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Autore: Leireel    12/04/2010    8 recensioni
«La vostra bellezza arriva dritta al cuore di coloro che sanno vedere.»
[Signora Grassa/Thaddeus Nutcombe]
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: True colors
Autrice: Leireel, silvershiver,e così via
Beta: Kukiness <3<3<3
Wordcount: 992 (W)
Fandom: Harry Potter
Personaggi/Pairing: Signora Grassa/OC
Prompt: Breccia @fuoco_dal_cielo
Generi: Introspettivo, Romantico.
Rating: K
Note: Ehm. Sì, me ne rendo conto, una fiction sulla Signora Grassa non è esattamente qualcosa che uno si aspetta, soprattutto in un Fest. Ma... ehm. Boh. Mi piaceva, credo.
Scritta per la seconda settimana del F3.U.CK.S. Fest indetto da fanfic_italia , grazie alla community fuoco_dal_cielo. E questa volta in anticipo, muahahahah.
I nomi sono stati pescati a caso dal lexicon, sotto la voce Streghe e Maghi famosi, in caso ve lo stavate chiedendo. 
Disclaimer: La Signora Grassa appartiene in tutta la sua grassosità alla Rowling, beata donna, anche se il suo nome è tutto mio *ghghgh* Stessa cosa dicasi per Thaddeus Nutcombe: esclusivamente della sottoscritta, quindi giù le manacce.


True colors

But I see your true colors shining through
I see your true colors, and that’s why I love you
So don’t be afraid to let them show
Your true colors are beautiful like the rainbow


Ophelia di Wenlock non era mai stata bella. I suoi lineamenti non si adattavano per nulla ai canoni di bellezza dell’epoca (né, era convinta, ai canoni delle ere passate o future); le sue forme erano troppo abbondanti per poter risultare attraenti, o quantomeno gradevoli. La malagrazia con cui si muoveva, la risata troppo aperta, la sfrontatezza con cui si rivolgeva ai suoi coetanei, erano tutti attributi che difficilmente le avrebbero guadagnato la nomea di ‘bellezza’.
Aveva iniziato a soffrirne all’età di dodici anni, quando, nelle frequenti visite alla corte magica londinese, aveva avuto modo di notare come le attenzioni dei giovani presenti si spostassero molto di frequente sulle sue amiche, e mai su di lei; le si era spezzato il cuore quando il paggio di cui si era innamorata aveva dichiarato il suo imperituro amore a Guinevere di Gorsemoor, senza invece degnare lei di uno sguardo. In quei giorni aveva pianto a lungo davanti allo specchio, chiedendosi disperatamente perché non potesse essere come le altre ragazze: bella, aggraziata, amata. Con il tempo aveva imparato a non curarsene. Era giovane, aveva un carattere allegro e brioso, era benvoluta dai genitori e dalle amiche; inoltre, da quanto aveva sentito a proposito delle lunghe pene d’amore, dei litigi, delle gelosie, dei tradimenti, aveva iniziato a considerare il non essere amata – e il non amare a sua volta – come un privilegio che le permetteva di non dover subire tali vessazioni. Era giovane, in salute, benvoluta da chiunque la conoscesse: non era bella, e la cosa la faceva soffrire in silenzio, senza che alcuna delle emozioni che provava affiorasse sul suo viso.
Aveva tuttavia maturato un’insana avversione per gli specchi. Nelle sue stanze erano stati interamente coperti da pesanti tendaggi di velluto nero, e ne mal sopportava la vista quando si trovava negli alloggiamenti privati delle sue compagne. Non aveva bisogno di guardare la sua immagine riflessa per conoscere la verità, per accorgersi che non avrebbe mai potuto essere amata da nessun uomo; non ne aveva bisogno, e per questo li evitava accuratamente, con una smorfia di disgusto sul volto. Per quanto la riguardava, la loro stessa esistenza era inutile.
Non c’era da stupirsi, quindi, se la proposta di posare per un ritrattista le era risultata così sgradita. Non era bella e lo sapeva: non voleva essere immortalata dalle pennellate impietose di un artista abituato a ben altri generi di donne. Aveva cercato di opporsi alle decisioni paterne celando la sua furia sotto una fredda cortesia, ma il padre era stato irremovibile, e aveva dovuto rassegnarsi all’idea di dover vedere il suo brutto volto che le sorrideva ogni giorno, sino alla sua morte. Quel giorno, il primo dopo lunghi anni, aveva pianto di nuovo.

Il ritrattista, un certo Thaddeus Nutcombe, si era presentato nella loro villa la settimana dopo. Era piuttosto giovane, con una postura ingobbita che tradiva la stanchezza di lunghe sessioni di pittura e uno sguardo luminoso e attento. Possedeva una serenità d’animo che sembrava irradiarsi da lui per permeare tutta la stanza, e Ophelia lo aveva odiato immediatamente per quella sua pace interiore che ostentava con pacata indifferenza.
La posa che aveva scelto per lei, doveva ammetterlo, non era particolarmente difficile da mantenere; tuttavia essere osservata tanto a lungo aveva avuto presto la meglio sulla sua scarsa pazienza.
«Messere, sono stanca, non ho più alcuna voglia di continuare in questa posa. Ritorni un altro giorno, la prego», aveva sbuffato solo mezz’ora dopo.
Thaddeus aveva alzato gli occhi dalla tela, palesemente sorpreso; si era quindi soffermato a guardarla per un lungo istante, poi aveva annuito con quel suo sorriso sereno e si era congedato da lei con estrema cortesia. Quella sera, Ophelia non era riuscita a pensare ad altro che a come lo aveva trattato, con un sentimento che aveva confusamente riconosciuto come rimorso.
L’indomani si era ripresentato alla stessa ora davanti alla loro porta, e il sorriso che le aveva rivolto non appena l’aveva vista era stato, se possibile, ancora più luminoso di quello del giorno precedente. Aveva continuato il suo dipinto con ancora maggiore concentrazione, senza interrompersi per un solo istante, se non per complimentarsi con lei per come il rosa donasse alla sua carnagione; Ophelia era arrossita e non aveva risposto.
Con il tempo, il disagio di essere osservata si era lentamente dileguato; tuttavia, fu solo quando Thaddeus le annunciò di aver finalmente concluso il dipinto che si accorse di non voler rinunciare ai suoi lunghi sguardi, che sembravano scavarle nell’animo. Indispettita, chiese di vedere il ritratto – la posa non sarebbe rimasta bloccata che per quei pochi giorni prima degli incantesimi finali, e aveva sentito l’immediato impulso di vedere come il pittore avesse fermato il suo essere nella tela. Voleva vedere il modo in cui lui l’aveva vista.
Guardare di nuovo la propria immagine fu qualcosa di sconcertante: le sue labbra, i suoi zigomi, tutto le sembrava estraneo e al contempo familiare, come un ricordo sfocato e confuso. La linea del viso era più morbida di come la ricordasse, più dolce e sinuosa; la bocca aveva una piega sensuale che non ricordava nella sua posa, ma che donava incredibilmente a quel volto rotondo. Ma gli occhi... gli occhi la ipnotizzarono. Avevano quella sfumatura perfetta di bistro che aveva visto negli affreschi a corte, e una linea seducente che l’avrebbe sicuramente fatta arrossire, se non fosse stata tanto ammaliata da quel che c’era dietro. Quegli occhi avevano una luce che era sicura non avessero mai avuto dal vivo sul suo vero viso. Erano gli occhi di una persona diversa, di una persona felice. Thaddeus le sorrise, di quel sorriso caldo e sincero che aveva imparato ad amare. E, per la prima volta, Ophelia si sentì amata.
«Immortalare la vostra bellezza, mia signora, è impresa impossibile; ma se avrò reso il mio amore per voi immortale, sarà come averne conservato il ricordo. La vostra bellezza arriva dritta al cuore di coloro che sanno vedere.»
E, per la prima volta, Ophelia si sentì finalmente bella.
   
 
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