Posai il palmo della mano, aperto,
sul suo petto nudo,
e con un dito tracciai la forma di un cuore, servendomi della schiuma
bianca
che aleggiava nella cabina della doccia.
Avevo la mente ancora un
po’ appannata. La sera
precedente, mentre tornavamo dall’ospedale di Seattle, ero
stata zitta e
pensierosa, rimuginando sulle parole di mio marito e sulla mia
reazione.
Forse si dà ogni cosa
per scontata finché non la si
perde. Forse l’affetto che si offre è spesso muto
e silenzioso. Forse, è nella
natura e nella morale umana provare pietà.
Mi feci baciare le labbra,
lasciando che le sue mani
sciogliessero i miei pensieri insieme al getto caldo
dell’acqua.
Ringraziai ancora una volta il
cielo di avere accanto
a me un angelo come Edward, che tacitamente mi aveva supportata e
aiutata in
ogni istante, senza essere mai troppo invasivo.
Mi lasciai dondolare sulla sedia di
legno, accanto al
camino, accarezzandomi la pancia. Fortunatamente pareva che la bambina
stesse
bene e che non avesse riportato nessuna conseguenza in seguito allo
svenimento.
Non me lo sarei di certo perdonato.
Per un attimo il mio sguardo si
posò sul libro, in
bella mostra sul tavolo del soggiorno. Sapevo che sia Carlisle, sia
Edward,
erano già a conoscenza di molte cose racchiuse in quel
libro. Era passata una
notte, tempo più che sufficiente per leggerlo completamente,
ma sapevo che
avevano tutta l’intenzione di comprenderlo a fondo e
analizzare ogni parte con
molta calma.
Io, invece, non l’avevo
ancora neppure aperto. Molto
probabilmente per leggerlo ci avrei impiegato quantomeno tre o quattro
anni,
considerando che era perlopiù scritto in lingua straniera e
antica.
Esercitava su di me uno stranissimo
fascino. Un
fascino così particolare da rendermi prudente. Tuttavia
ero piuttosto certa che fosse giunto il momento adatto per cominciare a
sfogliarlo, e magari decifrarlo.
Sollevai la schiena, intenzionata
ad alzarmi, e sentii
due mani fredde afferrarmi per i fianchi e farmi scivolare sopra un
corpo fin
troppo conosciuto. Mi voltai a guardare mio marito con aria
interrogativa. I
suoi lineamenti erano dolci e delicati, come al solito, eppure ero
certa di
scorgervi una certa serietà.
«Devo parlarti».
«Si tratta
dell’ecografia?» corrugai le sopracciglia
«avete scoperto qualcosa?».
Scosse brevemente il capo,
lasciando gli occhi fissi
nei miei e ricominciando a dondolare. «Sì, abbiamo
scoperto qualcosa. Molto, a
dir la verità, ma no, non ti voglio parlare di
questo» fece con un sorriso
appena pronunciato.
Lo osservai alcuni secondi. Aveva
un’aria davvero
strana. «Avete scoperto qualcosa di brutto?»
chiesi, trattenendo immediatamente
il fiato.
«No, no»
rispose velocemente, prendendomi il viso fra
le mani, «non si tratta di questo. È una cosa di
cui averi voluto parlarti
ieri». Stetti in silenzio, aspettando ansiosa che
continuasse. «Bella, ieri è
successa una cosa di cui ho sempre avuto timore, e che non avrei mai
voluto che
accadesse. Sono serio, non sono arrabbiato»
precisò, con tono calmo «non voglio
che tu trascuri te stessa. Non voglio che tu stia male
perché non hai mangiato
o perché non hai dormito, e sei così adulta e
matura da essere consapevole di
quello che fai».
Arrossii, abbassando il capo e
mordicchiandomi il
labbro. E così mi stavo beccando una bella ramanzina;
dopotutto me la meritavo.
«Mi dispiace» farfugliai «ho…
fatto correre rischi inutili alla bambina e…».
Mi sollevò nuovamente il
viso. «Non è per la bambina
che lo dico, non solo, e comunque, non voglio che tu pensi
questo» mi fissò
crucciato. Poi sospirò, distendendo la fronte
«ieri quando Amber mi ha chiamato
ho avuto paura che la tua emoglobina fosse scesa troppo, che non avrei
fatto in
tempo, o che ti avrebbero fatto una trasfusione. Ho avuto paura e mi
sono
sentito impotente. So che per la bambina faresti ogni cosa, ma prima di
tutto
voglio che tu lo faccia per te stessa. Siamo
d’accordo?».
Annuii. «Non era mia
intenzione farti preoccupare»
biascicai, il viso premuto contro il suo petto.
Sentì il fiato freddo
sui miei capelli. «Sempre la
solita» borbottò. «Come ti
senti?».
Scrollai le spalle. «Un
po’ fiacca, ma sto bene. Non
mi sento più svenire».
«Bene. Carlisle vuole
fare almeno un paio di cicli di
terapia questa settimana, dato che l’emoglobina è
scesa ancora».
«Le mie povere
vene» borbottai, stringendomi l’incavo
del gomito.
«Non credo tu preferisca
l’alternativa».
Rabbrividii, nauseata.
«No».
Si alzò dalla sedia,
facendo sollevare anche me.
«Vestiti, andiamo in ospedale» disse, prima di
scomparire in un istante.
Non feci a tempo a rielaborare le
sue parole che i
miei occhi caddero nuovamente sul grosso tomo consunto. Mossi due passi
verso
il tavolo, posai le dita sulla copertina spessa, osservandola ancora
una volta.
«Bella, sbrigati, ti devo
spiegare tante cose».
Sobbalzai, lasciando il libro a
malincuore
abbandonato.
«Così riguarda
la composizione della membrana che la
protegge?» chiesi, ancora fin troppo disorientata.
Svoltò con precisione,
imboccando il parcheggio
dell’ospedale. «Sì, esattamente. Sai che
ogni organo del corpo umano è formato
da tessuti e quindi da cellule?». Annuii, invitandolo a
continuare. Parcheggiò
l’auto e poi riprese, voltandosi verso di me.
«Anche la placenta, questa
membrana, un organo a tutti gli effetti, è formata da tante
cellule. Ecco, fino
ad ora le cellule erano state in tutto e per tutto identiche alle
mie».
«Perfette, spesse,
indistruttibili, fredde».
«Esatto. E di certo non
sarebbe stato possibile vedere
quello che tu hai visto ieri se fossero ancora
così».
«Cos’è
successo allora?» chiesi perplessa.
Sorrise, comparendo in un istante
al mio fianco, la
portiera aperta. «Credo che questo sarà felice di
spiegartelo Carlisle. Ci sono
mille cose di dirti, così tante che non ho idea di dove
cominciare».
Mio suocero aveva l’aria
di un bambino il giorno di Natale.
Sì, il suo meraviglioso contegno si scioglieva come neve al
sole di fronte ad
una scoperta scientifica. Dopotutto, ognuno di noi aveva un punto
debole.
«Le cellule che finora
hanno formato la placenta sono
un patrimonio importantissimo» mi spiegò,
concentrato a tracciare delle linee
su un foglio di carta «non possono aumentare di numero, come
non lo può fare
alcuna altra cellula che forma il mio corpo, o quello di Edward. La
bambina ne
ha altre, molte, dentro di sé, che servono per costituire
parti fondamentali di
alcuni organi, come per esempio il cuore, il fegato, delle cellule
nervose,
parte del cervello» sollevò il viso su di me,
lasciando cadere la penna sulla
scrivania, «perdonami, questo è un altro discorso,
non voglio confonderti».
Accennai un sorriso, scuotendo il
capo.
«Dunque» riprese «queste cellule,
sostituite da altre cellule umane,
si stanno staccando dalla placenta,
finendo nel liquido amniotico, fino ad andare a
formare…» mi porse il foglietto
su cui aveva disegnato «ecco, fino ad andare ad unirsi a
quelle della pelle
della bambina».
Fissai il disegno sconcertata,
analizzando con
precisione le varie fasi e rielaborando le sue parole.
«Quindi…» balbettai.
«Quindi alla fine della
quaranta settimane la placenta
sarà identica a quella di qualsiasi altro essere
umano».
«E la pelle della
bambina, seppur mista e per questo
in grado di crescere, molto più simile alla mia»
completò Edward, con un
sorriso.
Li osservai in silenzio, facendo
scorrere lo sguardo
fra loro al foglietto che avevo fra le mani. Mi portai una mano al
ventre,
sentendo la bambina muoversi e provando ad interiorizzare quello che
avevo
appena ascoltato. Era difficile pensare che tutto quello stesse
avvenendo
dentro di me.
«Dubbi,
perplessità? Domande?».
Sollevai il viso verso quello di
Carlisle. «Quindi»
feci, cauta «non c’è bisogno che io
faccia un taglio cesareo?».
Sorrise. «Beh, non vorrei
essere troppo affrettato, ma
credo di poterti dire con una certa sicurezza…
sì. Potrai partorire tua figlia»
concluse smagliante.
«Amore, sta
ferma» mi ammonì dolcemente Edward. Ero
stesa sul lettino e intenzionata a non perdermi nessuna delle immagini
che la
sonda avrebbe captato durante l’ecografia. Sospirai,
riabbassandomi con la
testa sulla carta ruvida, attendendo silenziosa e cercando in ogni caso
di
sbirciare il monitor.
«Non sarà
facile vederla, ma dobbiamo approfittarne
ora, perché adesso riuscirò ad analizzare al
meglio anche i suoi organi interni»
spiegò Carlisle, gli occhi puntati sul monitor
pressoché nero.
Edward si voltò verso di
me al mio ennesimo movimento.
«Guardami» mi ordinò «non
appena si vedrà guarderemo insieme, va bene?».
Annuii, guardandolo negli occhi e
lasciandomi
accarezzare le mani, nelle sue. Eppure
mi sentivo
incredibilmente emozionata, spiritata, quasi. Sì, certamente
quella sarebbe
stata la descrizione più adatta.
«Ecco». La voce
di mio suocero mi fece voltare la
testa di scatto verso il monitor. «Ecco qui…
c’è la testa, sì, la vedi
Bella?».
Annuii frettolosamente, le lacrime
che cadevano giù
incontrollate. Sentii la presa di Edward farsi più forte
sulle mani, fino quasi
a farmi male, ma non me ne curai.
«Vediamo se
riesco… sì. Questo è un braccio, lo ha
piegato sotto il mento. Mi dispiace che non si veda per intero, ma qui
si vede
anche una gambina, è in una posizione molto buffa».
Mi voltai velocemente verso mio
marito, senza vederlo
per le lacrime che mi offuscavano gli occhi. Le asciugò
velocemente, baciandomi
gli occhi, le palpebre, la bocca. «È
magnifica» sussurrai, la voce strozzata
dal pianto «somiglierà a te».
«Sarà un
perfetto punto d’incontro».
Scossi il capo, testarda.
«Somiglierà a te».
Mi lasciai torturare la pancia di
buon grado per un
tempo che parve troppo breve per i miei gusti. Era il primo contatto
visivo che
avevo con la piccola, ed era davvero stupendo. Immaginai le mille donne
stese
su quel lettino a contemplare l’immagine del nascituro. Cosa
c’è di più bello di
una vita che viene alla luce? Cosa c’è di
più bello dell’amore che si
concretizza in un essere animato? Lasciar creare la vita dentro
sé stessi… la
meraviglia e lo stupore del mondo.
«La sua testa
è qui» disse Carlisle, indicandomi un
punto poco superiore all’ombelico «qui
c’è la schiena» fece, facendo scorrere
due dita verso destra, «e qui i piedi. Sicuramente facendo
attenzione riuscirai
ad individuarne la posizione anche tu».
«È normale che
stia così?» chiesi titubante,
arrossendo imbarazzata per la possibile ingenuità della
domanda.
«Intendi con i piedi in
basso?» chiese con un sorriso
«Non ti preoccupare Bella, ha ancora tanto tempo per girarsi.
Si muoverà
parecchio adesso».
Sorrisi anch’io,
saettando con lo sguardo sul viso
sorridente di Edward «La sento».
Nell’ultimo periodo, infatti, i suoi movimenti
erano più decisi e amplificati, e decisamente superiori di
numero. Era davvero
molto attiva.
«Bella» mi
richiamò un attimo mio suocero, con uno
strano tono piuttosto controllato.
«Sì».
«Dovrei prendere le
dimensioni». Mi sorrise, prendendo
il metro e iniziando a misurare.
Mi girai verso Edward, fissando il
suo volto. Mi
pareva normale, tranquillo. Mi accarezzò il viso e mi
baciò il naso. Sorrisi.
Quando finì di misurare,
sentii il rumore delle
rotelle della sedia che strisciavano contro il pavimento, e mi voltai a
fissare
Carlisle. Guardò prima Edward e poi me. «Volevo
avere la conferma» sollevò le
sopracciglia «è un po’
piccola».
Sentii immediatamente
l’impeto di rossore sulle
guance, causato dal cuore che aveva aumentato i suoi battiti.
«Piccola?»
chiesi, la bocca secca. Edward mi prese le mani fra le sue,
stringendole, ma io
continuai ostinatamente a fissare Carlisle.
Rispondeva al mio sguardo, con
tranquillità e
pacatezza. «Non ho mai potuto fare un’ecografia e
per questo confrontare, ma
Bella, ascoltami. Non ti agitare. Innanzitutto, per le misurazioni che
ho preso
in precedenza, la pancia è sempre cresciuta in maniera
costante. In secondo
luogo, e questo è quello che ti deve rassicurare
maggiormente, la bambina è ben
proporzionata. Terzo, ho detto “un
po’”.
Molto probabilmente è solo costituzionalmente
piccola».
Continuavo a guardarlo in silenzio,
e ben presto i
miei occhi sempre fermi, si trovarono a fissare un imprecisato punto
vuoto.
Sentivo un peso sul petto, razionalmente inesistente. Respirai piano,
provando
a scacciarlo via.
«…faremo delle
analisi e due visite al mese d’ora in
poi».
«Carlisle»
domandai un po’ preoccupata «pensi che
possa dipendere dal fatto che non sto…» deglutii
«bevendo il sangue?».
Si scambiò uno sguardo
con mio marito e mi agitai.
«È
così?» domandai, portandomi una mano alla pancia.
Era sempre stata un po’ piccola, lo immaginavo. Ma averne la
certezza mi preoccupava
molto.
Fu Edward a rispondermi.
«Nel libro non c’è scritto
nulla di esplicito riguardo a questo perché tutte le donne
che…» sospirò,
guardando in basso «sono sopravvissute, hanno bevuto il
sangue almeno due o tre
volte durante la gravidanza».
«Oh Dio»
sussurrai «l’altra volta è cresciuta
molto
dopo la mia anemia. È cresciuta dopo che ha usato il mio
sangue» feci
preoccupata. Mi sentivo in colpa, perché pensavo di non aver
fatto tutto il
possibile per mia figlia.
«Bella». Mi
voltai verso mio marito. «Stai tranquilla,
la bambina sta crescendo, si vede dalla tua pancia» disse, e
mi sorrise,
accarezzandomi il pancione. Sembrava tranquillo, e mi chiesi come
potesse
esserlo.
«L’importante»
riprese Carlisle, sollevandosi dalla
sua sedia «è che tu stia tranquilla, e cerchi di
agitarti il meno possibile. Mi
rendo conto che molte cose che sono successe in questi mesi possano
averti
portato in uno stato d’ansia frequente, ma ai bambini non
piace l’adrenalina. Ti
prometto che dalla nostra parte ti daremo tutto il supporto
farmacologico possibile
per garantire alla bambina il nutrimento necessario. Anzi, iniziamo
adesso un
ciclo di terapia, e lo ripetiamo fra due giorni. E se
l’emoglobina non
risalirà… allora agiremo di
conseguenza» finì con un sorriso «Va
bene?».
Annuii malvolentieri, lasciando che
facesse il
necessario per somministrarmi la terapia di cui avevamo bisogno.
«Ripetimi quanto era la
mia emoglobina oggi» dissi,
uscendo dalla porta dell’ospedale mano nella mano con Edward.
Stava per sospirare, ma si
trattenne pazientemente.
Sapeva che avevo bisogno di rassicurazioni. «8.7.
È bassa, ma sai che è scesa
anche molto di più l’altra volta. Possiamo
aspettare».
Sollevai lo sguardo sul parcheggio,
pensierosa. «Lo
so. Mi chiedo se sia giusto farlo».
«Bella» mi
chiamò, facendomi voltare nella sua
direzione «non voglio che tu lo faccia se non è
strettamente necessario. Non mi
va che ti esponga a questa cosa mentre sei ancora umana».
Deglutii, preoccupata.
«Tu stai male quando hai sete,
quando non vai a caccia per tanto tempo. Se per lei fosse lo stesso? Se
fosse
sempre assetata?».
Posò una mano sul
pancino che tendeva i bottoni del
giaccone in cui ero avvolta. «Sento i suoi pensieri e sta
bene, e tu senti le
sue emozioni, ed è tranquilla e felice. Secondo me dovremmo
aspettare, ma se tu
non ce la fai, se pensi che sia arrivato il tempo, organizzeremo tutto.
Voglio
che tu sia serena».
Mi mordicchiai il labbro,
combattuta. «Va bene» mi
arresi infine «aspettiamo».
Sorrise, contento della mia
decisione. «Bene. Sai, la
dieta di nostra figlia sarà mista, a base di cibo umano per
i primi tempi, a
cui aggiungerà pian piano anche il sangue. Penso che adesso
dovremmo nutrire
te. Vuoi mangiare?» chiese guidandomi nel parchetto adiacente
all’ospedale.
«Non lo so, non ho molta
fame, mi sento un po’
scombussolata».
«Scombussolata?» chiese
perplesso, arcuando un
sopracciglio.
«Sì» annuii, «sono
preoccupata, ma sono anche felice di
aver finalmente visto la bambina» balbettai, emozionandomi al
ricordo.
La sua espressione si
addolcì. «È stato molto bello.
Ma non hai mangiato niente stamattina, e malgrado non sia ancora ora di
pranzo
non vorrei replicare l’esperienza di ieri».
Esitai, temporeggiando e tenendolo
sulle spine. «Pizza?»
chiesi sorridente, «lo dice la bambina» mi
giustificai.
Sorrise, stando al gioco.
«Pizza sia. Mi aspetti
qui?».
Mi strofinai la punta del naso,
congelata per il
freddo di gennaio. «Vado in macchina» dissi,
tendendo il palmo della mano aperto.
Ci fece cadere le chiavi e mi
baciò le labbra.
Me ne stetti in auto ad aspettare.
Piuttosto che
accedere i riscaldamenti preferii stringermi nel mio giaccone,
strofinando le
mani una contro l’altra. Il freddo poteva diventare pungente
e fastidioso, il
caldo decisamente insopportabile. Accarezzai sbadatamente la pancia,
distratta dai
miei pensieri. Mi dovevo fidare di mio marito e di mio suocero, che da
sempre
si erano presi cura di me. Ma loro ragionavano lucidamente, valutando i
rischi
per me e per la bambina e pensando più che altro al mio
benessere. Quello
strano istinto materno che stava crescendo sempre di più mi
spingeva solo a
considerare i rischi per la bambina.
Rabbrividii, e decisi che accendere
i riscaldamenti
non sarebbe stata un’idea così assurda, poi,
considerando che non era solo per
mio piacere che dovevo farlo. Edward aveva ragione, avrei dovuto essere
più
attenta.
Notai, appena sotto il sedile, la
mia borsa. Sospirai,
sollevando un sopracciglio. Avevo portato il libro con me.
Una
crescita variabile, rallenterà sempre
più. La sua pelle morbida come la
pesca e resistente come il diamante. In grado di correre come una
gazzella
senza perdere fiato. Forte tanto da stupire ogni mortale. Ogni bellezza
e
qualità sboccerà crescendo col tempo. Una
creatura decisamente molto potente,
con un ascendente incredibile. Ammaliante. Affascinante.
L’imperfezione nella
perfezione.
Queste erano solo poche delle
qualità descritte da
Carlisle, qualità che la mia bambina, come ogni altro
mezzo-sangue, avrebbe
avuto una volta nata.
Era stupefacente, e meraviglioso,
sapere che tutto
quello era rinchiuso in me. Mi aspettavo di scoprire ancora molto, su
di lei.
Mi aspettavo di scoprire qualcosa di non perfettamente positivo, anche.
Come
l’origine dei suoi strani sogni.
E se… quanto avrei
dovuto aspettare? Mi morsi un
labbro, tesi le dita verso la copertina di cuoio, sentendo una certa
forte
emozione crescere in me, e mischiarsi con la confusione della piccola.
Sollevai il viso, cauta, lanciando
un’occhiata intorno
a me per verificare che nessuno mi stesse osservando. Un pick-up blu,
molto
simile al mio vecchio modello ormai abbandonato, passava a
velocità sostenuta
sulla strada ghiacciata.
Un altro dettaglio
catturò la mia attenzione. Era una
ragazzina con un cono gelato ed un vestitino estivo con i fiorellini.
Stava
attraversando la strada, concentrata sul suo gelato.
Scattai immediatamente in mezzo
alla strada,
repentina, prendendola fra le braccia e stringendola a me.
Sentii il suono stridente dei freni
e immediatamente
mi voltai a fissare, attonita, il paraurti dell’auto. Si
bloccò, cozzando
contro il mio scudo invisibile, scivolando con le ruote sul ghiaccio.
Rilasciai il respiro che fino ad
allora avevo
trattenuto. Mi sentivo intontita per tutto il potere che era uscito
velocemente
da me.
E mi resi conto, agghiacciata, di
quello che avevo
appena fatto.
Quando mi voltai la ragazzina mi
restituì lo stesso
sguardo sconvolto.
Strinsi debolmente una mano sulla
pelle nuda delle sue
braccia. Era così fredda… come Edward. Ma quando
sollevai lo sguardo sui suoi
occhi non erano rossi o ambrati. Erano azzurri, chiarissimi, e mi
studiarono
per un lunghissimo tempo. Poi si abbassarono sulla mia pancia e se
possibile la
sua espressione si fece ancor più sorpresa.
Deglutii, staccandomi da lei e
cadendo indietro con il
sedere sul manto stradale ghiacciato.
Mentre il suono delle voci che si
avvicinavano a noi
si fece sempre più forte saltò in piedi,
voltandosi per fuggire.
«Aspetta!» le
dissi preoccupata, tendendole una mano. Tremavo,
e mi sentivo fiacca.
Si voltò, combattuta.
«Perché vai
via? Io so chi sei! Tuo padre ti cerca» le
dissi preoccupata.
Strinse le labbra perfette,
imbronciate, da bellissima
quindicenne. Aveva i capelli castani, morbidi e lunghi e le guance
rosee ancora
piene della giovinezza. «Fai attenzione»
mormorò con la sua dolce voce
melodiosa «Anche loro inizieranno a cercarti. Il tuo bambino
mi ha chiamato
qui. Credo che volesse avvertirti».
Fremetti, inquieta.
«Avvertirmi su cosa?» mormorai spaventata,
ma non ci fu più il tempo. Iniziò a correre ed
improvvisamente mi trovai
circondata da persone.
Il conducente dell’auto
mi parlava concitatamente.
Volevo alzarmi e correre da lei, ma mi sentivo spossata. Sentivo tutto
il mio
corpo irradiare il potere che avevo appena usato. La bambina fece una
capriola
nella mia pancia, il movimento più lungo che le avessi mai
sentito fare, e mi
lasciò quasi senza fiato. Mi portai una mano al ventre,
respirando e sentendomi
improvvisamente più debole. Era preoccupata. «Non
è successo nulla» dissi con
dolcezza, «va tutto bene».
Mi sentii strattonare con decisione
verso l’alto. Fissai
disorientata gli uomini con il camice turchese, usciti
dall’ospedale.
«Signora, sta
bene?».
Non mi voltai a controllare
l’origine di quella voce.
La persona che ora mi stava stringendo il braccio, probabilmente. Il
mio
sguardo cadde sul cono gelato, ora schiacciato contro
l’asfalto.
«Bella!».
Edward.
«Sto bene»
risposi a entrambi. Mi volsi verso mio
marito, che capì subito che qualcosa non andava. Mi feci
stringere al suo
petto. «Era lei, Edward» mormorai a mezza voce
«era Kate, la figlia del
professore».
Mi guardò stupito.
Annuii piano. «Vai a
cercarla» sussurrai, sentendomi
sempre più affannata «non può essere
andata lontano».
«Sei gelata» mi
disse preoccupato, sfregandomi le mani
e la guancia.
Le mie palpebre insisterono per
abbassarsi più volte,
nonostante i miei sforzi per tenerle aperte. «Lei…
sa… sa qualcosa» balbettai
sfinita. Mi strinsi più forte sul suo petto.
«Stai bene?»
domandò preoccupato, stringendomi il capo
con una mano.
«Abbiamo una barella. La
portiamo dentro al caldo»
disse un uomo alle sue spalle.
L’autista si
avvicinò ancora. «Cos’è
successo? È
incinta? Oh, Dio, è la figlia del capo Swan. Se non avesse
spostato quella
ragazzina…».
«Il potere… mi
sento senza forze» biascicai contro il
suo petto.
Edward mi prese fra la braccia,
sollevandosi e
parlando con la piccola folla intorno a noi. «Bisognerebbe
andare a cercare la
ragazza, forse è ferita. Bella sta bene, è solo
molto scossa. La porterò a casa
a riposarsi».
«Edward, sei sicuro di
non volerla far controllare?»
gli domandò il medico alle sue spalle.
Annuì.
«Sì dottor Taylor. I luoghi affollati la fanno
stare peggio. Mia moglie è molto… delicata. La
farò controllare da mio padre a
casa più tardi. Grazie per il suo aiuto» disse con
cortesia.
«Capisco» disse
l’uomo, dando indicazioni alla sua
squadra di ritirarsi.
Mi sistemò in auto e
chiamò i suoi fratelli, dando
loro istruzioni per cercare Kate. Accese i riscaldamenti ed
iniziò a guidare
verso casa.
Nonostante il passare del tempo
continuavo a sentirmi
debole ed il battito del mio cuore era accelerato.
«È scesa ancora, vero?»
domandai consapevole.
Strinse le mani sul volante ed
annuì. «7.5. Non so
come sia potuto accadere così rapidamente».
Sospirai, rintanandomi sul sedile e
chiudendo gli
occhi. «È stato il potere della bambina.
Kate… ha detto che la piccola voleva
avvertirmi. Che qualcuno inizierà a cercarci»
mormorai spaventata. «Ha detto di
stare attenta».
Mio marito serrò la
mascella. «Non ho sentito i suoi
pensieri, solo dei frammenti. Aveva un forte istinto di ricerca, e la
spingeva
dritta verso nostra figlia».
Mugolai, stanca, lasciandomi andare
contro il sedile.
Sentii la sua mano carezzarmi la
guancia. «Resisti,
siamo quasi a casa».
Edward, Jasper, Alice e Rosalie
andarono partirono in
cerca di Kate e la cercarono ininterrottamente per ben una settimana.
Carlisle
continuò a somministrarmi flebo di ferro e vitamine e
farmaci per stimolare il
mio corpo a produrre più sangue, ma la mia emoglobina non
saliva. Era ferma a
sette da ormai cinque giorni e tutti noi sapevamo che stavamo
procrastinando
l’inevitabile.
Mi guardai allo specchio del bagno,
osservando la
pelle pallida e le occhiaie.
«Stai bene?» mi
domandò Esme. «Hai bisogno di aiuto?»
fece, circondandomi con un braccio e guidandomi verso la camera da
letto.
«Grazie» dissi
soltanto, sedendomi sul bordo del letto
e stringendomi le mani sulla pancia gonfia.
Edward e Carlisle entrarono nella
stanza.
«Hanno
chiamato?» domandai ansiosa.
Edward scosse il capo, venendomi
subito accanto. «Non
ancora».
«Mi chiedo
chi… chi è che deve venire a cercarci»
ansimai preoccupata. Avevamo vagliato tantissime ipotesi. I Volturi?
Altri
mezzo-sangue? I lincantropi?
I veri licantropi?
Qualcun altro? E mi chiedevo ancora, in continuazione, chiunque fosse,
se
saremmo stati in grado di affrontarlo.
Mi carezzò i capelli.
«Chiameranno appena la
troveranno».
Deglutii. «Non la
troveranno» dissi convinta «così
come è riuscita a trovare la bambina ha l’istinto
di fuggire da loro» presi un
respiro, affaticata «ha paura».
Mio marito sfiorò le mie
mani con la sua. «Non ti
stancare».
Sollevai lo sguardo su mio suocero.
«Carlisle» lo
chiamai affannata «temo che sia arrivato quel momento. Non lo
possiamo più
rimandare».
Mi guardò concentrato.
«Non vuoi aspettare un altro
paio di giorni? Stiamo pensando al modo migliore per farlo».
La bambina si mosse, facendomi
quasi il solletico. Era
debole, si muoveva appena. Scossi il capo, abbandonando poi la testa
sulla
spalla di Edward, troppo stanca per tenerla su. «È
debole. Sta male, ma non
vuole prendere il mio sangue perché…».
«…sa che sta
male anche Bella» concluse mio marito,
lasciandomi un bacio sulla fronte. Sospirò, spostando lo
sguardo sul padre. «È
arrivato il momento» commentò teso.
Carlisle tentennò,
preoccupato.
Esme si avvicinò al suo
fianco, abbracciandolo. «Bella
riuscirà a farlo. La bambina è tutto per lei
adesso. Ci riuscirà» disse al suo
orecchio.
Annuì, voltandosi a
guardare fiduciosamente la moglie.
«Proviamoci, se è quello che vuoi».
Edward insistette per farlo in
camera. Non voleva
farlo in soggiorno perché odiava che lo collegassi
all’idea del cibo.
«Dovremmo farlo con il
sangue umano, va bene?» mi
domandò, pesando le parole, attento a non turbarmi.
Ma per quanto fossi motivata la
cosa mi turbava
eccome. «Non c’è altro modo?»
domandai scossa.
Carlisle si avvicinò con
calma. «Nel libro sono
descritte entrambe le tipologie di diete, ma le donne che hanno bevuto
sangue
animale hanno dovuto farlo per molte più volte. Se decidi di
bere il sangue
umano» continuò cautamente «potrebbe
bastarne solo una».
Edward mise una mano sulla mia.
«La decisione spetta a
te. Sarà il sangue di un donatore».
Deglutii, mandando giù i
succhi gastrici. Sarebbe
stato tremendamente difficile. «Va bene» mormorai
piano, stringendo la mano di
mio marito. «Facciamolo così, come lo avevate
pensato».
Esme decise di allontanarsi, non
sentendosi confidente
ad essere vicina a così tanto sangue umano. Carlisle
andò a prepararlo,
dicendomi che sarebbe stato più facile se fosse stato
più caldo. Mi venne da
vomitare, ma repressi il conato.
«Di cosa sa?»
domandai a mio marito.
Si bloccò, spiazzato
dalla mia domanda.
Presi un respiro.
«Intendo… l’odore del sangue mi ha
sempre disgustato e fatto sentire male, ma per voi non
dev’essere così,
immagino. Credo che debba essere buono».
Mi guardò di sottecchi
da sotto un ciuffo di capelli
bronzei. «Cambia un po’ in base al tipo di preda.
Quello… dei carnivori è più
buono» mi spiegò con calma, studiando le mie
reazioni parola dopo parola.
Dovette vedere qualcosa che lo spinse a continuare. «Non lo
so paragonare al
sapore del cibo umano» fece, perdendosi con lo sguardo nel
vuoto «ma è
delizioso. È saporito, e quando lo senti in gola
è come burro caldo che lenisce
all’istante ogni bruciore» fece, e potevo vedere
dalla sua espressione come
nella sua mente stesse contemplando l’idea di un pasto.
S’interruppe, spostando
lo sguardo su di me, teso. «Scusami, ti ho
turbato?».
Sorrisi dolcemente, carezzandogli
la guancia. «No»
mormorai fiacca «grazie. Cercherò di immaginarmelo
così».
Mi sorrise a sua volta, posando la
sua fronte sulla
mia. «Sei la persona più coraggiosa che
conosca».
Carlisle entrò nella
stanza con un bicchiere di
plastica opaco ed una cannuccia.
Sospirai. «Aspetta a
dirlo» mormorai già nauseata.
Mio suocero mi porse il bicchiere,
ma fu Edward a
prenderlo, trattenendolo nella sua mano. «Possiamo farlo
anche in un altro
modo» disse apprensivo «Carlisle può
metterti un sondino naso-gastrico. Il
tubicino dà un po’ fastidio, ma possiamo metterlo
direttamente nel tuo stomaco
in modo che tu non ne senta il sapore».
Scossi il capo, ancor
più nauseata all’idea. Sentii la
bambina carezzarmi la pancia da dentro. Portai una mano a coprirla
«È curiosa.
Vuole sentirne il sapore».
Edward sospirò.
«Facciamolo e basta» disse,
porgendomelo.
Lo presi dalla sua mano e chiusi
gli occhi. Sentivo il
contenitore tiepido fra le mani. Non volevo vedere il rosso del sangue
avvicinarsi alle mie labbra attraverso la cannuccia. Deglutii
più volte,
tentando di bloccare la mia salivazione.
«Prediti il tempo che ti
serve» disse cortese
Carlisle.
Annuii. Dovevo farlo a basta. Feci
per prendere un
sorso, ma quando il sangue salì fino a metà
cannuccia feci l’errore di aprire
gli occhi e l’odore mi arrivò alle narici. Mi
piegai oltre il bordo del letto a
vomitare.
«Mi dispiace»
mormorai fra le braccia di Edward che mi
sostenevano.
«Shh,
non essere
dispiaciuta. Non è colpa tua. Non avresti mai dovuto fare
una cosa del genere»
mi consolò.
«Ti prego, lasciami
riprovare» lo implorai.
«Bella»
ansimò, spiazzato. Gli sembrava come di dover
corrompere la mia natura umana, come di dovermi fare un maleficio. Lo
faceva
soffrire enormemente vedermi così, in lotta contro me
stessa, contro la mia
parte più pura e santa.
«Sai che non
c’è altro modo» ansimai stanca.
Chiuse gli occhi, addolorato e
combattuto fra l’amore
che aveva per me e quello che aveva per la bambina. «Lo
so».
Mezz’ora più
tardi ci riprovai per la seconda volta.
Insistetti per avere accanto a me una bacinella per poter vomitare se
ne avessi
avuto bisogno. Cercai di calmarmi per impedire alle mie emozioni di
prendere il
sopravvento.
Guardai mio marito e lui
annuì, infondendomi coraggio.
Chiusi gli occhi e mi ripromisi di
non aprirli per
alcuna ragione al mondo.
Quando tirai su il primo sorso
l’odore sgradevole mi
sorprese ancora, ma deglutii il sangue, mandandolo giù
insieme ad un conato.
Era caldo e Carlisle aveva avuto ragione. Era più
tollerabile. Non appena
sentii il liquido caldo scendere nello stomaco sentii
l’emozione più forte che
avessi mai percepito da mia figlia: puro piacere.
Mi staccai dalla cannuccia, aprendo
le palpebre,
sconvolta.
«Bella?» mi
chiamò ansioso mio marito «tutto bene?».
Annuii, ancora frastornata.
«Lei… le piace» mormorai
sconvolta, carezzandomi la pancia.
Bettè le palpebre,
concentrandosi sui suoi pensieri.
«Sì. Le piace molto» commentò
quando la bambina si mosse, dandomi un calcetto.
Presi coraggio e feci un altro
lungo sorso. Il sapore
e l’odore erano quelli del sangue e mi disgustarono. Respirai
con il naso,
sofferente, e lasciai che la bambina mi inondasse con le sue emozioni.
Mi
interruppi ancora, cercando di controllare la mia nausea. Se volevo
farcela
dovevo lasciare che il suo istinto prendesse il sopravvento su di me.
Così
mandai giù sorso dopo sorso, provando a non pensarci,
concentrandomi solo sul
piacere che mi dava e non sul sapore rivoltante che mi faceva vomitare.
Continuai finché incredibilmente non sentii il suono di un
risucchio: era
finito.
Mi lasciai andare con un respiro
affannoso sulle
coperte, ancora vinta dall’istinto di mia figlia. Sentivo
ancora il sapore del
sangue sulla lingua.
Mi strinsi in posizione fetale,
proteggendo la pancia
con le braccia e dondolandomi piano avanti e indietro. Ero pallida e
sudata e
tremavo, cercando con tutta me stessa di non vomitare. Sarebbe stato
tutto
inutile.
«Le prendo
dell’acqua» disse Carlisle, scomparendo
immediatamente alla mia vista.
«Sei stata bravissima,
davvero bravissima» mormorò al
mio orecchio mio marito, carezzandomi la schiena madida di sudore.
Chiusi le palpebre, cercando di
calmarmi. Più e più
volte mi trovai a reprimere un conato. Bevvi un po’
d’acqua e mi feci coraggio
per masticare un po’ di mollica di pane, sperando che
cancellasse il sapore che
avevo in bocca.
«Oh» esclamai, piegandomi su me stessa.
Era il calcio più
forte che la bambina mi avesse mai dato. Mi strinsi sulla pancia il
punto dove
aveva colpito. «È più forte»
dissi speranzosa, guardando mio suocero che mi
scrutava, attento.
Mi sorrise.
«Sì, lo sentiamo anche dal suo battito.
Stai bene?».
Sospirai, stanca. «Mi
viene ancora un po’ da
vomitare».
Mi venne incontro, posando il dorso
della mano sulla
mia fronte e studiandomi con i suoi occhi gentili. «Posso
darti un farmaco per
farti stare un po’ meglio».
Annuii. C’era stato
già abbastanza eroismo per quel
giorno.
Edward mi aiutò a
lavarmi e a mettermi un pigiama
asciutto e pulito. Mi strinse a sé, cullando me e la bambina
mentre la flebo
faceva il suo effetto ed io mi sentivo sempre meglio.
Con le dita carezzai il suo petto,
persa nei miei
pensieri. «Ti ha turbato?» sussurrai a mezza voce.
Lo sentii stringermi più
forte per qualche secondo, e
per me fu una risposta.
Sospirai, pensando
all’immagine che doveva avere di me
in quel momento. «Mi dispiace…».
«No» mi bloccò, continuando
a cullarmi ed accarezzare il
pancione. Parlava piano nella penombra della stanza. «Pensavo
che mi avrebbe
turbato, ma non lo ha fatto. Pensavo che avrebbe distrutto la tua
purezza, la
tua umanità, la tua sacralità» disse
piano «ma tutto quello che ho visto era
una madre che si sacrificava per suo figlio. E non
c’è niente di più puro al
mondo».
Mi rilassai, accucciandomi sul suo
petto, stanca e
sollevata. «Grazie di essermi sempre rimasto accanto. Non
l’ho mai dato per
scontato» mormorai assonnata.
«Era il mio
posto» sussurrò al mio orecchio,
cullandomi ancora finché non mi addormentai.
L’indomani mi sentii
decisamente meglio. Mi svegliai
da sola e fui contenta di fare una normale colazione umana. Per tutto
il tempo
la bambina si mosse tantissimo, agitandosi e dandomi pugni e calci.
Ero seduta all’isola
della cucina, disegnando con la
mia matita morbida, quando Edward si avvicinò.
«Come sta la nostra
mammina preferita?» mormorò al mio
orecchio, abbracciandomi il pancione da dietro.
Mi voltai con un sorriso a
lasciargli un bacio sulle
labbra. Mi sentivo meglio, e Carlisle mi aveva detto che la mia
emoglobina era
già salita. «Sto bene» lo rassicurai.
Esme entrò in casa,
posando un vaso con un bel mazzo
di fiori in soggiorno. «Posso?» fece, gentilmente.
«Come stai tesoro? Ti vedo
meglio» disse con un sorriso felice, carezzandomi dolcemente
la pancia.
La bimba le restituì un
calcetto. Aprì la bocca,
sorpresa. «L’ho sentita» disse contenta.
Ridacchiai.
«Sì, si è mossa un sacco. Mi sento
tutta
la pancia indolenzita e la pelle tesa come se mi stessero facendo un
lifting».
I suoi occhi dorati si
concentrarono sul pancione. Si
volse verso Edward con un sorriso. «È
cresciuta».
Mio marito, alle mie spalle,
annuì. «Sì, è
cresciuta».
Sorrisi, accarezzandola a mia
volta. «Bene».
Esme indicò il disegno
sul ripiano di marmo. «Pensavo
che volessi prenderti una pausa dagli studi».
Scrollai le spalle. «Non
è per studio» dissi,
riprendendo in mano la matita e sistemando un dettaglio degli occhi
«volevo
fare un disegno di Kate in modo che fosse più facile
trovarla».
Edward si bloccò,
sorpreso.
«Amore, tutto
bene?» domandai preoccupata, voltandomi
a carezzargli il viso.
Crucciò le sopracciglia,
un’espressione seria in viso
e lo sguardo fisso sul mio disegno. «È
lei» mi disse, voltando lo sguardo su di
me «la donna che era in mare, quella che tuo padre ha cercato
di salvare. Ha
già tentato di avvicinarsi a noi».
Sgranai gli occhi, sorpresa.
«Credi che Philip lo
sapesse?».
Scosse il capo, pensieroso.
«L’ho chiamato, prima. Gli
ho detto che non siamo riusciti a trovarla e che i miei fratelli stanno
tornando a casa. Si è molto infuriato».
«Oh, Edward»
sospirai. Per quello che ne sapevo non
l’avremmo mai trovata se lei stessa non si fosse fatta
trovare.
Più tardi, quella sera,
massaggiai il pancione, stesa
sul letto di camera mia, accanto a Edward, stanca.
«Credo che dovremmo
andare avanti proprio come abbiamo
fatto. La bambina crescerà meglio ora, sfruttando il sangue
che le hai dato, e
anche tu starai meglio. In merito a Kate… Dobbiamo solo
aspettare. Ma per ora
prometti che ti rilasserai?» chiese, e sentivo una maggiore
serenità anche
nella sua voce.
Chiusi gli occhi e sorrisi, striracchiandomi.
«Non ti dirò di sì» feci,
impertinente. «Oh»
li
spalancai, mettendomi seduta e portandomi le mani al ventre.
«Che calcio»
borbottai.
Edward tolse dolcemente le mie
mani, massaggiandomi il
punto esatto in cui mi aveva colpita. «Eì
d’accordo
con me» dichiarò tranquillo. Scese con il viso a
baciarmi il ventre scoperto.
«Facciamo rilassare la mamma» mormorò
con un sorriso, lasciandomi piccoli baci,
«deve riposarsi».
Sorrisi. Era sempre
così, non dovevo stupirmi di
amarlo. «Proverò a rilassarmi, lo prometto. Ma non
è facile, lo so» gli
accarezzai distrattamente i capelli, ripensando a tutto
l’incidente, ad ogni
problema, «Edward» mormorai «pensavo, che
forse potremmo scoprire qualcosa che
riguarda… i sogni. Della bambina. Da quel libro,
intendo».
Strofinò la punta del
naso sul ventre. «Non abbiamo
letto ancora nulla a riguardo. Forse, a breve troveremo
qualcosa» sollevò il
viso, parlando con leggero astio «magari se il profes…».
«No» lo interruppi,
«è estremamente turbato dalla storia
di Kate, ed ha già fatto molto, per noi. Non avercela con
lui». Pensare a
quell’uomo mi causava un certo doloroso languore nel petto,
sempre. Mi pentivo
di averlo odiato così tanto.
Edward serrò la
mascella, squadrandomi. «Ci proverò»
mormorò infine. Distese la fronte e posò il capo
sul mio grembo.
«Magari troveremo
qualcosa» sussurrai, riprendendo ad
accarezzare la sua chioma.
«Rilassati Bella.
Rilassati. Tutto a tempo debito»
mormorò, gli occhi chiusi, il viso rilassato. Se non avessi
saputo con certezza
della sua natura avrei detto che si sarebbe ben presto addormentato.
Passarono alcuni minuti,
silenziosi, in cui rimuginai
e fantasticai su quello che avremmo potuto trovare, e sul se, avremmo
trovato
qualcosa. «Chissà, forse,
se…».
Si sollevò, aprendo gli
occhi di scatto e spostandosi
velocemente. Mi ritrovai con il respiro corto, la schiena contro il suo
petto,
il fiato sul mio collo. «Chissà, forse,
se… Bella, che ne dici di una
distrazione migliore?». Mi baciò audacemente,
risalendo con la mano sotto la
maglietta, verso l’alto.
Deglutii. «Magari
sì» farfugliai, abbandonandomi al
suo corpo.