Quella
sera i bambini del quartiere avevano di che gioire. Videro i loro padri trasportare
tavoli e sedie
facendoli uscire, talvolta con difficoltà dalle porte delle
loro casette, e
sistemarli tutti in cortile attorno al pozzo. Videro le loro madri
riunirsi in
casa della comare che aveva -fortunata lei- la cucina più
grande e spaziosa e
mettersi al lavoro per cucinare, con il poco che avevano, prelibatezze
da
mangiare per tutti quanti.
C’era
aria di festa, nell’aria.
La madre
di Lovino e Feliciano stava facendo un breve lista di quello che
potevano
utilizzare per preparare un pasto decente, necessario a soddisfare i
palati,
per nulla sopraffini, della gente del posto. Il pane c’era, e
anche l’olio, il
sale ed il pepe. E qualcuno doveva tenere in dispensa anche un pizzico
di
origano, o di qualche altra spezia esotica. Per cominciare, quindi, si
poteva
preparare del pane cunzato , poi,
magari, se qualcuno aveva delle acciughe e dei pomodori freschi anche
dei
panini imbottiti. Bisognava chiedere al fornaio. Le acciughe le aveva
lei,
conservate sotto sale, gliele aveva date Nuccia, la moglie del
droghiere… o era
Nella, la figlia? Non ricordava. Mentre Lovino e Feliciano giocavano
con
Mrinella ed Antonio a rincorrersi, intralciando il lavoro degli uomini
che
trasportavano i mobili fuori in cortile, inciampando tra le gonne,
passando
sotto le gambe delle signore che tranquille sistemavano le cerate e i trubberi
sui
tavoli, lei contava le uova. troppo poche per farne una torta. E non
c’era
abbastanza latte.
<<
Oh beh… mettiamoci al lavoro >> disse
sfregandosi le mani.
Il buio
non era ancora sceso, che già un mucchio di gente si era
riversata sui tavoli
imbanditi. Alla fine, ciò che le donne non erano riuscite a
racimolare, ovvero
dolciumi e caramelle, l’avevano portato la moglie del
pasticciere ed i maestri
caramellai del paese, i giovani figli dell’ormai anziano
caramellaio. Così i
più grandi gustarono cannoli, cassate e graffe, mentre i
bambini inseguivano i
ragazzi con i vassoi colmi di carrubbe, leccalecca, caramelle
all’anice, alla
menta, all’arancia… una vera cuccagna. Ben diverso
dai pane e cipuddra che
erano soliti mangiare. Un piacevole diversivo, che, come tale, non
sarebbe
durato a lungo. Dovevano approfittarne, perciò, chi le
possedeva –chi faceva il
garzone, quindi- spendeva con noncuranza le due lire che riceveva come
paga dal
bottegaio, dal falegname o dal parrucchiere. La giusta paga per una
giornata
passata a spazzare trucioli o capelli appena tagliati dal pavimento.
Gli
adulti chiacchieravano tra di loro, le vecchie spettegolavano
allegramente di
quella ragazza che era fuiuta con
il
fidanzato o di quel contadino mischineddru
che aveva perso tutti i suoi terreni per una scommessa. C’era
chi aveva messo
su una piccola orchestrina, con due violini, una chitarra senza corde e
un
ragazzo che teneva il tempo battendo le mani. Le giovani ragazze
più virtuose
si divertivano ad intonare vecchie canzoni popolari, tra gli sguardi
maliziosi
dei giovanottini e le occhiate
invidiose
delle signorinelle della loro
età.
Naturalmente, gli uomini stringevano calorosamente la mano al padre del
bambino
appena nato a cui era dovuta la festa, che stava avidamente succhiando
il latte
dal seno della mammana,mentre la
madre riposava, sfinita dal parto, in casa tra le lenzuola.
I
bambini invece, giocavano i disparte, disposti a cerchio, tenendosi per
mano.
Si apprestavano ad un girotondo. Feliciano stringeva la mano di Lovino
preoccupato, perché il fratello gli aveva raccontato che una
volta ad un
bambino che girava troppo forte, gli si erano staccate le braccia.
Quella di
Feliciano era l’età dei mostri e delle streghe,
l’età in cui la mamma gli
racconta dell’uomo nero, del bau bau, per farli andare a
letto presto. E lui
ovviamente, credeva a certe cose. Soprattutto se uscivano dalla bocca
del
fratello.
<<
Lovì, ma a quel bambino veramente ci si sono staccate le
braccia? >>
chiese sottovoce. Lovino ridacchiò
<<
Ma certo che non è vero. Scherzavo, scemo >>
rispose. Feliciano tirò un sospiro di
sollievo. Poco importava che il fratello lo avesse ingiustamente preso
in giro.
Le sue braccia non si sarebbero staccate. Poteva giocare
tranquillamente.
Marinella
cominciò ad intonare una cantilena:
<< Rumani
è duminica,
tagliamu la testa a Minica, Minica un c’è,
ccìa tagghiamu o re… >> e
i bambini iniziarono a girare.
<< …u
re è malatu, ccìa tagghiamu o surdato…
>> cantava Marinella, mentre
il i bambini giravano sempre più veloce.
<<
…u surdato è a far la
guerra… >>
e già gli altri ragazzini ridacchiavano
sommessamente. Lovino ed Antonio si scambiarono uno sguardo. Le loro
madri li
avevano entrambi vestiti con i loro indumenti migliori, camicia bianca
e
pantaloncini di stoffa grezza, con calzettoni che prudevano e che
arrivavano
fin quasi al ginocchio. Le scarpe erano quelle di tutti i giorni.
Avevano anche
i capelli pettinati per bene, ma Lovino conservava quel ricciolo
ribelle che
apparteneva anche al fratello Feliciano, e i capelli corti di Antonio,
per
quanto più ordinati del solito, erano sempre indomabili.
Sorrisero.
<< tutti
cu culu ‘nterra! >>
esclamò Marinella, finendo così la filastrocca,
tra lo sgomento dei parenti attorno a loro. I bambini, ridendo, si
lasciarono
cadere a terra tra le risate generali, mentre le rispettive madri si
precipitavano a tirare su i loro figli, rimproverandoli per aver
insozzato i
vestiti puliti.
A gioco
finito, i bambini si dispersero. I più golosi tornarono ad
addentare il pane,
le bambine presero a costruire bambole con delle vecchie pezzuole, le
attorcigliarono fino a farne una palla in cima e poi strozzarono il
grumo di
stoffa con un elastico, in modo che la palla in cima rappresentasse la
testa e
il resto della pezza il corpo. Non c’era niente di meglio per
loro. Lovino ed Antonio
si fermarono a giocare con gli altri bambini a pallone, mentre
Feliciano si
diresse, assonnato, tra le braccia della sua mamma.
<<
Oh, Feliciano… che ci fai qui? Non vai a giocare con tuo
fratello? >>
chiese la donna mettendo a sedere sulle sue ginocchia il figlio
<<
Lovino dice che sono troppo piccolo per giocare >> disse
strofinandosi
gli occhi assonnati. La madre alzò gli occhi al cielo,
rassegnata.
<<
Ma non c’è bisogno che lo rimproveri. Non voglio
giocare e poi ho sonno
>> disse in difesa del fratello.
<<
Sei troppo buono con lui >> disse la madre arruffandogli
i capelli
<< Il mio ometto >> rise.
<< Non lo mettere in castigo.
Lui non è cattivo.
Fa così perché è arrabbiato con
papà. Io glielo dico sempre che papà non ci
poteva fare niente se è morto. Ma lui niente, non ne vuole
sentir parlare
>> disse, e si raggomitolò contro il ventre
della madre. Lei non rispose,
si asciugò tristemente una lacrima che le scese dagli occhi
<<
…Mamma? >> la chiamò Feliciano
<< scusami… >>
<<
No, non devi scusarti. E lasciamo perdere queste cose, su, stasera si
festeggia, bisogna essere allegri! >>
Feliciano
guardò sua madre. Aveva gli occhi lucidi.
<<
Mamma? >> le chiese << Faremo una festa
anche noi quando nascerà il
bambino? >>
La madre
a quel punto guardò teneramente Feliciano e poi si
accarezzò la pancia. Anche
se da pochi mesi, il pancione infatti era ancora poco visibile, era
incinta e
quell’inverno avrebbe regalato ai suoi bambini un fratellino
o una sorellina
con cui giocare. Abbracciò Feliciano e gli passò
dolcemente una mano tra i
capelli.
<<
Certo tesoro, certo. E tu e Lovino vi divertirete un sacco
>> disse baciandogli
la fronte.
*Letteralmente
il pane cunzatu è il “pane condito” si
fa con olio,
sale e origano.
*Le
cerate e i trubberi sono le tovaglie
*mischineddru
significa, poveraccio, poverello
*
la mammana è la balia. Le madri che non potevano allattare i
figli
li affidavano a loro.
*Domani
è domenica, tagliamo la testa e Menica, Menica non
c’è, la
tagliamo al re, il re è ammalato la tagliamo al soldato, il
soldato è a far la
guerra, tutti col culo per terra. Me l’ha insegnata mia nonna
:D