyer, gentile come sempre. Mi fece esercitare con
un’aria
da solista, non ricordo di preciso di quale opera, e mentre cantavo, al
centro
del palcoscenico, ebbi la chiara sensazione di venire osservata, o
meglio,
spiata, da qualcuno che non si trovava di certo nella platea. Fu
alquanto
sgradevole, poiché mi sentii nuda sotto quello sguardo, come
se potessi
sentirlo sulla pelle, e inoltre non potevo nemmeno sfuggirgli.
Ovviamente credo
di sapere a chi appartenesse quello sguardo, perché era lo
stesso che ho
sentito la notte scorsa quando Lui è venuto qui.
Di questo,
comunque, non ne parlai con nessuno, e quando incontrai Meg e madame
Giry, per
pranzo, feci finta di niente. Caso strano, non vidi monsieur Bamdad da
nessuna
parte, e dire che in genere era sempre nei dintorni per controllare, in
vece
del suo principale, che tutto si svolgesse al meglio: era i suoi occhi
e le sue
orecchie, ma evidentemente quest’oggi doveva essere il suo
giorno libero.
Non ricordo
che
genere di scusa inventai per allontanarmi da sola, dato che Meg avrebbe
voluto
accompagnarmi; madame Giry però le diede qualcosa da fare
come se avesse voluto
tenerla occupata, e l’unica cosa che la donna mi disse, prima
di lasciarmi
andare, fu: «Sii prudente, mia cara.»
Perché
ho il
presentimento che sia madame che sua figlia sospettino qualcosa? Non
è forse
assurdo che possano conoscere l’esistenza della creatura alla
quale ho dato la
mia anima in modo così sconsiderato? Ma allora, se davvero
lo sanno, perché non
alzano un dito per aiutarmi?
No,
è del tutto
impensabile che lo sappiano.
Ad ogni
modo,
riuscii a raggiungere la cappella dietro il terzo sottopalco con molta
più
facilità della prima volta; e neanche un momento la
sensazione di essere
fissata dal buio cessò.
Non appena
scesi
l’ultimo gradino, la prima cosa che notai fu che tutte le
candele del piccolo
altare in ferro battuto erano accese, diversamente dall’altra
volta. Come se
qualcuno ci fosse già stato.
E come se
mi
stesse
aspettando.
Mi portai
lentamente e con cautela al centro della stanza, osservandomi intorno e
torturando i guanti che stringevo tra le mani. La mia mente era
affollata da
mille pensieri. Il corsetto è decisamente troppo stretto,
non riuscirò a
cantare bene. Mi manca il respiro, vorrei strapparmi questi sciocchi
vestiti di
dosso. Quaggiù fa davvero troppo freddo, è come
se fossimo nel ventre della
terra. Quaggiù non verrà nessuno a salvarmi.
Quaggiù nessuno mi sentirà
gridare…
Poi, come
in
risposta ai miei pensieri, sentii che era arrivato. O meglio, avvertii
la sua
presenza, come se l’aria nella piccola cappella fosse
improvvisamente diventata
più scura e opprimente, come se qualcuno avesse risucchiato
via tutto
l’ossigeno. Le fiamme delle candele tremolarono ma non si
spensero: dovette
ritenere di avermi già spaventato abbastanza in precedenza
con quel trucco.
E, alla
fine, la
sua voce risuonò dalle pareti.
«Siete
venuta, finalmente.»
Non sapevo
da che
parte voltarmi per rivolgermi a lui, dato che la sua voce sembrava
provenire
dappertutto, e alla fine decisi di fissare lo sguardo sulla vetrata
dell’angelo, come se la vista di un essere così
puro potesse consolarmi della
presenza di una creatura dell’Inferno.
«So
mantenere le mie
promesse, monsieur.» Risposi, con voce piatta. Grazie al
Cielo riuscii a non
farla tremare troppo.
«Ammiro
il vostro
coraggio.» Replicò, abbassando la voce di un tono
o due per renderla più dolce
di quanto mi ricordassi. «Temevo di avervi spaventato troppo
la notte scorsa.»
Ero sicura
che mi
stesse provocando per ottenere da me una risposta sgarbata, ma il
ricordo di
Meg mi fece mordere la lingua per evitare di rispondergli male; non
volevo
dargli nessun tipo di occasione di prendersi gioco di me, né
tantomeno di
minacciarmi.
«Sono
venuta solo
per la lezione di canto, monsieur.» Mi limitai a rispondere.
Passarono
alcuni
secondi di silenzio, dopodichè rispose anche lui.
«In tal caso, sarà bene che
mi chiamiate ‘Maestro’, come si conviene ad
un’allieva.»
Inghiottii
tutto il
mio orgoglio quando risposi, con un filo di voce.
«Si… Maestro.»
La lezione
che
seguì fu indubbiamente qualcosa di… Magnifico e
terribile insieme. Fu lui a
cantare per primo: voleva che memorizzassi tutti i vari passaggi di
tono così
come li eseguiva lui stesso, accompagnato dalla malinconica musica di
un
violino. Dopodichè, quando venne il mio momento di ripetere
la sua esecuzione, fu
nello stesso tempo rigido e gentile. Mi correggeva gli errori e
pretendeva che
non facessi due volte lo stesso – temetti per questo di farlo
infuriare, perché
per me era impossibile memorizzare quelle ardue sinfonie in pochi
minuti,
mentre lui sembrava non coglierne la complessità –
e quando invece perseveravo
nello sbaglio alzava la voce, irato. Compresi subito che non tollerava
ripetere
più volte la medesima correzione, e mi sforzai di evitare il
minimo errore.
Presto fui costretta a togliere la giacchina del vestito e a rimanere
solo con
una camicia leggera, tanto ero accaldata dallo sforzo.
Ma quello
che non
scorderò mai è di certo la sua voce. Oh, egli
può essere il Demonio peggiore,
uscito da chissà quale Averno… Ma la sua voce!
Non può certo appartenere a
questo mondo, è qualcosa di troppo sublime per poter essere
udita da un
semplice mortale, e solo ora mi rendo pienamente conto che a me
è stato
concesso il privilegio di ascoltarla, sia pure come modello e non come
diletto
personale…
Sento che
potrei
dimenticare la sua crudeltà solo per la bellezza della sua
voce… Ma come può un
essere così malvagio possedere una voce così
calda e pura?
Giulia
posò la penna a lato del foglio che aveva appena terminato
di scrivere,
spargendovi sopra un po’ di sabbia per asciugare
l’inchiostro. Dopo averlo
fatto assorbire un po’, lo sollevò per scrollare
la sabbia in eccesso, e
rilesse le due pagine fitte che aveva riempito incessantemente senza
nemmeno
rendersene conto. La candela stava per consumarsi, ma ne restava ancora
abbastanza per decidere se conservare quei fogli in un cassetto o se
bruciarli
nella stufa.
Non
aveva scritto neppure di come era finita la sua prima lezione, con il
Maestro –
ormai si sarebbe dovuta abituare a chiamarlo in quel modo –
che le augurava una
buonanotte e le ricordava di tornare il giorno dopo, alla stessa ora,
con degli
abiti più comodi. Ah, come se gli interessasse qualcosa di
lei che non fosse la
sua anima e la sua voce!
Scostò
piano la sedia e si alzò, prendendo i fogli in una mano e la
candela nell’altra
per cercare un posto sicuro dove nasconderli; non poteva lasciarli in
giro con
il pericolo che Meg o qualcun altro li trovasse e li leggesse. Alla
fine li
mise nel cassetto del comodino, di fianco al letto, e lo richiuse a
chiave.
Sganciò
il laccio della vestaglia, che posò sulla poltroncina
lì accanto, e poi si mise
sotto le coperte, cercando un rifugio che ormai non esisteva
più. Si sporse
verso la candela, soffiando sulla fiamma e facendo cadere
l’oscurità in tutta
la stanza. Aveva davvero bisogno di riposare.
Erik
non era tornato nella sua villa fuori città, quella sera.
Dopotutto, non ci
sarebbe stato neppure Bamdad a tenergli compagnia, e a quel punto tanto
valeva
restare nel suo teatro.
Quando
Giulia era scomparsa nella tromba delle scale della cappella, solo
qualche ora
prima, si era sentito come svuotato di qualcosa, ma non sapeva di
preciso cosa. Forse era dovuto
semplicemente al
fatto che non era più abituato a cantare o suonare
– era da molto tempo che non
prendeva in mano il suo antico violino – né
tantomeno era più abituato a istruire
una giovane allieva. Mademoiselle Sanders aveva
l’età di Christine, ma non era
certo che fosse quello ad avergli lasciato quella sorta di amaro in
bocca.
Improvvisamente
ebbe l’impressione che i suoi progetti di vendetta fossero
del tutto inutili e
trascurabili… Ma fu un pensiero troppo effimero per poterlo
prendere in
considerazione. Aveva già giurato che si sarebbe preso la
sua rivincita, e non
sarebbe stata una fanciulla senza casa né nome a fargli
cambiare idea.
Tuttavia,
mentre si aggirava senza meta nei corridoi segreti del teatro,
provò
un’irresistibile voglia di scendere nuovamente nei
sotterranei, laddove un
tempo vi era stata la sua unica dimora, il suo solo rifugio. Non vi era
più
sceso dalla notte dell’incendio, né aveva provato
il desiderio di farlo. Ma più
ci pensava e più si rammentava dei suoi piccoli averi che
giacevano ancora in
quella grotta, o forse in fondo al lago, dato che una folla immensa di
curiosi
e gendarmi aveva raggiunto la sua casa subito dopo il rapimento di
Christine.
Mentre
percorreva automaticamente le gallerie che conducevano al lago,
completamente
immerse nel buio, i ricordi presero il sopravvento della sua mente
fredda e
lucida, costringendolo ad accelerare il passo per arrivare al
più presto alla
fine di quei passaggi segreti. Ogni angolo sembrava celare una memoria
del suo
passato: quello era l’angolo dove aveva tenuto la bionda
testa di Christine
sulle gambe, in attesa che la giovane si riprendesse dallo svenimento,
là
l’aveva aiutata a salire in groppa al vecchio Caesar, qui
è dove l’aveva
trascinata con forza, la notte del Don Juan, senza curarsi dei suoi
singhiozzi
disperati…
Era
così assorto nei suoi pensieri che quasi inciampò
in un oggetto di cui non
rammentava l’esistenza. Imprecò ad alta voce
mentre si inginocchiava per
afferrare un candelabro che chissà come era finito in
quell’angusto passaggio…
No, un momento. Sapeva perfettamente chi poteva averlo lasciato
lì, per terra.
Ecco,
questo era il punto dove aveva trovato mademoiselle Sanders, svenuta,
ormai tre
settimane prima.
Anche
quella sera aveva provato a scendere nei sotterranei, ma
l’aver trovato quella
ragazza priva di sensi e febbricitante per terra gli avevano fatto
accartocciare
l’idea, spingendolo a portarla in superficie e a consegnarla
alle cure di
madame Giry. Sembrava trascorsi secoli…
E
ora, invece, mademoiselle Sanders era alla sua completa
mercè.
Stranamente
però questo pensiero non lo fece sentire meglio.
Alla
fine raggiunse la sponda del lago sotterraneo. Come aveva immaginato,
non c’era
nessuna barca ad attenderlo lì ormeggiata: probabilmente era
affondata in tutto
quel tempo. Ma egli conosceva altri modi per raggiungere la sua vecchia
dimora
– non lo chiamavano fantasma
per
niente, dopotutto.
Prese
una galleria laterale che costeggiava tutto il lago, stupendosi del
fatto che
quel luogo sembrava essere rimasto congelato all’ultima volta
che lui vi era
stato. Ebbe però modo di notare i segni del passaggio degli
uomini che avevano
provato a dargli la caccia quella terribile notte, come fiaccole e
pistole
scariche abbandonate per terra e lì lasciate ad arruginire.
Avevano forse
sparato contro i topi e le ombre, nella speranza di colpire lui? Quel pensiero lo fece suo malgrado
sorridere: il suo nome era dunque stato capace di terrorizzare ogni
genere di
essere umano. Non si curò di raccogliere nessuna di quelle
armi, ormai
inutilizzabili. E lui non aveva più paura del buio da tanto
tempo.
Una
volta sbucato fuori da quella lunga galleria, poi, potè
dirsi arrivato.
L’arco
del corridoio si affacciava esattamente sopra la Dimora sul Lago,
permettendogli
di abbracciare con lo sguardo il primo luogo che lui, Erik, il Figlio
del
Diavolo, aveva potuto chiamare casa.
La
luce della luna che penetrava da alcune bocche di lupo ben celate da
grate in
ferro si posava su ogni cosa, immobilizzando il tempo. Ma tutto
ciò che egli poteva
vedere ora era degrado e disperazione. Gli enormi specchi da parete
erano stati
frantumati – in parte da lui stesso, i drappi con i quali era
uso ricoprirli
giacevano per terra, bruciati, e dovunque posasse gli occhi regnava il
caos.
Addirittura il suo organo, per il quale aveva sempre nutrito uno
smisurato
orgoglio, era stato distrutto da mani rabbiose e insensibili.
Scese
lentamente le scale di pietra, calpestando i frammenti di vetro, in
volto uno
sguardo di furia cieca. Come avevano osato entrare in casa sua e
distruggerla
in quel modo barbaro? L’unico modo per punire il Fantasma era
dunque accanirsi
con i suoi pochi averi? Oh, se solo avesse potuto
gliel’avrebbe fatta pagare…
Ma ogni
cosa
a
tempo debito, Erik,
si disse tra sè. Presto tutto
sarà
vendicato.
Sfiorò
con tocco gentile i tasti sfondati del suo prezioso organo, per poi
gettare uno
sguardo distratto e indifferente ai vari ritratti di Christine che non
erano
stati risparmiati dal fuoco. Ah, ecco dov’era la gondola,
realizzò, guardando
con uno scatto della mascella la sua imbarcazione –
costrutita con le sue
stesse mani basandosi su un semplice disegno delle barche veneziane
– che era
stata bruciata e affondata senza rimorsi. Tutto era stato distrutto,
ogni
singola cosa.
Diede
le spalle a quello sfacelo, dirigendosi verso quella che era stata la
sua
camera da letto.
La
tenda di broccato che separava la stanza da letto dal resto della sua
dimora
era stata strappata e gettata per terra, così come i cuscini
del suo giaciglio.
Il pavimento era ricoperto da piume e candele spezzate, come se le
persone che
avevano violato la sua casa avessero voluto esorcizzarla per impedirgli
di
tornare. Che poveri stolti. Se solo avessero saputo che non bastava
così poco
per liberarsi di lui…
Almeno
il materasso era ancora intatto. Come sarebbe stato dormire nuovamente
in quel
letto? Gli avrebbe dato la forza di continuare con i suoi piani, di
portare
avanti il suo progetto?
Con
un sospiro stanco si sfilò la maschera dal viso, posandola
sul tavolino da
notte, e si tolse la giacca rimanendo in maniche di camicia. Era troppo
tardi
per tornare alla villa, e non aveva voglia di risalire in superficie
per
dormire nel divanetto del suo ufficio. Quel letto era molto
più comodo… Chissà,
forse avrebbe dovuto mettere a posto la sua antica dimora, in modo da
avere un
luogo nel quale rifugiarsi per riflettere e riposarsi in tutta
tranquillità,
senza che nessuno lo disturbasse. L’indomani mattina, non
appena avesse visto
Bamdad, lo avrebbe messo al corrente della situazione.
Inoltre,
in questo modo era più semplice anche andare alla lezione di
canto di
mademoiselle Sanders.
Con
questi pensieri per la mente chiuse gli occhi, scivolando piano in un
sonno
profondo.
E
senza comprenderne il motivo, si ritrovò a sognare Giulia.
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AA -Angolo Autrice:
Ciao! Avete passato un bel fine settimana? Spero di si ^^
Di nuovo mille e uno grazie per i vostri complimenti, mi auguro di meritarli =P Non mi trattengo a lungo, ringrazio solo per le recensioni - che mi riempiono ogni volta di gioia *-* - e per aver aggiunto questa storia alle preferite e alle seguite! Grazie in tutte le lingue del mondo <3
Allora, che ve ne pare del nuovo capitolo? Spero che abbiate gradito le pagine di diario iniziali, ci saranno anche altre parti simili, servono per rendere meno monotona la narrazione e per entrare nella mente del personaggio... Comunque, qui non succede un granchè ma nei prossimi cercherò di riscattarmi... Promesso!
Ora vi saluto ^^ Un bacione, al prossimo chapter!
E mi raccomando...
Commentate, commentate, commentate! *O*