Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si
sedette nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guardarsi attorno. La
stanza era molto luminosa, infatti si apriva una larga
ed alta finestra dietro al posto del capotavola, essendo la sala al terzo piano
non si temevano attentati, per cui il Duca non temeva a dar le spalle alla
vetrata. Da quella finestra, dunque, la luce estiva entrava ed inondava la
stanza facendo così brillare la maggior parte degli oggetti presenti: dalle
posate d’argento, ai calici di cristallo, dalla tovaglia di raso, al lampadario
a gocce di vetro e poi i due specchi in cornici d’oro, i vetri dei raffinati
mobili in mogano decorati con intarsi che narravano chissà quali miti od
eventi. Tutto luccicava. La ragazza era messa di buon umore dall’infrangersi
della luce che colpiva quell’ambiente, ma ne era anche infastidita, quell’intensa
luminosità le bruciava gli occhi. Gli scranni su cui sedevano erano imbottiti
come poltroncine ed avevano decori rococò, erano tutti foderati di damasco blu,
tutti tranne quello del Duca che, oltre ad essere più elaborato, era del nobile
color porpora. La tovaglia era gialla e i tovaglioli bianchi; davanti a ciascun
commensale vi erano tre bicchieri, un piatto sormontato da uno
fondo che, a sua volta, era coperto da un piattino, alla destra vi erano le
forchette a quattro denti, alla sinistra un coltello e davanti un cucchiaino.
Su tutte le stoviglie era impresso o dipinto lo stemma
degli Aristidei. Le pareti erano rivestite di seta azzurro, abbellite da geometrici più scuri; il
soffitto era affrescato con immagini grottesche su sfondo bianco. Astrea si
sentiva un po’ fuori luogo, era la prima volta, dopo molto tempo, che si
ritrovava in un luogo così raffinato; negli ultimi anni aveva sempre
mangiato qualsiasi cibo nella mediamo scodella, avendo per posate un arnese che
da un lato aveva la concava del cucchiaio, e dall’altro i tre denti della
forchetta e un coltellaccio che usava in molte altre occasioni.
Un improvviso squillo di tromba, che annunciava
l’arrivo del Duca, ridestò l’attenzione della ragazza, assopita nel contemplare
la sala. Agakrathos fece il proprio ingresso: varcò
la soglia, i suoi fratelli si alzarono in piedi in segno di rispetto e saluto,
invece Astrea restò seduta, il Duca lo notò e quando si fu accomodato (e quindi
anche gli altri due si rimisero a sedere) rivolto a lei, osservò con
disappunto: “Tu non rispetti il mio essere nobile.” Ella rispose rivolgendosi non solo a lui ma a tutti e tre:
“No, hai ragione. Io vi rispetto come persone ed è quanto di più si possa desiderare. Io non rispetto il vostro titolo, io non
rispetto il vostro sangue, io non rispetto il vostro
potere. Io rispetto voi.” In quelle
parole non vi era alcuna arroganza, per cui gli Aristidei rimasero stupiti, ma non lo dimostrarono, i loro
volti non furono solcati da alcuna emozione mantennero quella maschera di
sereno distacco che non abbandonavano mai, neppure quando ridevano, neppure col
riso che è la cosa più spontanea dell’uomo, sembravano sinceri. Dopo pochi e
brevi istanti di silenzio, Agakrathos suonò la
campanella che era appoggiata accanto ai sui calici e
subito, da una porticina mimetizzata dalla tappezzeria, uscirono due camerieri,
uno portava un vassoio con gli antipasti, l’altro li serviva nei piattini. Il
Duca fissò un attimo l’ospite, poi chiese: “Raccontaci, ti abbiamo lasciata quand’eri un’aspirante attrice piena di speranze,
cos’è accaduto? Come sei finita a recitare per le strade? Non hai avuto fortuna?”
“Entrare in una compagnia stabile è assai difficile, bisogna prima fare molta gavetta in altri
ambienti. Viaggiare è molto interessante, per esempio…” cominciò a raccontare
alcuni episodi che aveva vissuto, da lì presero a nascere altri dialoghi. Parlavano, parlavano e
parlavano, vi erano già stati alcuni screzi, ma senza che alcuno se ne avesse a male. Il secondo
stava per essere servito, quando entrò il maggiordomo annunciando: “C’è il
Maggiore Ponte che vi chiede udienza d’urgenza, poiché sostiene di aver
catturato un rivoltoso. Cosa devo rispondergli?” Agakrathos,
pur essendo seccato dentro di sé, acconsentì con la solita calma: “Conducilo
qui.” Astrea, guardandolo, domandò ad
Halkemidos: “Dicevi che la vostra vita è felice? Non
vi permettono neppure di desinare in pace…”
“Queste sono questioni di massima importanza! Ne va
della nostra vita!”
“Appunto, siete potenti, però vivete
sempre con la paura di essere insidiati, no?”
“Che esagerazione! Non
abbiamo ansia, non siamo vinti dal timore; affrontiamo questi intralci con
lucidità e prendiamo le giuste precauzioni. Siamo al sicuro come Dionigi, ma
senza la sua apprensione. Siamo tranquilli.”
Fece il proprio ingresso il maggiore Ponte, nella
sinistra teneva una catena che legava i polsi del prigioniero che rimase in
piedi, mentre il soldato si inchinava al cospetto del
Duca, salutava e iniziava a spiegare: “Abbiamo, io e i miei uomini, colto in
flagrante costui che, in un’osteria, parlava di rivolta e sedizione.” Il Duca meditò un attimo, poi sentenziò: “Imprigionalo
e fustigalo con venti frustate al giorno per un mese,
poi mozzagli le orecchie e vendilo come schiavo in un'altra città.”
Astrea ridacchiò. La giovane aveva riconosciuto
all’istante il prigioniero: sei trattava di Carlo Cacio.
Egli aveva due anni in più di lei, aveva frequentato la medesima scuola, i suoi
lunghi e lisci capelli castano scuro, la sua barba da re persiano, i suoi occhi
scuri impenetrabili e penetranti, che parevano poter scrutare dentro ogni cosa,
che parevano poter vedere altri piani dimensionali
negati ai comuni mortali, che parevano bastioni che proteggevano la sua anima, avevano
affascinato fin da subito Astrea che per lungo tempo era stata innamorata di
lui. Per i primi due anni, vedendosi solo a scuola, Carlo era stato scostante,
in un primo momento era stato disponibile, poi aveva iniziato ad evitarla, ma
di rado le rivolgeva la parola, anzi rispondeva vagamente alle domande che ella gli poneva. Quand’egli si era diplomato ed Astrea era
convinta che non lo avrebbe mai più rivisto, ecco che subito la situazione
mutò; infatti Duccio le aveva fatto conoscere il
proprio insegnante di teatro, Nibbio, che le era stato simpatico fin da subito,
iniziò a frequentare quella casa e le molte persone che andavano e venivano da
lì, tra esse vi era anche Carlo. Si era formato un vivacissimo gruppetto di giovani,
che forse non tutti si frequentavano spesso, tuttavia era affiatato e avevano
dato vita a molti eventi. Astrea e Carlo, dunque, si vedevano più di prima,
condividevano molti momenti di vita, per cui si creò
una forte amicizia, ma nulla di più. Ella, infine,
aveva accettato l’idea di non poter mai essere la morosa del suo amato, oramai
erano anni che non era più innamorata di lui, sebbene in sua presenza
continuasse a provare uno strano sentimento. La giovane, quindi, non poteva
permettere che il suo amico andasse incontro all’orribile sorte predisposta da Agakrathos, per cui pensò
rapidamente a una scusa e le sovvenne alla mente la triste reputazione di cui godeva
Carlo a scuola…
Rise. “Che ti prende?” domandò
Halkemidos, brusco solo interiormente. “Non lo
riconoscete” domandò lei “Non è diventato lo scemo del
villaggio? Lo zimbello del paese? Dai non ditemi che non vi ricordate di Cacio…”
“Il matto della scuola, è vero!” aggiunse Timao, che continuò: “Sì, sì, è vero… È quello che s’aggirava
pei corridoi parlando della morte e altre corbellerie!”
i fratelli fecero cenno di aver inteso. “Io stesso, l’altro giorno” proseguì il
piccolo “L’ho sentito che parlava di insorgere, ma nessuno lo stava ad
ascoltare, anzi la gente rideva di lui e gli lanciava contro verdura marcia. È innocuo.”
“Se le cose stanno così” dichiarò
il Duca “Commuto la pena in una notte in cella e una decina di frustate al
rilascio. Te ne occuperai tu, Timao,
domattina.”
“Va bene.” acconsentì il
più giovane degli Aristidei. Il maggiore Ponte portò
via il prigioniero, intanto Agakrathos proseguì
rivolto al fratello minore: “Inoltre, oggi pomeriggio, se non hai incombenze
urgenti, farai compagnia alla nostra ospite.” Astrea si
stupì, sgranò gli occhi e affermò: “Io, veramente, pensavo di togliere il
disturbo dopo pranzo, i miei compagni attori mi aspettano e…”
“Abbiamo già provveduto ad
informarli che ti tratterrai qui da noi per un po’ di tempo.”
“Questo, però, non è vero…”
“Come?” disse con finto stupore il Duca e con quel
velato tono di chi ha preso una decisione e non ha intenzione di revocarla “Non
vuoi soggiornare da noi per qualche mese? Certo che lo
vuoi… e poi un’ospitalità simile non la si può
rifiutare.”
Astrea capì: era prigioniera. Fingendo di ignorare
quest’amara verità, cordialmente rispose: “Hai
ragione, un’offerta simile non posso declinarla.”