Beh Robuccia, sono contentissima che ti piaccia. Molti degli episodi raccontati nella fic sono tratti da varie storie che i miei nonni mi raccontavano (e mi raccontano ancora XD) Ecco un'altro capitolo.
Quell’inverno
la madre di Lovino partorì una bambina morta.
Il parto
era stato difficile, e la bambina aveva avuto seri problemi a
respirare. Il
dottore non era riuscito ad arrivare in tempo, Lovino, alle prime
doglie della
madre, si era precipitato per le strade a cercare una levatrice,
invano. Le
donne del luogo si erano offerte per dare una mano, ma le conoscenze
mediche
erano scarse anche se tutte si erano messe di buona lena a preparare
suffumigi
e a bollire acqua, lavorando alacremente. Ma invano.
Teresa,
così avevano deciso di chiamarla lei, Feliciano e Lovino se
fosse stata una
bambina, venne al mondo senza un vagito. Per tutto il giorno ai vicini
toccò
sentire il suo straziante pianto. Feliciano singhiozzava, stretto tra
le
braccia del fratello, che per una volta non si sarebbe burlato del suo
pianto.
Il
funerale per la bambina venne organizzato in fretta e furia, dai
genitori di
Antonio, vecchi amici di famiglia. Il tabuto
della bambina consisteva in una cassetta da frutta male inchiodata.
Quando
c’era un funerale la gente era solita intrecciare corolle di
fiori da portare,
durante la messa, sulla bara del
defunto. Adesso sulla bara c’erano solo una candela la cui
fiamma tremula stava
per spegnersi al vento ed un appassito crisantemo giallo. Né
una foto, scattata
ormai quando la bambina era già morta, come spesso accadeva,
né un voluminoso
mazzo di fiori adagiati sulla bara come esequie. Non c’era
nemmeno la chiesa.
La gente si era riunita in cortile, al freddo, e il prete, mosso dalla
compassione per quella povera donna, si era generosamente offerto di
recitare
una piccola omelia per la bambina. In paese sapevano tutti che Donna
Mannina
aveva già perso il marito. Ed ora era stata privata della
felicità che una
nuova bocca da sfamare comportava. Il prete si era chiesto se forse
quella
neonata avrebbe potuto portare un po’ di allegria a lei e al
suo figliolo, quel
bambino sempre imbronciato, quel Lovino. “ Chetatevi, Donna
Mannina. Ci penserò
io a dire qualche parola, così che vostra figlia possa essere accolta nel
regno dei cieli”
aveva detto.
Dopo aver
recitato una sbrigativa preghiera, il pastore congedò i
paesani e prese in
disparte la madre di Feliciano e Lovino, per rassicurarla,
consigliandole di
riporre tutte le sue speranze, la sua già cieca fede in Dio,
che tutto vede e
tutto può. Poi si accordò con il padre di
Antonio, assicurandogli che un suo
lontano cugino, tale Peppino, lo avrebbe accompagnato al cimitero col
suo
calessino senza fargli pagare una lira. Era un favore per un amico e
per –aveva
abbassato la voce, indicando- quella
povera donna.
Al
funerale piangevano tutti. Feliciano, abbarbicato al grembo della
madre,
singhiozzava affondando la testa nel suo seno. Marinella, gli occhi
rossi, che
si lisciava nervosamente le trecce, per l’occasione legate da
nastrini neri. E
Antonio, accanto a lui, che si asciugava le gocce che di tanto in tanto
gli
rigavano le guance con la manica della camicia.
Lovino
invece no. Non ci riusciva. Sapeva che sarebbe stato opportuno farlo,
però, in
un momento del genere. Quel fagottino meritava davvero le sue lacrime?
Si erano
mai azzuffati, loro due? La bambina gli aveva mai strappato un sorriso?
Aveva
mai rubato i limoni dal campo dello sciancato,
fatto i tuffi dal molo, giocato a biglie, alla guerra, al nascondino,
ai
pirati, con lui?
Se fosse
morto Antonio, Lovino sì che avrebbe pianto. E anche se se
ne fosse andato via
Feliciano. Ma quella che avrebbe dovuto essere la sua sorellina ora non
c’era
più, e Lovino non era in grado di piangere per lei. Era come
un’estranea. La
cosa però, non gli quadrava affatto. Ricordava che una volta
suo padre lo aveva
portato in spiaggia, mentre gli aerei bombardavano Palermo. Gli diceva
“Guarda
il cielo”. Lui
si stendeva sulla sabbia
e assieme al padre guardava gli aerei andare a venire dalla
capitale. Una
volta ci era persino andato, a Palermo. Il padre lo aveva portato con
sé al
mercato a vendere le pecore. Il padre si era fermato al banco di un
macellaio a
parlottare con un paesano che portava una mucca al guinzaglio e un otre
colmo
d’acqua sulle spalle. Si diceva che al molo avessero
ammazzato un tale, e che
nessuno fino a quel momento aveva avuto la decenza di rimuovere il
corpo. “Furono i soliti disonesti ad
ammazzarlu. Ma
s’un ni stamu muti, ccà finisce male”
Lovino allora, da bravo monello qual’era,
era scappato di soppiatto. Al porto non c’era nessuno. Solo
quella che il
lontananza pareva una carcassa, abbandonata sul pontile. Si era
avvicinato
curioso, ed aveva scoperto un ragazzo piuttosto giovane, con una
vistosa
macchia di sangue sul petto. Aveva il volto sfregiato e pieno di
lividi. Stava
per sfiorarlo, quando si sentì afferrare per la camicia.
Lovino
sentì una mano rassicurante poggiarsi sulla sua spalla.
<<
No
te preocupes, Lovì. È dura, lo so.
Piangerai anche tu, come tutti >> Antonio
lo guardava con commiserazione, un sorriso sconfortante sulle labbra
piene. Se
c’era una cosa che Lovino odiava, quella era la compassione.
Orgoglioso com’era,
non sopportava la pietà della gente.
<< Nino, va fa’ ‘nto culo, va’ >> commentò aspro.
* Sono stati i soliti
disonesti ad ammazzarlo. Ma se non stiamo zitti, qua finisce male.
Non avrei voluto parlare di mafia in questa fic, ma mi
limiterò solo a questo riferimento. Ai tempi dei nostri
nonni c'era, eccome se c'era, come c'è ancora oggi. Ma per
una volta, voglio parlare delle bellezze della mia terra e di episodi
che spero vi facciano sorridere.