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Autore: mammasaura    22/04/2010    2 recensioni
Cosa ho visto nelle mutevoli espressioni di Edward quando Bella era nella sua stanza quella volta a casa sua...
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Entrò nella mia stanza guardandosi intorno.

Ero nervoso; era la prima persona che penetrava così direttamente

nella mia intimità. Lì dentro c'era tutta la mia vita, i ricordi, gli anni

accumulati in libri, musica e souvenirs di un passato lontano.

Cos'avrebbe pensato nell'entrare in una stanza che sembrava un

museo, tale era l'accozzaglia di oggetti e di stili diversi?

Cosa le avrebbero raccontato tutti quei frammenti di passato?

Non ne avevo idea ma mi sentivo sotto esame; per la prima volta

nella mia vita immortale ero in balìa del giudizio di un essere umano.

La guardai mentre esaminava ogni particolare, fermandosi di tanto in

tanto assorta davanti a qualcosa che la incuriosiva. Era meravigliata,

non vedeva un letto in quella stanza, me lo disse.

Le rivelai che non dormivo mai e reagì come se le avessi appena

parlato di una cosa qualunque; chissà se ostentava indifferenza o

aveva semplicemente accettato qualcosa che per chiunque sarebbe

stato assurdo? Non lo capivo. Cercavo di tradurre ogni suo

movimento, ogni suo sguardo ma mi sentivo spaesato.

Quando si avvicinò allo stereo sentiì crescere un terribile imbarazzo.

Ascoltavo ogni tipo di musica ma senza dubbio la mia preferita era la

classica, Debussy in particolare. Un genere che mal si addiceva

all'adolescente che interpretavo da oltre un secolo.

Mi sentiì inadeguato e smascherato, come se cercassi di appartenere

ad una vita che non era la mia, come se rubassi.

Potevo far parte del suo mondo se oltre la maschera si celava un

vecchio centenario dai gusti fermi al secolo scorso?

Avrei dovuto essere morto, insieme alla mia famiglia, tanto tempo fa,

quando quella musica era la naturale colonna sonora dei pomeriggi

spensierati prima della guerra. Allora, ricordandomi, nessuno

avrebbe trovato strano che adorassi Debussy, ero come tutti gli

altri, ero davvero un ragazzo.

Adesso ero solo un ologramma, qualcosa che nella realtà, quella

vera, non esisteva e per uno strano gioco del destino, dopo tutti

quegli anni mi ritrovavo a ribellarmi con tutto me stesso alla mia

natura che mi aveva posto per sempre in quel mondo senza

permettermi di farne veramente parte.

Chi ero per pretendere di essere diverso? Avevo ancora quel diritto?

No, mi diceva la ragione, l'avevo perso quando ero diventato

qualcosa che la natura per scelta non crea, qualcosa che esiste per

sempre e quindi non naturale, artefatto, un parassita della linfa vitale

altrui, senza uno scopo, senza una meta da raggiungere, solo una

strada infinita da percorrere per arrivare al nulla.

Ma da quando l'avevo conosciuta qualcosa che somigliava all'umanità

aveva iniziato a farsi strada dentro di me; non so se mi appartenesse

e fosse rimasto sopito in me per tanto tempo, oppure se fosse

venuto da lei e mi avesse alitato la vita dentro.

Qualunque cosa fosse era dolorosa, reale, struggente. Non volevo

lasciarla andare, volevo far ardere quella fiamma che mi riscaldava

ed alimentarla affinché non si spegnesse; volevo permettermi di

sognare un vero futuro.

Avevo bisogno di lei, era il mio alter ego, la mia completezza.

Lo sentivo con tutto me stesso, pieno di quel desiderio di vita e

temevo che se l'avesse capito si sarebbe sentita sopraffatta.

- Cosa stavi ascoltando? - mi chiese interessata;

- Debussy...non so cosa...- le risposi tremando per la paura di essere

deriso.

- Io lo so. E' Claire de Lune...è forte...- disse guardandomi intensa.

E con quella semplice risposta mi dimostrò che l'affinità non aveva

tempo, che eravamo due esseri diversi ma in molte cose uguali, in

risonanza tra noi e con il mondo. La parola "quando" non aveva

senso; la parola "perché" ne aveva, e tanto.

Mi specchiai nei suoi occhi riconoscendo lo stesso rapimento

nell'ascoltare quelle note antiche ma sempre nuove e mi sentiì

finalmente parte di lei.

Capiì che se ci fossimo conosciuti quando anch'io avevo veramente

diciassette anni nulla sarebbe cambiato e che quel momento

di empatia profonda era sospeso nel tempo ma intatto.

Perché eravamo noi, io e lei, uniti da un filo invisibile che fin dal

primo momento si era misteriosamente ritorto per avvicinarci

nonostante le differenze, la mia ferocia e la sua paura: una

prova. L'avevamo superata ed ora eravamo abbastanza vicini da

vedere "perché" noi, perché insieme.

Perché riuscivo a rispettare la sua vita, nonostante il forte richiamo;

perché riusciva a rispettare il mio essere un mostro, nonostante la

sua paura.

Perché quello era amore. Nel suo significato più profondo.

E voleva dire accettazione totale ed incondizionata,

condivisione, rispetto.

Con quel senso di completezza che mi traboccava dentro la presi tra

le braccia e iniziai a ballare con lei, come se fossimo in casa mia, a

Chicago, tanto tempo fa.

Avrei voluto stringerla, amarla, non staccarmi più da lei, dirle che

finalmente ci eravamo trovati, che da quel momento eisteva un "noi".

E che ci sarebbe stato per sempre, anche quando la vita avrebbe preteso

la ricompensa per averla fatta esistere, per averci dato la possibilità

di percorrere un pezzo di strada insieme.

E senza parole glielo dissi, guardandola profondamente come si

guarda un tesoro prezioso; esattamente come fece lei,

accettando quella consapevolezza di appartenerci ed affidandosi a

me senza riserve.

Non mi sentiì più un ladro, perchè tutto l'amore che avevo dentro era

destinato a lei da sempre, come lei era destinata a me da sempre.

Per la prima volta, dopo più di cento anni mi sentiì completo, degno

di esistere in quel mondo.

Mi sentiì di nuovo a casa.

  
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