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Autore: SissiCuddles    28/04/2010    2 recensioni
Ho ufficialmente deciso di autocondannarmi a morte. Ebbene sì, questa è la terza fanfiction che scrivo in questo periodo. Questa fanfic però è diversa dalle altre. La sto scrivendo con più calma e tranquillità. Spero vi possa piacere. Vi avviso di nuovo: non è una delle mie classiche fanfiction a mio parere. Ridico che contiene spoiler riguardanti il prossimo finale di stragione. Io ve l'ho detto due volte ora tocca a voi. Ah, dimentivavo: il titolo è "The Bitter End" in quanto la fine sarà amara, ciò significa, niente lieto fine.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Greg House, Lisa Cuddy
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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The Bitter End

Capitolo 3: A Place Called Home Parte II

 

Princeton Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio di House. Ore 11:00.
“House! Che diavolo ti prende!?”
“Cosa vuoi Wilson?”
“Poco fa mi ha chiamato Nolan. Mi spieghi il motivo di quella scenata?”
“Non sono affari tuoi”
“Eccome se lo sono.”
“E invece no…”
“House, stai distruggendo tutto quello che hai creato nell’ultimo anno. Non comportarti così!”
“Comportarmi come?”
Wilson si avvicinò per osservare il livido che circondava l’occhio del suo migliore amico.
“Come ti sei fatto quel livido?”
“Ho battuto contro il comodino”
“Certo, e da quando il comodino lascia il segno delle nocche che non ha?”
“Come ho già detto non sono affari tuoi”
“E come ho anch’io già detto, sono tuo amico”
“E con questo?”
Wilson si allontanò dall’uomo, ma si fermò sulla porta. Stava per girarsi, ma all’ultimo momento si chiuse la porta alle spalle. House osservò l’oncologo allontanarsi nel corridoio, finchè l’ascensore non lo inghiottì in pochi istanti.
Il diagnosta si sedette dietro la sua scrivania, cercando di sgomberare la mente dagli ultimi avvenimenti. Ma ogni volta che tentava di cancellare i ricordi e scacciare i pensieri, dopo pochi minuti tutto tornava come prima. Faceva finta che quella notte non fosse mai successa, ma invece si accorgeva che negare l’evidenza lo faceva stare male.

Princeton Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio del Primario di Medicina. Ore 11:30
Wilson entrò nell’ufficio del primario senza bussare.
“Nolan mi ha chiamato…”
Cuddy alzò lo sguardo dai documenti. Guardava l’oncologo in modo furioso, ma allo stesso tempo era incuriosita da quell’entrata improvvisa.
“Non parlarmi di House…”
“Che…che cosa? Cuddy è una cosa seria…”
“Nelle ultime settimane sei sempre entrato nel mio ufficio dicendomi che House ne ha combinata una delle sue. Sono stanca, tu e Nolan dovete smetterla di accudirlo come un bambino.”
Wilson la guardò spiazzato.
“Che cosa ti prende!? Perché ti comporti così?”
“Perché sono stanca di tutto questo”
“Non mi sembra un buon motivo per abbandonare un amico”
“Lo sai che io e lui non siamo mai stati…amici”
“Già, non siete mai stati amici…siete sempre stati innamorati uno dell’altro…”
“Adesso basta!”
Cuddy si alzò dalla sedia di scatto, appoggiando le mani alla scrivania; un gesto fatto quasi per trattenere la rabbia, che mano a mano cominciava a salire dal profondo. Wilson rimase a guardarla, mentre lei si lasciava scivolare di nuovo sulla sedia. Appoggiò i gomiti alla scrivania e strinse la testa tra i palmi delle mani, cercando di massaggiarsi le tempie che cominciavano a pulsare velocemente, dandole fastidio.
“Non ce la faccio più Wilson, mi dispiace”
“Cuddy, io…”
“Non è colpa tua. E’ tutta colpa mia…”
Cuddy si raddrizzò sulla sedia, cercando di mantenere in piedi quella maschera che aveva costruito nelle ultime settimane. Una maschera che mostrava solo ciò che lei voleva, ma che cominciava a sgretolarsi sotto il peso della stanchezza e del rimorso.
“Due settimane fa, io ed House abbiamo parlato. Abbiamo deciso che avremmo vissuto separati uno dall’altro per sempre. Niente più scherzi, niente più battibecchi, niente battute sul mio corpo e così via…”
Wilson si sedette sul divano, mentre Cuddy lo raggiungeva.
“Perché avete litigato?”
Cuddy lo guardò. Gli occhi scuri del medico si confusero nel messaggio infinito che quegli occhi celesti nascondevano da ormai troppo tempo.
“No, abbiamo avuto una discussione a quanto pare civile.”
Cuddy abbassò lo sguardo. Si fissava le mani. Stringeva i pugni tanto da lasciare i segni delle unghie nella carne del palmo. Wilson, le prese le manie le strinse nelle sue.
“Ti ha ferita di nuovo, mi dispiace…”
“No…”
Wilson le afferrò le mani, per impedirle di graffiare la pelle con le unghie.
“Non è colpa tua. Anch’io sono stato poco gentile con lui da quando sono con Sam.”
“No, tu non c’entri niente…”
“E invece sì. Gli ho chiesto di andarsene da casa mia, perchè voglio tornare a vivere con Sam.”
“Non è questo il problema, Wilson…”
“E invece sì. Mi sento in colpa…”
“Anch’io…”
“Sappiamo come è House. Sappiamo il modo in cui reagisce a certe notizie.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo cercando di immaginare le sensazioni che House aveva provato in quell’ultimo periodo. Ma solo Cuddy poteva avvicinarsi a quelle emozioni. Solo lei poteva percepire ogni pensiero dell’uomo che aveva amato per troppo tempo. Wilson non sapeva niente di quello che era successo, era facile mentirgli. Si fidava delle persone ciecamente, si lasciava abbindolare dalle loro scuse insulse, a cui ormai lui non badava neppure.
“Cosa ti ha detto Nolan?”
Wilson si fece sempre più serio. Cuddy lo osservò a lungo aspettando la sua risposta che dall’espressione del medico non preannunciava niente di buono. Allontanò la presa dalle mani della donna e se le appoggiò sulle sue ginocchia, giocando con il tessuto dei pantaloni perfettamente stirati.
“Ha detto che House ha fatto una scenata questa mattina. Non vuole più seguire la terapia.”
Cuddy aprì leggermente la bocca, ma non riuscì a formulare una frase coerente in poco tempo. Osservò le mani dell’oncologo eseguire quei piccoli cerchi imperfetti sul tessuto dei pantaloni, perdendo quasi la concentrazione, finchè le parole non uscirono da sole dalle sue labbra, quasi in un sussurro.
“Non può smettere con la terapia, non possono lasciarglielo fare.”
“Invece può. Lui è entrato nel percorso volontariamente. Sta a lui scegliere quando smettere con gli incontri.”
Cuddy si rialzò, ma pochi secondi e si risedette tenendosi la testa tra le mani.
“Lisa, stai bene?”
“Sì, è solo un po’ di mal di testa.”
“Sei sicura di star bene?”
“Sì, non ti preoccupare. E’ solo lo stress…”
“Mi devo fidare?”
“Sono un medico anche io…”
“Prendi qualcosa, il mal di testa non passa da solo”
Cuddy sorrise.  Si alzò e si sedette dietro la scrivania. Aprì il cassetto e prese un piccolo flacone di pillole. Lo aprì e ne estrasse due. Le osservò inconsciamente per un po’ di tempo, poi le inghiottì insieme all’acqua che Wilson gli porgeva.
“Grazie”
“Hai visto House questa mattina?”
“No, perché?”
“Ha un occhio nero. Gli ho chiesto come se lo sia fatto, ma ha detto che ha battuto contro il comodino”
“Di questo ci penso io, Wilson. Tu vedi di parlare con lui, e digli che lo aspetto nel mio ufficio più tardi. E voglio che ci sia qui anche tu.”
 Cuddy prese in mano il telefono, mentre Wilson camminava ancora verso la porta a vetri.
“Ah, Wilson. Non dirgli che te l’ho detto”
Il medico annuì e si incamminò nel corridoio, lasciando il capo da solo nel suo ufficio.
Cuddy compose il numero e appoggiò l’orecchio alla cornetta.
“Lucas, ho bisogno che controlli cosa ha fatto House nell’ultima settimana. E’ urgente”

Princeton. Appartamento Di House. Ore 14:00
Insieme al team aveva diagnosticato la malattia del paziente e finalmente poteva tornarsene a casa. Questa volta, al semaforo, non svoltò a sinistra, ma a destra. Ormai non sarebbe tornato nel loft di Wilson, nemmeno per prendere i suoi vestiti e le sue altre cose. Avrebbe mandato qualcuno della squadra a fare quel lavoretto. Ormai non era più il loft di Wilson e House, Sam lo aveva rimpiazzato. Non ci sarebbero più state le serate all’insegna del poker e dei porno. Solo serate noiose tra televisione e libri in completa solitudine. Ma per fortuna c’era sempre la sua musica.
Percorse il viale alberato e si fermò davanti al portone verde. Una folata di vento mosse gli alberi alle sue spalle, mentre procedeva lento, ma sicuro verso la porta d’entrata.
Appoggiò la mano alla maniglia, ma la porta si aprì rivelando l’interno al proprietario. Nulla era stato toccato, ma qualcuno era lì seduto al piano. La musica riempiva la stanza, mentre House cominciava a varcare l’ingresso a passi lenti, ma questa volta incerti.
Osservò l’uomo seduto al piano. Lo conosceva, ma rimase sorpreso nel vederlo. Lo riportò ai ricordi di quella mattinata. Richiamò anche quei mesi passati in quel luogo lontano da casa. Una delle persone a cui voleva bene, sì, forse gli voleva veramente bene, era seduta lì.
“Hei”
“Che ci fai qui? Non dovresti essere a Mayfield?”
“Mi hanno dimesso la settimana scorsa. Ti ho cercato, ma ho trovato solo il tuo appartamento vuoto.”
“Già, sono stato da un amico per un po’. Ma ora sono di nuovo qui.”
“Sono stato qui da solo tutto il tempo. Credo che ora però me ne debba andare”
Alvin prese la sua borsa intatta appoggiata al divano e salutò l’uomo.
“Che cosa ci facevi qui?”
“Cercavo te. Siamo amici no?”
“Credo di sì. Sei stato qui tutto il tempo?”
“Sì. Mi sono intrattenuto con il piano. Beh, ci vediamo in giro House”
Il ragazzo si allontanò lentamente verso la porta. Quando la varcò non si voltò a guardare la scena alle sue spalle. E contrariamente a ciò che aveva pensato, una voce lo chiamò dall’interno.
“Alvin. Puoi rimanere qui se vuoi.”
“Sul serio?”
“Non passo molto tempo a casa…”
“Sul serio?”
House rimase zitto mentre Alvin si avvicinava a lui, e con lo stessi gesto di quasi un anno prima lo abbracciava sorridendo. House si allontanò da quell’abbraccio poco dopo, un po’ schifato come sempre quando qualcuno mostrava un po’ di affetto nei suoi confronti. Si ricordò del suo abbraccio con Chase quasi tre anni prima, quando aveva mentito a tutto l’ospedale fingendosi un malato terminale per accaparrarsi un posto in un trial contro il dolore.
“Regola numero 1: Non farlo mai più”
Alvin sorrise, e rimase a fissarlo imbambolato.
“Si signore, non succederà più”
Il diagnosta si sedette sul piano. Contemplò la sua figura imponente. Percorse con i suoi occhi chiari, la forma perfetta e il perimetro perfetto di quello strumento perfettamente calibrato nel peso e nel suono. Il legno nero e liscio non era coperto di polvere come il resto dei mobili e questo colpi la sua attenzione maggiormente.
“Pulirlo è stata la prima cosa che ho fatto”
“Grazie”
House passò la mano ruvida sulla superficie perfettamente liscia, lasciando le tracce delle dita leggermente sudate. Fece scorrere le mani sui tasti, senza premere, solo per assaporare quella sensazione. Poi fece lo stesso gesto premendo le singole chiavi. La scala di note echeggiava nella stanza, in una melodia semplice e perfetta.
Alvin si avvicinò a lui e gli porse dei fogli ingialliti e scarabocchiati.
“Pensavo tu non avessi bisogno di spartiti per ricordare le note.”
“Infatti non ne ho bisogno.”
“E questi fogli cosa sono allora?”
House osservò quei fogli. Li fece scorrere sotto il suo sguardo da intenditore. Non aveva mai dato un nome a quella melodia che aveva scritto tempo prima. Aveva evitato di dare un nome ad ogni sua composizione, perché se ne avessero avuto uno avrebbero perso quella magia che si libra nell’aria ogni singola volta nell’ascoltarle.
“L’ho composta io”
L’uomo più giovane si sedette al suo fianco e cominciò a premere le dita sui tasti bicolore, cercando di leggere quei fogli che House teneva in mano, con la coda dell’occhio. Sbagliò una nota e House sogghignò.
“Hai sbagliato”
“Se non mi fai vedere lo spartito è ovvio!”
“Pensavo l’avessi già memorizzata”
House appoggiò i fogli sulla panca e chiuse gli occhi. Appoggiò le mani sulla superficie liscia delle chiavi e, senza aprire gli occhi, cominciò a suonare.
Le sue dita si muovevano delicatamente sulle chiavi. Ora lentamente, ora velocemente, mentre la musica invadeva la casa impolverata. Rimase con gli occhi chiusi anche dopo aver terminato quella melodia.
“Ho provato a suonarla, ma il risultato non era lo stesso.”
“E’ ovvio. Io sono un genio e tu no.”
“Certo, certo. Intendevo dire che tu ci metti qualcosa che io non ho”
Alvin prese gli spartiti e rimase a fissarli come in cerca di una risposta a quella sua domanda silenziosa.
“L’ho composta per una persona che ho perso un po’ di tempo fa”
“L’hai persa? Mi dispiace…perdere una persona è sempre una brutta cosa”
“Non è morta. L’ho solo persa”
“Parli di quella donna tedesca?”
Al pensiero di Lydia, House rabbrividì leggermente. Gli tornarono alla mente dei ricordi. Gli stessi ricordi di cui aveva parlato a quell’uomo sul letto di morte, mentre era bloccato in stanza con lui. Si era liberato di un peso, ma non aveva voluto ammettere tutta la verità. Aveva parlato di Lydia, ma non aveva voluto parlare di quella donna che lo aveva assillato come un enigma per molto più tempo. Forse non gliene aveva parlato perché era un fatto così ovvio, che ormai anche i pazienti se ne accorgevano senza fare domande.
“No…”
“A proposito che fine ha fatto?”
Che fine aveva fatto Lydia? La donna con cui aveva passato insieme una notte, con cui si era confidato, per cui aveva pianto, per cui aveva sofferto e non fatto soffrire. Pensò a quando aveva saputo che sarebbe partita, che lo avrebbe abbandonato per rimanere con la sua famiglia. Dopo quasi un anno si rese conto che aveva fatto al scelta giusta ad andarsene e a lasciarsi alle spalle quella storia senza alcuna possibilità di riuscita.
“Non ne ho idea”
“Beh, amico…era una bella donna”
“Già…”
“Ma è anche vero che la donna per cui hai scritto questo pezzo potrebbe essere meglio”
House sorrise insieme al suo vecchio compagno di stanza, ora nuovo coinquilino.
“Pomeriggio all’insegna della musica?”
“Perché no?”
Alvin rimase seduto sulla panca di fronte al piano, mentre House afferrava la chitarra dal suo sostegno e cominciava ad accordarla per il meglio.

Princeton Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio Di Cuddy. Ore 16:00
“Ciao tesoro, ho portato quello che mi hai chiesto”
Lucas entrò nell’ufficio della sua compagna senza bussare. Si avvicinò alla scrivania e si sporse verso la donna per baciarla. Cuddy non rifiutò il bacio e poco dopo prese la busta che Lucas le aveva portato.

“Cosa ha combinato House questa volta?”
“Niente. Oltre a rompere macchinari e ad insultare i pazienti e i suoi collaboratori?”
Il ragazzo annuì distrattamente mentre si sdraiava sul divanetto senza togliersi le scarpe. Cuddy lo osservò mentre appoggiava la testa sulle mani incrociate dietro la nuca. Le sorrise guadagnandosi un altro sorriso.
“Lo sai…”
“So cosa?”
“Sono fortunato ad avere trovato una come te”
Cuddy si alzò e si avvicinò a lui ammiccante. Lucas rimase lì sdraiato, mentre la dottoressa si sedeva vicino a lui e lo baciava.
“Anche se lavori troppo…”
“Lo sai che il mio lavoro è molto impegnativo”
“Ma nonostante questo trovi il tempo per me e per Rachel”
“Vorrei poter spendere più tempo con mia figlia…”
“Beh, allora andiamo da qualche parte per un paio di giorni. Niente lavoro, niente documenti, niente House che entra nel tuo ufficio…”
“Che c’entra House adesso? Perché tutti lo mettete in ogni discorso?”
“Scusa Lisa. Lui ha fatto parte della tua vota per molto tempo, e…”
“Ed è tuttora parte della mia vita. Ma a differenza di un po’ di tempo fa, lui è solo un mio impiegato.”
Lucas sorrise ricambiando alla risata del medico di fronte a lui. Si avvicinò di nuovo a lei e le rubò l’ennesimo bacio, prima di scattare in piedi.
“Ti aspetto per cena. Io e Rachel prepariamo la cena stasera”
“Grazie…”
“A dopo allora…”
“A dopo…”
“Ciao tesoro mio…”
“Ciao…”
Cuddy andò verso al sua scrivania lentamente, fissando la busta preoccupata dal contenuto che nascondeva. Ne osservò il colore: uno strano giallo o forse marrone; era quasi indecifrabile. Indecifrabile come ciò che si vedeva all’interno. La prese tra le mani e rimase sorpresa da quanto leggera fosse. Conteneva a malapena un paio di fogli. La aprì lentamente, fissando la carta che si lacerava senza alcun vincolo. La lama scorreva lentamente lungo uno dei lati più corti senza trovare alcun ostacolo. Cuddy osservò la carta lacerarsi lentamente. Ogni secondo sembrava amplificato anche quando la busta era finalmente aperta ed il suo contenuto era stato svuotato sulla scrivania.
Cuddy osservò quel piccolo foglio che era caduto dalla busta. Immediatamente prese il telefono.
“Wilson, ti voglio il prima possibile nel mio ufficio. E voglio anche House.”

   
 
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