The Bitter End
Capitolo 3: A Place Called Home
Parte II
Princeton
Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio di House. Ore 11:00.
“House!
Che diavolo ti prende!?”
“Cosa vuoi Wilson?”
“Poco fa mi ha chiamato Nolan. Mi spieghi il motivo di quella
scenata?”
“Non sono affari tuoi”
“Eccome se lo sono.”
“E invece no…”
“House, stai distruggendo tutto quello che hai creato
nell’ultimo anno. Non
comportarti così!”
“Comportarmi come?”
Wilson si avvicinò per osservare il livido che circondava
l’occhio del suo
migliore amico.
“Come ti sei fatto quel livido?”
“Ho battuto contro il comodino”
“Certo, e da quando il comodino lascia il segno delle nocche
che non ha?”
“Come ho già detto non sono affari tuoi”
“E come ho anch’io già detto, sono tuo
amico”
“E con questo?”
Wilson si allontanò dall’uomo, ma si
fermò sulla porta. Stava per girarsi, ma
all’ultimo momento si chiuse la porta alle spalle. House
osservò l’oncologo
allontanarsi nel corridoio, finchè l’ascensore non
lo inghiottì in pochi
istanti.
Il diagnosta si sedette dietro la sua scrivania, cercando di sgomberare
la
mente dagli ultimi avvenimenti. Ma ogni volta che tentava di cancellare
i
ricordi e scacciare i pensieri, dopo pochi minuti tutto tornava come
prima.
Faceva finta che quella notte non fosse mai successa, ma invece si
accorgeva
che negare l’evidenza lo faceva stare male.
Princeton
Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio del
Primario di Medicina. Ore 11:30
Wilson entrò nell’ufficio del primario senza
bussare.
“Nolan mi ha chiamato…”
Cuddy alzò lo sguardo dai documenti. Guardava
l’oncologo in modo furioso, ma
allo stesso tempo era incuriosita da quell’entrata improvvisa.
“Non parlarmi di House…”
“Che…che cosa? Cuddy è una cosa
seria…”
“Nelle ultime settimane sei sempre entrato nel mio ufficio
dicendomi che House
ne ha combinata una delle sue. Sono stanca, tu e Nolan dovete smetterla
di
accudirlo come un bambino.”
Wilson la guardò spiazzato.
“Che cosa ti prende!? Perché ti comporti
così?”
“Perché sono stanca di tutto questo”
“Non mi sembra un buon motivo per abbandonare un
amico”
“Lo sai che io e lui non siamo mai
stati…amici”
“Già, non siete mai stati amici…siete
sempre stati innamorati uno dell’altro…”
“Adesso basta!”
Cuddy si alzò dalla sedia di scatto, appoggiando le mani
alla scrivania; un
gesto fatto quasi per trattenere la rabbia, che mano a mano cominciava
a salire
dal profondo. Wilson rimase a guardarla, mentre lei si lasciava
scivolare di
nuovo sulla sedia. Appoggiò i gomiti alla scrivania e
strinse la testa tra i
palmi delle mani, cercando di massaggiarsi le tempie che cominciavano a
pulsare
velocemente, dandole fastidio.
“Non ce la faccio più Wilson, mi
dispiace”
“Cuddy, io…”
“Non è colpa tua. E’ tutta colpa
mia…”
Cuddy si raddrizzò sulla sedia, cercando di mantenere in
piedi quella maschera
che aveva costruito nelle ultime settimane. Una maschera che mostrava
solo ciò
che lei voleva, ma che cominciava a sgretolarsi sotto il peso della
stanchezza
e del rimorso.
“Due settimane fa, io ed House abbiamo parlato. Abbiamo
deciso che avremmo
vissuto separati uno dall’altro per sempre. Niente
più scherzi, niente più
battibecchi, niente battute sul mio corpo e così
via…”
Wilson si sedette sul divano, mentre Cuddy lo raggiungeva.
“Perché avete litigato?”
Cuddy lo guardò. Gli occhi scuri del medico si confusero nel
messaggio infinito
che quegli occhi celesti nascondevano da ormai troppo tempo.
“No, abbiamo avuto una discussione a quanto pare
civile.”
Cuddy abbassò lo sguardo. Si fissava le mani. Stringeva i
pugni tanto da
lasciare i segni delle unghie nella carne del palmo. Wilson, le prese
le manie
le strinse nelle sue.
“Ti ha ferita di nuovo, mi dispiace…”
“No…”
Wilson le afferrò le mani, per impedirle di graffiare la
pelle con le unghie.
“Non è colpa tua. Anch’io sono stato
poco gentile con lui da quando sono con
Sam.”
“No, tu non c’entri niente…”
“E invece sì. Gli ho chiesto di andarsene da casa
mia, perchè voglio tornare a
vivere con Sam.”
“Non è questo il problema,
Wilson…”
“E invece sì. Mi sento in
colpa…”
“Anch’io…”
“Sappiamo come è House. Sappiamo il modo in cui
reagisce a certe notizie.”
Rimasero in silenzio per qualche secondo cercando di immaginare le
sensazioni
che House aveva provato in quell’ultimo periodo. Ma solo
Cuddy poteva
avvicinarsi a quelle emozioni. Solo lei poteva percepire ogni pensiero
dell’uomo che aveva amato per troppo tempo. Wilson non sapeva
niente di quello
che era successo, era facile mentirgli. Si fidava delle persone
ciecamente, si
lasciava abbindolare dalle loro scuse insulse, a cui ormai lui non
badava
neppure.
“Cosa ti ha detto Nolan?”
Wilson si fece sempre più serio. Cuddy lo osservò
a lungo aspettando la sua
risposta che dall’espressione del medico non preannunciava
niente di buono.
Allontanò la presa dalle mani della donna e se le
appoggiò sulle sue ginocchia,
giocando con il tessuto dei pantaloni perfettamente stirati.
“Ha detto che House ha fatto una scenata questa mattina. Non
vuole più seguire
la terapia.”
Cuddy aprì leggermente la bocca, ma non riuscì a
formulare una frase coerente
in poco tempo. Osservò le mani dell’oncologo
eseguire quei piccoli cerchi
imperfetti sul tessuto dei pantaloni, perdendo quasi la concentrazione,
finchè
le parole non uscirono da sole dalle sue labbra, quasi in un sussurro.
“Non può smettere con la terapia, non possono
lasciarglielo fare.”
“Invece può. Lui è entrato nel percorso
volontariamente. Sta a lui scegliere
quando smettere con gli incontri.”
Cuddy si rialzò, ma pochi secondi e si risedette tenendosi
la testa tra le
mani.
“Lisa, stai bene?”
“Sì, è solo un po’ di mal di
testa.”
“Sei sicura di star bene?”
“Sì, non ti preoccupare. E’ solo lo
stress…”
“Mi devo fidare?”
“Sono un medico anche io…”
“Prendi qualcosa, il mal di testa non passa da solo”
Cuddy sorrise. Si
alzò e si sedette
dietro la scrivania. Aprì il cassetto e prese un piccolo
flacone di pillole. Lo
aprì e ne estrasse due. Le osservò inconsciamente
per un po’ di tempo, poi le
inghiottì insieme all’acqua che Wilson gli porgeva.
“Grazie”
“Hai visto House questa mattina?”
“No, perché?”
“Ha un occhio nero. Gli ho chiesto come se lo sia fatto, ma
ha detto che ha
battuto contro il comodino”
“Di questo ci penso io, Wilson. Tu vedi di parlare con lui, e
digli che lo
aspetto nel mio ufficio più tardi. E voglio che ci sia qui
anche tu.”
Cuddy prese in mano
il telefono, mentre
Wilson camminava ancora verso la porta a vetri.
“Ah, Wilson. Non dirgli che te l’ho detto”
Il medico annuì e si incamminò nel corridoio,
lasciando il capo da solo nel suo
ufficio.
Cuddy compose il numero e appoggiò l’orecchio alla
cornetta.
“Lucas, ho bisogno che controlli cosa ha fatto House
nell’ultima settimana. E’
urgente”
Princeton.
Appartamento Di House. Ore 14:00
Insieme al team aveva diagnosticato la malattia del paziente e
finalmente
poteva tornarsene a casa. Questa volta, al semaforo, non
svoltò a sinistra, ma
a destra. Ormai non sarebbe tornato nel loft di Wilson, nemmeno per
prendere i
suoi vestiti e le sue altre cose. Avrebbe mandato qualcuno della
squadra a fare
quel lavoretto. Ormai non era più il loft di Wilson e House,
Sam lo aveva
rimpiazzato. Non ci sarebbero più state le serate
all’insegna del poker e dei
porno. Solo serate noiose tra televisione e libri in completa
solitudine. Ma
per fortuna c’era sempre la sua musica.
Percorse il viale alberato e si fermò davanti al portone
verde. Una folata di
vento mosse gli alberi alle sue spalle, mentre procedeva lento, ma
sicuro verso
la porta d’entrata.
Appoggiò la mano alla maniglia, ma la porta si
aprì rivelando l’interno al
proprietario. Nulla era stato toccato, ma qualcuno era lì
seduto al piano. La
musica riempiva la stanza, mentre House cominciava a varcare
l’ingresso a passi
lenti, ma questa volta incerti.
Osservò l’uomo seduto al piano. Lo conosceva, ma
rimase sorpreso nel vederlo.
Lo riportò ai ricordi di quella mattinata.
Richiamò anche quei mesi passati in
quel luogo lontano da casa. Una delle persone a cui voleva bene,
sì, forse gli
voleva veramente bene, era seduta lì.
“Hei”
“Che ci fai qui? Non dovresti essere a Mayfield?”
“Mi hanno dimesso la settimana scorsa. Ti ho cercato, ma ho
trovato solo il tuo
appartamento vuoto.”
“Già, sono stato da un amico per un po’.
Ma ora sono di nuovo qui.”
“Sono stato qui da solo tutto il tempo. Credo che ora
però me ne debba andare”
Alvin prese la sua borsa intatta appoggiata al divano e
salutò l’uomo.
“Che cosa ci facevi qui?”
“Cercavo te. Siamo amici no?”
“Credo di sì. Sei stato qui tutto il
tempo?”
“Sì. Mi sono intrattenuto con il piano. Beh, ci
vediamo in giro House”
Il ragazzo si allontanò lentamente verso la porta. Quando la
varcò non si voltò
a guardare la scena alle sue spalle. E contrariamente a ciò
che aveva pensato,
una voce lo chiamò dall’interno.
“Alvin. Puoi rimanere qui se vuoi.”
“Sul serio?”
“Non passo molto tempo a casa…”
“Sul serio?”
House rimase zitto mentre Alvin si avvicinava a lui, e con lo stessi
gesto di
quasi un anno prima lo abbracciava sorridendo. House si
allontanò da
quell’abbraccio poco dopo, un po’ schifato come
sempre quando qualcuno mostrava
un po’ di affetto nei suoi confronti. Si ricordò
del suo abbraccio con Chase
quasi tre anni prima, quando aveva mentito a tutto l’ospedale
fingendosi un
malato terminale per accaparrarsi un posto in un trial contro il dolore.
“Regola numero 1: Non farlo mai più”
Alvin sorrise, e rimase a fissarlo imbambolato.
“Si signore, non succederà
più”
Il diagnosta si sedette sul piano. Contemplò la sua figura
imponente. Percorse
con i suoi occhi chiari, la forma perfetta e il perimetro perfetto di
quello
strumento perfettamente calibrato nel peso e nel suono. Il legno nero e
liscio
non era coperto di polvere come il resto dei mobili e questo colpi la
sua
attenzione maggiormente.
“Pulirlo è stata la prima cosa che ho
fatto”
“Grazie”
House passò la mano ruvida sulla superficie perfettamente
liscia, lasciando le
tracce delle dita leggermente sudate. Fece scorrere le mani sui tasti,
senza
premere, solo per assaporare quella sensazione. Poi fece lo stesso
gesto
premendo le singole chiavi. La scala di note echeggiava nella stanza,
in una
melodia semplice e perfetta.
Alvin si avvicinò a lui e gli porse dei fogli ingialliti e
scarabocchiati.
“Pensavo tu non avessi bisogno di spartiti per ricordare le
note.”
“Infatti non ne ho bisogno.”
“E questi fogli cosa sono allora?”
House osservò quei fogli. Li fece scorrere sotto il suo
sguardo da intenditore.
Non aveva mai dato un nome a quella melodia che aveva scritto tempo
prima.
Aveva evitato di dare un nome ad ogni sua composizione,
perché se ne avessero
avuto uno avrebbero perso quella magia che si libra nell’aria
ogni singola
volta nell’ascoltarle.
“L’ho composta io”
L’uomo più giovane si sedette al suo fianco e
cominciò a premere le dita sui
tasti bicolore, cercando di leggere quei fogli che House teneva in
mano, con la
coda dell’occhio. Sbagliò una nota e House
sogghignò.
“Hai sbagliato”
“Se non mi fai vedere lo spartito è
ovvio!”
“Pensavo l’avessi già
memorizzata”
House appoggiò i fogli sulla panca e chiuse gli occhi.
Appoggiò le mani sulla
superficie liscia delle chiavi e, senza aprire gli occhi,
cominciò a suonare.
Le sue dita si muovevano delicatamente sulle chiavi. Ora lentamente,
ora velocemente,
mentre la musica invadeva la casa impolverata. Rimase con gli occhi
chiusi
anche dopo aver terminato quella melodia.
“Ho provato a suonarla, ma il risultato non era lo
stesso.”
“E’ ovvio. Io sono un genio e tu no.”
“Certo, certo. Intendevo dire che tu ci metti qualcosa che io
non ho”
Alvin prese gli spartiti e rimase a fissarli come in cerca di una
risposta a
quella sua domanda silenziosa.
“L’ho composta per una persona che ho perso un
po’ di tempo fa”
“L’hai persa? Mi dispiace…perdere una
persona è sempre una brutta cosa”
“Non è morta. L’ho solo persa”
“Parli di quella donna tedesca?”
Al pensiero di Lydia, House rabbrividì leggermente. Gli
tornarono alla mente
dei ricordi. Gli stessi ricordi di cui aveva parlato a
quell’uomo sul letto di
morte, mentre era bloccato in stanza con lui. Si era liberato di un
peso, ma
non aveva voluto ammettere tutta la verità. Aveva parlato di
Lydia, ma non
aveva voluto parlare di quella donna che lo aveva assillato come un
enigma per
molto più tempo. Forse non gliene aveva parlato
perché era un fatto così ovvio,
che ormai anche i pazienti se ne accorgevano senza fare domande.
“No…”
“A proposito che fine ha fatto?”
Che fine aveva fatto Lydia? La donna con cui aveva passato insieme una
notte,
con cui si era confidato, per cui aveva pianto, per cui aveva sofferto
e non
fatto soffrire. Pensò a quando aveva saputo che sarebbe
partita, che lo avrebbe
abbandonato per rimanere con la sua famiglia. Dopo quasi un anno si
rese conto
che aveva fatto al scelta giusta ad andarsene e a lasciarsi alle spalle
quella
storia senza alcuna possibilità di riuscita.
“Non ne ho idea”
“Beh, amico…era una bella donna”
“Già…”
“Ma è anche vero che la donna per cui hai scritto
questo pezzo potrebbe essere
meglio”
House sorrise insieme al suo vecchio compagno di stanza, ora nuovo
coinquilino.
“Pomeriggio all’insegna della musica?”
“Perché no?”
Alvin rimase seduto sulla panca di fronte al piano, mentre House
afferrava la
chitarra dal suo sostegno e cominciava ad accordarla per il meglio.
Princeton Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio Di Cuddy. Ore 16:00
“Ciao tesoro, ho portato quello che mi hai
chiesto”
Lucas entrò nell’ufficio della sua compagna senza
bussare. Si avvicinò alla
scrivania e si sporse verso la donna per baciarla. Cuddy non
rifiutò il bacio e
poco dopo prese la busta che Lucas le aveva portato.
“Cosa
ha combinato House questa volta?”
“Niente. Oltre a rompere macchinari e ad insultare i pazienti
e i suoi
collaboratori?”
Il ragazzo annuì distrattamente mentre si sdraiava sul
divanetto senza
togliersi le scarpe. Cuddy lo osservò mentre appoggiava la
testa sulle mani
incrociate dietro la nuca. Le sorrise guadagnandosi un altro sorriso.
“Lo sai…”
“So cosa?”
“Sono fortunato ad avere trovato una come te”
Cuddy si alzò e si avvicinò a lui ammiccante.
Lucas rimase lì sdraiato, mentre
la dottoressa si sedeva vicino a lui e lo baciava.
“Anche se lavori troppo…”
“Lo sai che il mio lavoro è molto
impegnativo”
“Ma nonostante questo trovi il tempo per me e per
Rachel”
“Vorrei poter spendere più tempo con mia
figlia…”
“Beh, allora andiamo da qualche parte per un paio di giorni.
Niente lavoro,
niente documenti, niente House che entra nel tuo
ufficio…”
“Che c’entra House adesso? Perché tutti
lo mettete in ogni discorso?”
“Scusa Lisa. Lui ha fatto parte della tua vota per molto
tempo, e…”
“Ed è tuttora parte della mia vita. Ma a
differenza di un po’ di tempo fa, lui
è solo un mio impiegato.”
Lucas sorrise ricambiando alla risata del medico di fronte a lui. Si
avvicinò
di nuovo a lei e le rubò l’ennesimo bacio, prima
di scattare in piedi.
“Ti aspetto per cena. Io e Rachel prepariamo la cena
stasera”
“Grazie…”
“A dopo allora…”
“A dopo…”
“Ciao tesoro mio…”
“Ciao…”
Cuddy andò verso al sua scrivania lentamente, fissando la
busta preoccupata dal
contenuto che nascondeva. Ne osservò il colore: uno strano
giallo o forse
marrone; era quasi indecifrabile. Indecifrabile come ciò che
si vedeva
all’interno. La prese tra le mani e rimase sorpresa da quanto
leggera fosse.
Conteneva a malapena un paio di fogli. La aprì lentamente,
fissando la carta
che si lacerava senza alcun vincolo. La lama scorreva lentamente lungo
uno dei
lati più corti senza trovare alcun ostacolo. Cuddy
osservò la carta lacerarsi
lentamente. Ogni secondo sembrava amplificato anche quando la busta era
finalmente
aperta ed il suo contenuto era stato svuotato sulla scrivania.
Cuddy osservò quel piccolo foglio che era caduto dalla
busta. Immediatamente
prese il telefono.
“Wilson, ti voglio il prima possibile nel mio ufficio. E
voglio anche House.”