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Autore: keska    12/04/2010    31 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Posai il palmo della mano, aperto, sul suo petto nudo, e con un dito tracciai la forma di un cuore, servendomi della schiuma bianca che aleggiava nella cabina della doccia.

Avevo la mente ancora un po’ appannata. La sera precedente, mentre tornavamo dall’ospedale di Seattle, ero stata zitta e pensierosa, rimuginando sulle parole di mio marito e sulla mia reazione.

Forse si dà ogni cosa per scontata finché non la si perde. Forse l’affetto che si offre è spesso muto e silenzioso. Forse, è nella natura e nella morale umana provare pietà.

Mi feci baciare le labbra, lasciando che le sue mani sciogliessero i miei pensieri insieme al getto caldo dell’acqua.

Ringraziai ancora una volta il cielo di avere accanto a me un angelo come Edward, che tacitamente mi aveva supportata e aiutata in ogni istante, senza essere mai troppo invasivo.

Mi lasciai dondolare sulla sedia di legno, accanto al camino, accarezzandomi la pancia. Fortunatamente pareva che la bambina stesse bene e che non avesse riportato nessuna conseguenza in seguito allo svenimento. Non me lo sarei di certo perdonato.

Per un attimo il mio sguardo si posò sul libro, in bella mostra sul tavolo del soggiorno. Sapevo che sia Carlisle, sia Edward, erano già a conoscenza di molte cose racchiuse in quel libro. Era passata una notte, tempo più che sufficiente per leggerlo completamente, ma sapevo che avevano tutta l’intenzione di comprenderlo a fondo e analizzare ogni parte con molta calma.

Io, invece, non l’avevo ancora neppure aperto. Molto probabilmente per leggerlo ci avrei impiegato quantomeno tre o quattro anni, considerando che era perlopiù scritto in lingua straniera e antica.

Esercitava su di me uno stranissimo fascino. Un fascino così particolare da rendermi prudente. Tuttavia ero piuttosto certa che fosse giunto il momento adatto per cominciare a sfogliarlo, e magari decifrarlo.

Sollevai la schiena, intenzionata ad alzarmi, e sentii due mani fredde afferrarmi per i fianchi e farmi scivolare sopra un corpo fin troppo conosciuto. Mi voltai a guardare mio marito con aria interrogativa. I suoi lineamenti erano dolci e delicati, come al solito, eppure ero certa di scorgervi una certa serietà.

«Devo parlarti».

«Si tratta dell’ecografia?» corrugai le sopracciglia «avete scoperto qualcosa?».

Scosse brevemente il capo, lasciando gli occhi fissi nei miei e ricominciando a dondolare. «Sì, abbiamo scoperto qualcosa. Molto, a dir la verità, ma no, non ti voglio parlare di questo» fece con un sorriso appena pronunciato.

Lo osservai alcuni secondi. Aveva un’aria davvero strana. «Avete scoperto qualcosa di brutto?» chiesi, trattenendo immediatamente il fiato.

«No, no» rispose velocemente, prendendomi il viso fra le mani, «non si tratta di questo. È una cosa di cui averi voluto parlarti ieri». Stetti in silenzio, aspettando ansiosa che continuasse. «Bella, ieri è successa una cosa di cui ho sempre avuto timore, e che non avrei mai voluto che accadesse. Sono serio, non sono arrabbiato» precisò, con tono calmo «non voglio che tu trascuri te stessa. Non voglio che tu stia male perché non hai mangiato o perché non hai dormito, e sei così adulta e matura da essere consapevole di quello che fai».

Arrossii, abbassando il capo e mordicchiandomi il labbro. E così mi stavo beccando una bella ramanzina; dopotutto me la meritavo. «Mi dispiace» farfugliai «ho… fatto correre rischi inutili alla bambina e…».

Mi sollevò nuovamente il viso. «Non è per la bambina che lo dico, non solo, e comunque, non voglio che tu pensi questo» mi fissò crucciato. Poi sospirò, distendendo la fronte «ieri quando Amber mi ha chiamato ho avuto paura che la tua emoglobina fosse scesa troppo, che non avrei fatto in tempo, o che ti avrebbero fatto una trasfusione. Ho avuto paura e mi sono sentito impotente. So che per la bambina faresti ogni cosa, ma prima di tutto voglio che tu lo faccia per te stessa. Siamo d’accordo?».

Annuii. «Non era mia intenzione farti preoccupare» biascicai, il viso premuto contro il suo petto.

Sentì il fiato freddo sui miei capelli. «Sempre la solita» borbottò. «Come ti senti?».

Scrollai le spalle. «Un po’ fiacca, ma sto bene. Non mi sento più svenire».

«Bene. Carlisle vuole fare almeno un paio di cicli di terapia questa settimana, dato che l’emoglobina è scesa ancora».

«Le mie povere vene» borbottai, stringendomi l’incavo del gomito.

«Non credo tu preferisca l’alternativa».

Rabbrividii, nauseata. «No».

Si alzò dalla sedia, facendo sollevare anche me. «Vestiti, andiamo in ospedale» disse, prima di scomparire in un istante.

Non feci a tempo a rielaborare le sue parole che i miei occhi caddero nuovamente sul grosso tomo consunto. Mossi due passi verso il tavolo, posai le dita sulla copertina spessa, osservandola ancora una volta.

«Bella, sbrigati, ti devo spiegare tante cose».

Sobbalzai, lasciando il libro a malincuore abbandonato.

 

«Così riguarda la composizione della membrana che la protegge?» chiesi, ancora fin troppo disorientata.

Svoltò con precisione, imboccando il parcheggio dell’ospedale. «Sì, esattamente. Sai che ogni organo del corpo umano è formato da tessuti e quindi da cellule?». Annuii, invitandolo a continuare. Parcheggiò l’auto e poi riprese, voltandosi verso di me. «Anche la placenta, questa membrana, un organo a tutti gli effetti, è formata da tante cellule. Ecco, fino ad ora le cellule erano state in tutto e per tutto identiche alle mie».

«Perfette, spesse, indistruttibili, fredde».

«Esatto. E di certo non sarebbe stato possibile vedere quello che tu hai visto ieri se fossero ancora così».

«Cos’è successo allora?» chiesi perplessa.

Sorrise, comparendo in un istante al mio fianco, la portiera aperta. «Credo che questo sarà felice di spiegartelo Carlisle. Ci sono mille cose di dirti, così tante che non ho idea di dove cominciare».

Mio suocero aveva l’aria di un bambino il giorno di Natale. Sì, il suo meraviglioso contegno si scioglieva come neve al sole di fronte ad una scoperta scientifica. Dopotutto, ognuno di noi aveva un punto debole.

«Le cellule che finora hanno formato la placenta sono un patrimonio importantissimo» mi spiegò, concentrato a tracciare delle linee su un foglio di carta «non possono aumentare di numero, come non lo può fare alcuna altra cellula che forma il mio corpo, o quello di Edward. La bambina ne ha altre, molte, dentro di sé, che servono per costituire parti fondamentali di alcuni organi, come per esempio il cuore, il fegato, delle cellule nervose, parte del cervello» sollevò il viso su di me, lasciando cadere la penna sulla scrivania, «perdonami, questo è un altro discorso, non voglio confonderti».

Accennai un sorriso, scuotendo il capo.

«Dunque» riprese «queste cellule, sostituite da altre cellule umane, si stanno staccando dalla placenta, finendo nel liquido amniotico, fino ad andare a formare…» mi porse il foglietto su cui aveva disegnato «ecco, fino ad andare ad unirsi a quelle della pelle della bambina».

Fissai il disegno sconcertata, analizzando con precisione le varie fasi e rielaborando le sue parole. «Quindi…» balbettai.

«Quindi alla fine della quaranta settimane la placenta sarà identica a quella di qualsiasi altro essere umano».

«E la pelle della bambina, seppur mista e per questo in grado di crescere, molto più simile alla mia» completò Edward, con un sorriso.

Li osservai in silenzio, facendo scorrere lo sguardo fra loro al foglietto che avevo fra le mani. Mi portai una mano al ventre, sentendo la bambina muoversi e provando ad interiorizzare quello che avevo appena ascoltato. Era difficile pensare che tutto quello stesse avvenendo dentro di me.

«Dubbi, perplessità? Domande?».

Sollevai il viso verso quello di Carlisle. «Quindi» feci, cauta «non c’è bisogno che io faccia un taglio cesareo?».

Sorrise. «Beh, non vorrei essere troppo affrettato, ma credo di poterti dire con una certa sicurezza… sì. Potrai partorire tua figlia» concluse smagliante.

 

«Amore, sta ferma» mi ammonì dolcemente Edward. Ero stesa sul lettino e intenzionata a non perdermi nessuna delle immagini che la sonda avrebbe captato durante l’ecografia. Sospirai, riabbassandomi con la testa sulla carta ruvida, attendendo silenziosa e cercando in ogni caso di sbirciare il monitor.

«Non sarà facile vederla, ma dobbiamo approfittarne ora, perché adesso riuscirò ad analizzare al meglio anche i suoi organi interni» spiegò Carlisle, gli occhi puntati sul monitor pressoché nero.

Edward si voltò verso di me al mio ennesimo movimento. «Guardami» mi ordinò «non appena si vedrà guarderemo insieme, va bene?».

Annuii, guardandolo negli occhi e lasciandomi accarezzare le mani, nelle sue. Eppure mi sentivo incredibilmente emozionata, spiritata, quasi. Sì, certamente quella sarebbe stata la descrizione più adatta.

«Ecco». La voce di mio suocero mi fece voltare la testa di scatto verso il monitor. «Ecco qui… c’è la testa, sì, la vedi Bella?».

Annuii frettolosamente, le lacrime che cadevano giù incontrollate. Sentii la presa di Edward farsi più forte sulle mani, fino quasi a farmi male, ma non me ne curai.

«Vediamo se riesco… sì. Questo è un braccio, lo ha piegato sotto il mento. Mi dispiace che non si veda per intero, ma qui si vede anche una gambina, è in una posizione molto buffa».

Mi voltai velocemente verso mio marito, senza vederlo per le lacrime che mi offuscavano gli occhi. Le asciugò velocemente, baciandomi gli occhi, le palpebre, la bocca. «È magnifica» sussurrai, la voce strozzata dal pianto «somiglierà a te».

«Sarà un perfetto punto d’incontro».

Scossi il capo, testarda. «Somiglierà a te».

Mi lasciai torturare la pancia di buon grado per un tempo che parve troppo breve per i miei gusti. Era il primo contatto visivo che avevo con la piccola, ed era davvero stupendo. Immaginai le mille donne stese su quel lettino a contemplare l’immagine del nascituro. Cosa c’è di più bello di una vita che viene alla luce? Cosa c’è di più bello dell’amore che si concretizza in un essere animato? Lasciar creare la vita dentro sé stessi… la meraviglia e lo stupore del mondo.

«La sua testa è qui» disse Carlisle, indicandomi un punto poco superiore all’ombelico «qui c’è la schiena» fece, facendo scorrere due dita verso destra, «e qui i piedi. Sicuramente facendo attenzione riuscirai ad individuarne la posizione anche tu».

«È normale che stia così?» chiesi titubante, arrossendo imbarazzata per la possibile ingenuità della domanda.

«Intendi con i piedi in basso?» chiese con un sorriso «Non ti preoccupare Bella, ha ancora tanto tempo per girarsi. Si muoverà parecchio adesso».

Sorrisi anch’io, saettando con lo sguardo sul viso sorridente di Edward «La sento». Nell’ultimo periodo, infatti, i suoi movimenti erano più decisi e amplificati, e decisamente superiori di numero. Era davvero molto attiva.

«Bella» mi richiamò un attimo mio suocero, con uno strano tono piuttosto controllato.

«Sì».

«Dovrei prendere le dimensioni». Mi sorrise, prendendo il metro e iniziando a misurare.

Mi girai verso Edward, fissando il suo volto. Mi pareva normale, tranquillo. Mi accarezzò il viso e mi baciò il naso. Sorrisi.

Quando finì di misurare, sentii il rumore delle rotelle della sedia che strisciavano contro il pavimento, e mi voltai a fissare Carlisle. Guardò prima Edward e poi me. «Volevo avere la conferma» sollevò le sopracciglia «è un po’ piccola».

Sentii immediatamente l’impeto di rossore sulle guance, causato dal cuore che aveva aumentato i suoi battiti. «Piccola?» chiesi, la bocca secca. Edward mi prese le mani fra le sue, stringendole, ma io continuai ostinatamente a fissare Carlisle.

Rispondeva al mio sguardo, con tranquillità e pacatezza. «Non ho mai potuto fare un’ecografia e per questo confrontare, ma Bella, ascoltami. Non ti agitare. Innanzitutto, per le misurazioni che ho preso in precedenza, la pancia è sempre cresciuta in maniera costante. In secondo luogo, e questo è quello che ti deve rassicurare maggiormente, la bambina è ben proporzionata. Terzo, ho detto “un po’”. Molto probabilmente è solo costituzionalmente piccola».

Continuavo a guardarlo in silenzio, e ben presto i miei occhi sempre fermi, si trovarono a fissare un imprecisato punto vuoto. Sentivo un peso sul petto, razionalmente inesistente. Respirai piano, provando a scacciarlo via.

«…faremo delle analisi e due visite al mese d’ora in poi».

«Carlisle» domandai un po’ preoccupata «pensi che possa dipendere dal fatto che non sto…» deglutii «bevendo il sangue?».

Si scambiò uno sguardo con mio marito e mi agitai.

«È così?» domandai, portandomi una mano alla pancia. Era sempre stata un po’ piccola, lo immaginavo. Ma averne la certezza mi preoccupava molto.

Fu Edward a rispondermi. «Nel libro non c’è scritto nulla di esplicito riguardo a questo perché tutte le donne che…» sospirò, guardando in basso «sono sopravvissute, hanno bevuto il sangue almeno due o tre volte durante la gravidanza».

«Oh Dio» sussurrai «l’altra volta è cresciuta molto dopo la mia anemia. È cresciuta dopo che ha usato il mio sangue» feci preoccupata. Mi sentivo in colpa, perché pensavo di non aver fatto tutto il possibile per mia figlia.

«Bella». Mi voltai verso mio marito. «Stai tranquilla, la bambina sta crescendo, si vede dalla tua pancia» disse, e mi sorrise, accarezzandomi il pancione. Sembrava tranquillo, e mi chiesi come potesse esserlo.

«L’importante» riprese Carlisle, sollevandosi dalla sua sedia «è che tu stia tranquilla, e cerchi di agitarti il meno possibile. Mi rendo conto che molte cose che sono successe in questi mesi possano averti portato in uno stato d’ansia frequente, ma ai bambini non piace l’adrenalina. Ti prometto che dalla nostra parte ti daremo tutto il supporto farmacologico possibile per garantire alla bambina il nutrimento necessario. Anzi, iniziamo adesso un ciclo di terapia, e lo ripetiamo fra due giorni. E se l’emoglobina non risalirà… allora agiremo di conseguenza» finì con un sorriso «Va bene?».

Annuii malvolentieri, lasciando che facesse il necessario per somministrarmi la terapia di cui avevamo bisogno.

«Ripetimi quanto era la mia emoglobina oggi» dissi, uscendo dalla porta dell’ospedale mano nella mano con Edward.

Stava per sospirare, ma si trattenne pazientemente. Sapeva che avevo bisogno di rassicurazioni. «8.7. È bassa, ma sai che è scesa anche molto di più l’altra volta. Possiamo aspettare».

Sollevai lo sguardo sul parcheggio, pensierosa. «Lo so. Mi chiedo se sia giusto farlo».

«Bella» mi chiamò, facendomi voltare nella sua direzione «non voglio che tu lo faccia se non è strettamente necessario. Non mi va che ti esponga a questa cosa mentre sei ancora umana».

Deglutii, preoccupata. «Tu stai male quando hai sete, quando non vai a caccia per tanto tempo. Se per lei fosse lo stesso? Se fosse sempre assetata?».

Posò una mano sul pancino che tendeva i bottoni del giaccone in cui ero avvolta. «Sento i suoi pensieri e sta bene, e tu senti le sue emozioni, ed è tranquilla e felice. Secondo me dovremmo aspettare, ma se tu non ce la fai, se pensi che sia arrivato il tempo, organizzeremo tutto. Voglio che tu sia serena».

Mi mordicchiai il labbro, combattuta. «Va bene» mi arresi infine «aspettiamo».

Sorrise, contento della mia decisione. «Bene. Sai, la dieta di nostra figlia sarà mista, a base di cibo umano per i primi tempi, a cui aggiungerà pian piano anche il sangue. Penso che adesso dovremmo nutrire te. Vuoi mangiare?» chiese guidandomi nel parchetto adiacente all’ospedale.

«Non lo so, non ho molta fame, mi sento un po’ scombussolata».

«Scombussolata?» chiese perplesso, arcuando un sopracciglio.

«Sì» annuii, «sono preoccupata, ma sono anche felice di aver finalmente visto la bambina» balbettai, emozionandomi al ricordo. 

La sua espressione si addolcì. «È stato molto bello. Ma non hai mangiato niente stamattina, e malgrado non sia ancora ora di pranzo non vorrei replicare l’esperienza di ieri».

Esitai, temporeggiando e tenendolo sulle spine. «Pizza?» chiesi sorridente, «lo dice la bambina» mi giustificai.

Sorrise, stando al gioco. «Pizza sia. Mi aspetti qui?».

Mi strofinai la punta del naso, congelata per il freddo di gennaio. «Vado in macchina» dissi, tendendo il palmo della mano aperto.

Ci fece cadere le chiavi e mi baciò le labbra.

Me ne stetti in auto ad aspettare. Piuttosto che accedere i riscaldamenti preferii stringermi nel mio giaccone, strofinando le mani una contro l’altra. Il freddo poteva diventare pungente e fastidioso, il caldo decisamente insopportabile. Accarezzai sbadatamente la pancia, distratta dai miei pensieri. Mi dovevo fidare di mio marito e di mio suocero, che da sempre si erano presi cura di me. Ma loro ragionavano lucidamente, valutando i rischi per me e per la bambina e pensando più che altro al mio benessere. Quello strano istinto materno che stava crescendo sempre di più mi spingeva solo a considerare i rischi per la bambina.  

Rabbrividii, e decisi che accendere i riscaldamenti non sarebbe stata un’idea così assurda, poi, considerando che non era solo per mio piacere che dovevo farlo. Edward aveva ragione, avrei dovuto essere più attenta.

Notai, appena sotto il sedile, la mia borsa. Sospirai, sollevando un sopracciglio. Avevo portato il libro con me.

Una crescita variabile, rallenterà sempre più. La sua pelle morbida come la pesca e resistente come il diamante. In grado di correre come una gazzella senza perdere fiato. Forte tanto da stupire ogni mortale. Ogni bellezza e qualità sboccerà crescendo col tempo. Una creatura decisamente molto potente, con un ascendente incredibile. Ammaliante. Affascinante. L’imperfezione nella perfezione.

Queste erano solo poche delle qualità descritte da Carlisle, qualità che la mia bambina, come ogni altro mezzo-sangue, avrebbe avuto una volta nata.

Era stupefacente, e meraviglioso, sapere che tutto quello era rinchiuso in me. Mi aspettavo di scoprire ancora molto, su di lei. Mi aspettavo di scoprire qualcosa di non perfettamente positivo, anche. Come l’origine dei suoi strani sogni.

E se… quanto avrei dovuto aspettare? Mi morsi un labbro, tesi le dita verso la copertina di cuoio, sentendo una certa forte emozione crescere in me, e mischiarsi con la confusione della piccola.

Sollevai il viso, cauta, lanciando un’occhiata intorno a me per verificare che nessuno mi stesse osservando. Un pick-up blu, molto simile al mio vecchio modello ormai abbandonato, passava a velocità sostenuta sulla strada ghiacciata.

Un altro dettaglio catturò la mia attenzione. Era una ragazzina con un cono gelato ed un vestitino estivo con i fiorellini. Stava attraversando la strada, concentrata sul suo gelato.

Scattai immediatamente in mezzo alla strada, repentina, prendendola fra le braccia e stringendola a me.

Sentii il suono stridente dei freni e immediatamente mi voltai a fissare, attonita, il paraurti dell’auto. Si bloccò, cozzando contro il mio scudo invisibile, scivolando con le ruote sul ghiaccio.

Rilasciai il respiro che fino ad allora avevo trattenuto. Mi sentivo intontita per tutto il potere che era uscito velocemente da me.

E mi resi conto, agghiacciata, di quello che avevo appena fatto.

Quando mi voltai la ragazzina mi restituì lo stesso sguardo sconvolto.

Strinsi debolmente una mano sulla pelle nuda delle sue braccia. Era così fredda… come Edward. Ma quando sollevai lo sguardo sui suoi occhi non erano rossi o ambrati. Erano azzurri, chiarissimi, e mi studiarono per un lunghissimo tempo. Poi si abbassarono sulla mia pancia e se possibile la sua espressione si fece ancor più sorpresa.

Deglutii, staccandomi da lei e cadendo indietro con il sedere sul manto stradale ghiacciato.

Mentre il suono delle voci che si avvicinavano a noi si fece sempre più forte saltò in piedi, voltandosi per fuggire.

«Aspetta!» le dissi preoccupata, tendendole una mano. Tremavo, e mi sentivo fiacca.

Si voltò, combattuta.

«Perché vai via? Io so chi sei! Tuo padre ti cerca» le dissi preoccupata.

Strinse le labbra perfette, imbronciate, da bellissima quindicenne. Aveva i capelli castani, morbidi e lunghi e le guance rosee ancora piene della giovinezza. «Fai attenzione» mormorò con la sua dolce voce melodiosa «Anche loro inizieranno a cercarti. Il tuo bambino mi ha chiamato qui. Credo che volesse avvertirti».

Fremetti, inquieta. «Avvertirmi su cosa?» mormorai spaventata, ma non ci fu più il tempo. Iniziò a correre ed improvvisamente mi trovai circondata da persone.

Il conducente dell’auto mi parlava concitatamente. Volevo alzarmi e correre da lei, ma mi sentivo spossata. Sentivo tutto il mio corpo irradiare il potere che avevo appena usato. La bambina fece una capriola nella mia pancia, il movimento più lungo che le avessi mai sentito fare, e mi lasciò quasi senza fiato. Mi portai una mano al ventre, respirando e sentendomi improvvisamente più debole. Era preoccupata. «Non è successo nulla» dissi con dolcezza, «va tutto bene».

Mi sentii strattonare con decisione verso l’alto. Fissai disorientata gli uomini con il camice turchese, usciti dall’ospedale.

«Signora, sta bene?».

Non mi voltai a controllare l’origine di quella voce. La persona che ora mi stava stringendo il braccio, probabilmente. Il mio sguardo cadde sul cono gelato, ora schiacciato contro l’asfalto.

«Bella!». Edward.

«Sto bene» risposi a entrambi. Mi volsi verso mio marito, che capì subito che qualcosa non andava. Mi feci stringere al suo petto. «Era lei, Edward» mormorai a mezza voce «era Kate, la figlia del professore».

Mi guardò stupito.

Annuii piano. «Vai a cercarla» sussurrai, sentendomi sempre più affannata «non può essere andata lontano».

«Sei gelata» mi disse preoccupato, sfregandomi le mani e la guancia.

Le mie palpebre insisterono per abbassarsi più volte, nonostante i miei sforzi per tenerle aperte. «Lei… sa… sa qualcosa» balbettai sfinita. Mi strinsi più forte sul suo petto.

«Stai bene?» domandò preoccupato, stringendomi il capo con una mano.

«Abbiamo una barella. La portiamo dentro al caldo» disse un uomo alle sue spalle.

L’autista si avvicinò ancora. «Cos’è successo? È incinta? Oh, Dio, è la figlia del capo Swan. Se non avesse spostato quella ragazzina…».

«Il potere… mi sento senza forze» biascicai contro il suo petto.

Edward mi prese fra la braccia, sollevandosi e parlando con la piccola folla intorno a noi. «Bisognerebbe andare a cercare la ragazza, forse è ferita. Bella sta bene, è solo molto scossa. La porterò a casa a riposarsi».

«Edward, sei sicuro di non volerla far controllare?» gli domandò il medico alle sue spalle.

Annuì. «Sì dottor Taylor. I luoghi affollati la fanno stare peggio. Mia moglie è molto… delicata. La farò controllare da mio padre a casa più tardi. Grazie per il suo aiuto» disse con cortesia.

«Capisco» disse l’uomo, dando indicazioni alla sua squadra di ritirarsi.

Mi sistemò in auto e chiamò i suoi fratelli, dando loro istruzioni per cercare Kate. Accese i riscaldamenti ed iniziò a guidare verso casa.

Nonostante il passare del tempo continuavo a sentirmi debole ed il battito del mio cuore era accelerato. «È scesa ancora, vero?» domandai consapevole.

Strinse le mani sul volante ed annuì. «7.5. Non so come sia potuto accadere così rapidamente».

Sospirai, rintanandomi sul sedile e chiudendo gli occhi. «È stato il potere della bambina. Kate… ha detto che la piccola voleva avvertirmi. Che qualcuno inizierà a cercarci» mormorai spaventata. «Ha detto di stare attenta».

Mio marito serrò la mascella. «Non ho sentito i suoi pensieri, solo dei frammenti. Aveva un forte istinto di ricerca, e la spingeva dritta verso nostra figlia».

Mugolai, stanca, lasciandomi andare contro il sedile.

Sentii la sua mano carezzarmi la guancia. «Resisti, siamo quasi a casa».

Edward, Jasper, Alice e Rosalie andarono partirono in cerca di Kate e la cercarono ininterrottamente per ben una settimana. Carlisle continuò a somministrarmi flebo di ferro e vitamine e farmaci per stimolare il mio corpo a produrre più sangue, ma la mia emoglobina non saliva. Era ferma a sette da ormai cinque giorni e tutti noi sapevamo che stavamo procrastinando l’inevitabile.

Mi guardai allo specchio del bagno, osservando la pelle pallida e le occhiaie.

«Stai bene?» mi domandò Esme. «Hai bisogno di aiuto?» fece, circondandomi con un braccio e guidandomi verso la camera da letto.

«Grazie» dissi soltanto, sedendomi sul bordo del letto e stringendomi le mani sulla pancia gonfia.

Edward e Carlisle entrarono nella stanza.

«Hanno chiamato?» domandai ansiosa.

Edward scosse il capo, venendomi subito accanto. «Non ancora».

«Mi chiedo chi… chi è che deve venire a cercarci» ansimai preoccupata. Avevamo vagliato tantissime ipotesi. I Volturi? Altri mezzo-sangue? I lincantropi? I veri licantropi? Qualcun altro? E mi chiedevo ancora, in continuazione, chiunque fosse, se saremmo stati in grado di affrontarlo.

Mi carezzò i capelli. «Chiameranno appena la troveranno».

Deglutii. «Non la troveranno» dissi convinta «così come è riuscita a trovare la bambina ha l’istinto di fuggire da loro» presi un respiro, affaticata «ha paura».

Mio marito sfiorò le mie mani con la sua. «Non ti stancare».

Sollevai lo sguardo su mio suocero. «Carlisle» lo chiamai affannata «temo che sia arrivato quel momento. Non lo possiamo più rimandare».

Mi guardò concentrato. «Non vuoi aspettare un altro paio di giorni? Stiamo pensando al modo migliore per farlo».

La bambina si mosse, facendomi quasi il solletico. Era debole, si muoveva appena. Scossi il capo, abbandonando poi la testa sulla spalla di Edward, troppo stanca per tenerla su. «È debole. Sta male, ma non vuole prendere il mio sangue perché…».

«…sa che sta male anche Bella» concluse mio marito, lasciandomi un bacio sulla fronte. Sospirò, spostando lo sguardo sul padre. «È arrivato il momento» commentò teso.

Carlisle tentennò, preoccupato.

Esme si avvicinò al suo fianco, abbracciandolo. «Bella riuscirà a farlo. La bambina è tutto per lei adesso. Ci riuscirà» disse al suo orecchio.  

Annuì, voltandosi a guardare fiduciosamente la moglie. «Proviamoci, se è quello che vuoi».

Edward insistette per farlo in camera. Non voleva farlo in soggiorno perché odiava che lo collegassi all’idea del cibo.

«Dovremmo farlo con il sangue umano, va bene?» mi domandò, pesando le parole, attento a non turbarmi.

Ma per quanto fossi motivata la cosa mi turbava eccome. «Non c’è altro modo?» domandai scossa.

Carlisle si avvicinò con calma. «Nel libro sono descritte entrambe le tipologie di diete, ma le donne che hanno bevuto sangue animale hanno dovuto farlo per molte più volte. Se decidi di bere il sangue umano» continuò cautamente «potrebbe bastarne solo una».

Edward mise una mano sulla mia. «La decisione spetta a te. Sarà il sangue di un donatore».

Deglutii, mandando giù i succhi gastrici. Sarebbe stato tremendamente difficile. «Va bene» mormorai piano, stringendo la mano di mio marito. «Facciamolo così, come lo avevate pensato».

Esme decise di allontanarsi, non sentendosi confidente ad essere vicina a così tanto sangue umano. Carlisle andò a prepararlo, dicendomi che sarebbe stato più facile se fosse stato più caldo. Mi venne da vomitare, ma repressi il conato.

«Di cosa sa?» domandai a mio marito.

Si bloccò, spiazzato dalla mia domanda.

Presi un respiro. «Intendo… l’odore del sangue mi ha sempre disgustato e fatto sentire male, ma per voi non dev’essere così, immagino. Credo che debba essere buono».

Mi guardò di sottecchi da sotto un ciuffo di capelli bronzei. «Cambia un po’ in base al tipo di preda. Quello… dei carnivori è più buono» mi spiegò con calma, studiando le mie reazioni parola dopo parola. Dovette vedere qualcosa che lo spinse a continuare. «Non lo so paragonare al sapore del cibo umano» fece, perdendosi con lo sguardo nel vuoto «ma è delizioso. È saporito, e quando lo senti in gola è come burro caldo che lenisce all’istante ogni bruciore» fece, e potevo vedere dalla sua espressione come nella sua mente stesse contemplando l’idea di un pasto. S’interruppe, spostando lo sguardo su di me, teso. «Scusami, ti ho turbato?».

Sorrisi dolcemente, carezzandogli la guancia. «No» mormorai fiacca «grazie. Cercherò di immaginarmelo così».

Mi sorrise a sua volta, posando la sua fronte sulla mia. «Sei la persona più coraggiosa che conosca».

Carlisle entrò nella stanza con un bicchiere di plastica opaco ed una cannuccia.

Sospirai. «Aspetta a dirlo» mormorai già nauseata.

Mio suocero mi porse il bicchiere, ma fu Edward a prenderlo, trattenendolo nella sua mano. «Possiamo farlo anche in un altro modo» disse apprensivo «Carlisle può metterti un sondino naso-gastrico. Il tubicino dà un po’ fastidio, ma possiamo metterlo direttamente nel tuo stomaco in modo che tu non ne senta il sapore».

Scossi il capo, ancor più nauseata all’idea. Sentii la bambina carezzarmi la pancia da dentro. Portai una mano a coprirla «È curiosa. Vuole sentirne il sapore».

Edward sospirò. «Facciamolo e basta» disse, porgendomelo.

Lo presi dalla sua mano e chiusi gli occhi. Sentivo il contenitore tiepido fra le mani. Non volevo vedere il rosso del sangue avvicinarsi alle mie labbra attraverso la cannuccia. Deglutii più volte, tentando di bloccare la mia salivazione.

«Prediti il tempo che ti serve» disse cortese Carlisle.

Annuii. Dovevo farlo a basta. Feci per prendere un sorso, ma quando il sangue salì fino a metà cannuccia feci l’errore di aprire gli occhi e l’odore mi arrivò alle narici. Mi piegai oltre il bordo del letto a vomitare.

«Mi dispiace» mormorai fra le braccia di Edward che mi sostenevano.

«Shh, non essere dispiaciuta. Non è colpa tua. Non avresti mai dovuto fare una cosa del genere» mi consolò.

«Ti prego, lasciami riprovare» lo implorai.

«Bella» ansimò, spiazzato. Gli sembrava come di dover corrompere la mia natura umana, come di dovermi fare un maleficio. Lo faceva soffrire enormemente vedermi così, in lotta contro me stessa, contro la mia parte più pura e santa.

«Sai che non c’è altro modo» ansimai stanca.

Chiuse gli occhi, addolorato e combattuto fra l’amore che aveva per me e quello che aveva per la bambina. «Lo so».

Mezz’ora più tardi ci riprovai per la seconda volta. Insistetti per avere accanto a me una bacinella per poter vomitare se ne avessi avuto bisogno. Cercai di calmarmi per impedire alle mie emozioni di prendere il sopravvento.

Guardai mio marito e lui annuì, infondendomi coraggio.

Chiusi gli occhi e mi ripromisi di non aprirli per alcuna ragione al mondo.

Quando tirai su il primo sorso l’odore sgradevole mi sorprese ancora, ma deglutii il sangue, mandandolo giù insieme ad un conato. Era caldo e Carlisle aveva avuto ragione. Era più tollerabile. Non appena sentii il liquido caldo scendere nello stomaco sentii l’emozione più forte che avessi mai percepito da mia figlia: puro piacere.

Mi staccai dalla cannuccia, aprendo le palpebre, sconvolta.

«Bella?» mi chiamò ansioso mio marito «tutto bene?».

Annuii, ancora frastornata. «Lei… le piace» mormorai sconvolta, carezzandomi la pancia.

Bettè le palpebre, concentrandosi sui suoi pensieri. «Sì. Le piace molto» commentò quando la bambina si mosse, dandomi un calcetto.

Presi coraggio e feci un altro lungo sorso. Il sapore e l’odore erano quelli del sangue e mi disgustarono. Respirai con il naso, sofferente, e lasciai che la bambina mi inondasse con le sue emozioni. Mi interruppi ancora, cercando di controllare la mia nausea. Se volevo farcela dovevo lasciare che il suo istinto prendesse il sopravvento su di me. Così mandai giù sorso dopo sorso, provando a non pensarci, concentrandomi solo sul piacere che mi dava e non sul sapore rivoltante che mi faceva vomitare. Continuai finché incredibilmente non sentii il suono di un risucchio: era finito.

Mi lasciai andare con un respiro affannoso sulle coperte, ancora vinta dall’istinto di mia figlia. Sentivo ancora il sapore del sangue sulla lingua.

Mi strinsi in posizione fetale, proteggendo la pancia con le braccia e dondolandomi piano avanti e indietro. Ero pallida e sudata e tremavo, cercando con tutta me stessa di non vomitare. Sarebbe stato tutto inutile.

«Le prendo dell’acqua» disse Carlisle, scomparendo immediatamente alla mia vista.

«Sei stata bravissima, davvero bravissima» mormorò al mio orecchio mio marito, carezzandomi la schiena madida di sudore.

Chiusi le palpebre, cercando di calmarmi. Più e più volte mi trovai a reprimere un conato. Bevvi un po’ d’acqua e mi feci coraggio per masticare un po’ di mollica di pane, sperando che cancellasse il sapore che avevo in bocca.

«Oh» esclamai, piegandomi su me stessa. Era il calcio più forte che la bambina mi avesse mai dato. Mi strinsi sulla pancia il punto dove aveva colpito. «È più forte» dissi speranzosa, guardando mio suocero che mi scrutava, attento.

Mi sorrise. «Sì, lo sentiamo anche dal suo battito. Stai bene?».

Sospirai, stanca. «Mi viene ancora un po’ da vomitare».

Mi venne incontro, posando il dorso della mano sulla mia fronte e studiandomi con i suoi occhi gentili. «Posso darti un farmaco per farti stare un po’ meglio».

Annuii. C’era stato già abbastanza eroismo per quel giorno.

Edward mi aiutò a lavarmi e a mettermi un pigiama asciutto e pulito. Mi strinse a sé, cullando me e la bambina mentre la flebo faceva il suo effetto ed io mi sentivo sempre meglio.

Con le dita carezzai il suo petto, persa nei miei pensieri. «Ti ha turbato?» sussurrai a mezza voce.

Lo sentii stringermi più forte per qualche secondo, e per me fu una risposta.

Sospirai, pensando all’immagine che doveva avere di me in quel momento. «Mi dispiace…».

«No» mi bloccò, continuando a cullarmi ed accarezzare il pancione. Parlava piano nella penombra della stanza. «Pensavo che mi avrebbe turbato, ma non lo ha fatto. Pensavo che avrebbe distrutto la tua purezza, la tua umanità, la tua sacralità» disse piano «ma tutto quello che ho visto era una madre che si sacrificava per suo figlio. E non c’è niente di più puro al mondo».

Mi rilassai, accucciandomi sul suo petto, stanca e sollevata. «Grazie di essermi sempre rimasto accanto. Non l’ho mai dato per scontato» mormorai assonnata.

«Era il mio posto» sussurrò al mio orecchio, cullandomi ancora finché non mi addormentai.

L’indomani mi sentii decisamente meglio. Mi svegliai da sola e fui contenta di fare una normale colazione umana. Per tutto il tempo la bambina si mosse tantissimo, agitandosi e dandomi pugni e calci.

Ero seduta all’isola della cucina, disegnando con la mia matita morbida, quando Edward si avvicinò.

«Come sta la nostra mammina preferita?» mormorò al mio orecchio, abbracciandomi il pancione da dietro.

Mi voltai con un sorriso a lasciargli un bacio sulle labbra. Mi sentivo meglio, e Carlisle mi aveva detto che la mia emoglobina era già salita. «Sto bene» lo rassicurai.

Esme entrò in casa, posando un vaso con un bel mazzo di fiori in soggiorno. «Posso?» fece, gentilmente. «Come stai tesoro? Ti vedo meglio» disse con un sorriso felice, carezzandomi dolcemente la pancia.

La bimba le restituì un calcetto. Aprì la bocca, sorpresa. «L’ho sentita» disse contenta.

Ridacchiai. «Sì, si è mossa un sacco. Mi sento tutta la pancia indolenzita e la pelle tesa come se mi stessero facendo un lifting».

I suoi occhi dorati si concentrarono sul pancione. Si volse verso Edward con un sorriso. «È cresciuta».

Mio marito, alle mie spalle, annuì. «Sì, è cresciuta».

Sorrisi, accarezzandola a mia volta. «Bene».

Esme indicò il disegno sul ripiano di marmo. «Pensavo che volessi prenderti una pausa dagli studi».

Scrollai le spalle. «Non è per studio» dissi, riprendendo in mano la matita e sistemando un dettaglio degli occhi «volevo fare un disegno di Kate in modo che fosse più facile trovarla».

Edward si bloccò, sorpreso.

«Amore, tutto bene?» domandai preoccupata, voltandomi a carezzargli il viso.

Crucciò le sopracciglia, un’espressione seria in viso e lo sguardo fisso sul mio disegno. «È lei» mi disse, voltando lo sguardo su di me «la donna che era in mare, quella che tuo padre ha cercato di salvare. Ha già tentato di avvicinarsi a noi».

Sgranai gli occhi, sorpresa. «Credi che Philip lo sapesse?».

Scosse il capo, pensieroso. «L’ho chiamato, prima. Gli ho detto che non siamo riusciti a trovarla e che i miei fratelli stanno tornando a casa. Si è molto infuriato».

«Oh, Edward» sospirai. Per quello che ne sapevo non l’avremmo mai trovata se lei stessa non si fosse fatta trovare.

Più tardi, quella sera, massaggiai il pancione, stesa sul letto di camera mia, accanto a Edward, stanca.

«Credo che dovremmo andare avanti proprio come abbiamo fatto. La bambina crescerà meglio ora, sfruttando il sangue che le hai dato, e anche tu starai meglio. In merito a Kate… Dobbiamo solo aspettare. Ma per ora prometti che ti rilasserai?» chiese, e sentivo una maggiore serenità anche nella sua voce.

Chiusi gli occhi e sorrisi, striracchiandomi. «Non ti dirò di sì» feci, impertinente. «Oh» li spalancai, mettendomi seduta e portandomi le mani al ventre. «Che calcio» borbottai.

Edward tolse dolcemente le mie mani, massaggiandomi il punto esatto in cui mi aveva colpita. « d’accordo con me» dichiarò tranquillo. Scese con il viso a baciarmi il ventre scoperto. «Facciamo rilassare la mamma» mormorò con un sorriso, lasciandomi piccoli baci, «deve riposarsi».

Sorrisi. Era sempre così, non dovevo stupirmi di amarlo. «Proverò a rilassarmi, lo prometto. Ma non è facile, lo so» gli accarezzai distrattamente i capelli, ripensando a tutto l’incidente, ad ogni problema, «Edward» mormorai «pensavo, che forse potremmo scoprire qualcosa che riguarda… i sogni. Della bambina. Da quel libro, intendo».

Strofinò la punta del naso sul ventre. «Non abbiamo letto ancora nulla a riguardo. Forse, a breve troveremo qualcosa» sollevò il viso, parlando con leggero astio «magari se il profes…».

«No» lo interruppi, «è estremamente turbato dalla storia di Kate, ed ha già fatto molto, per noi. Non avercela con lui». Pensare a quell’uomo mi causava un certo doloroso languore nel petto, sempre. Mi pentivo di averlo odiato così tanto.

Edward serrò la mascella, squadrandomi. «Ci proverò» mormorò infine. Distese la fronte e posò il capo sul mio grembo.

«Magari troveremo qualcosa» sussurrai, riprendendo ad accarezzare la sua chioma.

«Rilassati Bella. Rilassati. Tutto a tempo debito» mormorò, gli occhi chiusi, il viso rilassato. Se non avessi saputo con certezza della sua natura avrei detto che si sarebbe ben presto addormentato.

Passarono alcuni minuti, silenziosi, in cui rimuginai e fantasticai su quello che avremmo potuto trovare, e sul se, avremmo trovato qualcosa. «Chissà, forse, se…».

Si sollevò, aprendo gli occhi di scatto e spostandosi velocemente. Mi ritrovai con il respiro corto, la schiena contro il suo petto, il fiato sul mio collo. «Chissà, forse, se… Bella, che ne dici di una distrazione migliore?». Mi baciò audacemente, risalendo con la mano sotto la maglietta, verso l’alto.

Deglutii. «Magari sì» farfugliai, abbandonandomi al suo corpo.

   
 
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