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Autore: DirceMichelaRivetti    25/04/2010    1 recensioni
Questa è la storia di una giovane attrice di strada, piena di sogni e ideali, che torna dopo 5 anni nella propria città d'origine che ora è sotto il controllo di un dispotico duca. Incontrerà vecchi amici e scoprirà cosa sono diventati. Un racconto tra il suo passato e presente, pieno di emozioni.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si sedette nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guarda

Astrea salutò cordialmente, gli Aristidei ricambiarono, ella si sedette nel posto che le era stato assegnato e iniziò a guardarsi attorno. La stanza era molto luminosa, infatti si apriva una larga ed alta finestra dietro al posto del capotavola, essendo la sala al terzo piano non si temevano attentati, per cui il Duca non temeva a dar le spalle alla vetrata. Da quella finestra, dunque, la luce estiva entrava ed inondava la stanza facendo così brillare la maggior parte degli oggetti presenti: dalle posate d’argento, ai calici di cristallo, dalla tovaglia di raso, al lampadario a gocce di vetro e poi i due specchi in cornici d’oro, i vetri dei raffinati mobili in mogano decorati con intarsi che narravano chissà quali miti od eventi. Tutto luccicava. La ragazza era messa di buon umore dall’infrangersi della luce che colpiva quell’ambiente, ma ne era anche infastidita, quell’intensa luminosità le bruciava gli occhi. Gli scranni su cui sedevano erano imbottiti come poltroncine ed avevano decori rococò, erano tutti foderati di damasco blu, tutti tranne quello del Duca che, oltre ad essere più elaborato, era del nobile color porpora. La tovaglia era gialla e i tovaglioli bianchi; davanti a ciascun commensale vi erano tre bicchieri, un piatto sormontato da uno fondo che, a sua volta, era coperto da un piattino, alla destra vi erano le forchette a quattro denti, alla sinistra un coltello e davanti un cucchiaino. Su tutte le stoviglie era impresso o dipinto lo stemma degli Aristidei. Le pareti erano rivestite di seta azzurro, abbellite da geometrici più scuri; il soffitto era affrescato con immagini grottesche su sfondo bianco. Astrea si sentiva un po’ fuori luogo, era la prima volta, dopo molto tempo, che si ritrovava in un luogo così raffinato;  negli ultimi anni aveva sempre mangiato qualsiasi cibo nella mediamo scodella, avendo per posate un arnese che da un lato aveva la concava del cucchiaio, e dall’altro i tre denti della forchetta e un coltellaccio che usava in molte altre occasioni.

Un improvviso squillo di tromba, che annunciava l’arrivo del Duca, ridestò l’attenzione della ragazza, assopita nel contemplare la sala. Agakrathos fece il proprio ingresso: varcò la soglia, i suoi fratelli si alzarono in piedi in segno di rispetto e saluto, invece Astrea restò seduta, il Duca lo notò e quando si fu accomodato (e quindi anche gli altri due si rimisero a sedere) rivolto a lei, osservò con disappunto: “Tu non rispetti il mio essere nobile. Ella rispose rivolgendosi non solo a lui ma a tutti e tre: “No, hai ragione. Io vi rispetto come persone ed è quanto di più si possa desiderare. Io non rispetto il vostro titolo, io non rispetto il vostro sangue, io non rispetto il vostro potere. Io rispetto voi.”  In quelle parole non vi era alcuna arroganza, per cui gli Aristidei rimasero stupiti, ma non lo dimostrarono, i loro volti non furono solcati da alcuna emozione mantennero quella maschera di sereno distacco che non abbandonavano mai, neppure quando ridevano, neppure col riso che è la cosa più spontanea dell’uomo, sembravano sinceri. Dopo pochi e brevi istanti di silenzio, Agakrathos suonò la campanella che era appoggiata accanto ai sui calici e subito, da una porticina mimetizzata dalla tappezzeria, uscirono due camerieri, uno portava un vassoio con gli antipasti, l’altro li serviva nei piattini. Il Duca fissò un attimo l’ospite, poi chiese: “Raccontaci, ti abbiamo lasciata quand’eri un’aspirante attrice piena di speranze, cos’è accaduto? Come sei finita a recitare per le strade? Non hai avuto fortuna?”

“Entrare in una compagnia stabile è assai difficile, bisogna prima fare molta gavetta in altri ambienti. Viaggiare è molto interessante, per esempio…” cominciò a raccontare alcuni episodi che aveva vissuto, da lì presero a nascere  altri dialoghi. Parlavano, parlavano e parlavano, vi erano già stati alcuni screzi, ma senza che alcuno se ne avesse a male.  Il secondo stava per essere servito, quando entrò il maggiordomo annunciando: “C’è il Maggiore Ponte che vi chiede udienza d’urgenza, poiché sostiene di aver catturato un rivoltoso. Cosa devo rispondergli?” Agakrathos, pur essendo seccato dentro di sé, acconsentì con la solita calma: “Conducilo qui. Astrea, guardandolo, domandò ad Halkemidos: “Dicevi che la vostra vita è felice? Non vi permettono neppure di desinare in pace…”

“Queste sono questioni di massima importanza! Ne va della nostra vita!”

“Appunto, siete potenti, però vivete sempre con la paura di essere insidiati, no?”

Che esagerazione! Non abbiamo ansia, non siamo vinti dal timore; affrontiamo questi intralci con lucidità e prendiamo le giuste precauzioni. Siamo al sicuro come Dionigi, ma senza la sua apprensione. Siamo tranquilli.”

Fece il proprio ingresso il maggiore Ponte, nella sinistra teneva una catena che legava i polsi del prigioniero che rimase in piedi, mentre il soldato si inchinava al cospetto del Duca, salutava e iniziava a spiegare: “Abbiamo, io e i miei uomini, colto in flagrante costui che, in un’osteria, parlava di rivolta e sedizione.”  Il Duca meditò un attimo, poi sentenziò: “Imprigionalo e fustigalo con venti frustate al giorno per un mese, poi mozzagli le orecchie e vendilo come schiavo in un'altra città.”

Astrea ridacchiò. La giovane aveva riconosciuto all’istante il prigioniero: sei trattava di Carlo Cacio. Egli aveva due anni in più di lei, aveva frequentato la medesima scuola, i suoi lunghi e lisci capelli castano scuro, la sua barba da re persiano, i suoi occhi scuri impenetrabili e penetranti, che parevano poter scrutare dentro ogni cosa, che parevano poter vedere altri piani dimensionali negati ai comuni mortali, che parevano bastioni che proteggevano la sua anima, avevano affascinato fin da subito Astrea che per lungo tempo era stata innamorata di lui. Per i primi due anni, vedendosi solo a scuola, Carlo era stato scostante, in un primo momento era stato disponibile, poi aveva iniziato ad evitarla, ma di rado le rivolgeva la parola, anzi rispondeva vagamente alle domande che ella gli poneva. Quand’egli si era diplomato ed Astrea era convinta che non lo avrebbe mai più rivisto, ecco che subito la situazione mutò; infatti Duccio le aveva fatto conoscere il proprio insegnante di teatro, Nibbio, che le era stato simpatico fin da subito, iniziò a frequentare quella casa e le molte persone che andavano e venivano da lì, tra esse vi era anche Carlo. Si era formato un vivacissimo gruppetto di giovani, che forse non tutti si frequentavano spesso, tuttavia era affiatato e avevano dato vita a molti eventi. Astrea e Carlo, dunque, si vedevano più di prima, condividevano molti momenti di vita, per cui si creò una forte amicizia, ma nulla di più. Ella, infine, aveva accettato l’idea di non poter mai essere la morosa del suo amato, oramai erano anni che non era più innamorata di lui, sebbene in sua presenza continuasse a provare uno strano sentimento. La giovane, quindi, non poteva permettere che il suo amico andasse incontro all’orribile sorte predisposta da Agakrathos, per cui pensò rapidamente a una scusa e le sovvenne alla mente la triste reputazione di cui godeva Carlo a scuola…

Rise. “Che ti prende?” domandò Halkemidos, brusco solo interiormente. “Non lo riconoscete” domandò lei “Non è diventato lo scemo del villaggio? Lo zimbello del paese? Dai non ditemi che non vi ricordate di Cacio…”

“Il matto della scuola, è vero!” aggiunse Timao, che continuò: “Sì, sì, è vero… È quello che s’aggirava pei corridoi parlando della morte e altre corbellerie!” i fratelli fecero cenno di aver inteso. “Io stesso, l’altro giorno” proseguì il piccolo “L’ho sentito che parlava di insorgere, ma nessuno lo stava ad ascoltare, anzi la gente rideva di lui e gli lanciava contro verdura marcia. È innocuo.”

Se le cose stanno così” dichiarò il Duca “Commuto la pena in una notte in cella e una decina di frustate al rilascio. Te ne occuperai tu, Timao, domattina.”

“Va bene.” acconsentì il più giovane degli Aristidei. Il maggiore Ponte portò via il prigioniero, intanto Agakrathos proseguì rivolto al fratello minore: “Inoltre, oggi pomeriggio, se non hai incombenze urgenti, farai compagnia alla nostra ospite. Astrea si stupì, sgranò gli occhi e affermò: “Io, veramente, pensavo di togliere il disturbo dopo pranzo, i miei compagni attori mi aspettano e…”

“Abbiamo già provveduto ad informarli che ti tratterrai qui da noi per un po’ di tempo.”

“Questo, però, non è vero…”

“Come?” disse con finto stupore il Duca e con quel velato tono di chi ha preso una decisione e non ha intenzione di revocarla “Non vuoi soggiornare da noi per qualche mese? Certo che lo vuoi… e poi un’ospitalità simile non la si può rifiutare.”

Astrea capì: era prigioniera. Fingendo di ignorare quest’amara verità, cordialmente rispose: “Hai ragione, un’offerta simile non posso declinarla.”

   
 
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