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Autore: samek    04/05/2010    3 recensioni
Vi siete mai chiesti come potrebbero essere Holmes e Watson ai giorni nostri? Che aspetto avrebbero, che lavoro farebbero ed in che modo potrebbero incontrarsi? Io l’ho fatto e questa è la risposta che mi sono data: un tentativo di trasportare il canon nel presente.
(Per la Warning Table di holmes_ita)
Genere: Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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La nebbia è la più vecchia amica di Londra, credo che senza di lei la città sarebbe irriconoscibile

Fandom: Sherlock Holmes;

Pairing: Holmes/Watson;

Rating: Pg;

Genere: Angst, Introspettivo, Romantico.

Warning: Alternative Universe;

Beta: Narcissa63;

Summary: Vi siete mai chiesti come potrebbero essere Holmes e Watson ai giorni nostri? Che aspetto avrebbero, che lavoro farebbero ed in che modo potrebbero incontrarsi? Io l’ho fatto e questa è la risposta che mi sono data: un tentativo di trasportare il canon nel presente.

(Per la Warning Table di holmes_ita)

Note: Scritta per la Warning Table di holmes_ita, Prompt 01 – Alternative Universe.

Partecipa ad “A tutto campo!” del Marauders Archive.

 

DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.

 

 

Il Violinista di Uno Studio in Rosso

 

La nebbia è la più vecchia amica di Londra, ritengo che senza di lei la città sarebbe irriconoscibile. Perfino nelle frizzanti giornate d’aprile, ammanta le vie grigie in un tenero abbraccio.

Quella sera, come tutte le altre da un po’ di tempo a quella parte, mi trovavo ad indugiare in una lunga passeggiata, restio a rincasare. 

Quando un anno prima ero rientrato dall’Afghanistan, felice ed innamorato, ed avevo sposato Mary Morstan, un’infermiera che lavorava nell’ospedale militare in cui venni trasferito, non avrei mai pensato che un cancro me l’avrebbe portata via sei mesi dopo. Il Fato ha un’ironia macabra: a cosa serve essere un medico, se non puoi salvare la donna che ami?

Non riuscivo a rientrare a casa, me ne tenevo lontano il più a lungo possibile, accaparrandomi turni e doppi turni pur di non tornare il quel luogo che, più che un caldo rifugio, mi appariva una fredda tomba.

Dopo essere uscito dal lavoro, prendevo sempre la metro e poi facevo una lunga camminata. Durante una di esse, fui attirato da una scritta vermiglia, al neon, che recitava “Uno Studio in Rosso” e sovrastava la porta scura di un locale. Allora decisi di entrarvi per riscaldarmi e bere qualcosa.

Era un posto gradevole: un piano bar illuminato da luci soft ed arredato in un ricco stile vittoriano, forse un po’ troppo opulento, ma nel complesso rilassante. Era molto tardi e pochi avventori popolavano la stanza invasa da una profusione di comode poltroncine e tavolini tondi; io mi accomodai ad uno piuttosto defilato, sulla sinistra. Tuttavia la mia attenzione non fu attratta tanto dall’aspetto del locale, quanto da un uomo – un violinista – che suonava sul piccolo palco.

Era molto alto, raggiungeva quasi il metro e novanta, eppure magrissimo. Era vestito con sobri abiti scuri: un pantalone dal taglio classico ed un maglione a dolcevita. La sua pelle era molto chiara, quasi eburnea, ma non di quel pallore malato di chi non vede abbastanza spesso la luce del sole, piuttosto era una carnagione per natura nivea, che mi trasmise immediatamente l’idea di qualcosa di puro – incorruttibile. Aveva un volto dai tratti decisi: mento prominente, labbra sottili, naso aquilino, zigomi alti e fronte spaziosa. I capelli scuri ed arruffati davano l’idea di un uomo che non si curasse eccessivamente dell’aspetto esteriore, tuttavia ciò che mi colpì di più furono i suoi occhi; teneva le palpebre abbassate, concentrato nell’esecuzione, e le ciglia lunghe e nerissime gli accarezzavano le guance come una merlatura di pizzo nero, ma quando le aprì due occhi d’acciaio scandagliarono l’intera stanza ed infine si posarono su di me, che non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua figura.

Ah, ma la musica, la musica fu ciò che mi conquistò e mi costrinse a tornare in quel piano bar tutte le sere seguenti. Le note penetranti e malinconiche del violino che s’involavano nell’aria, tingendo quel luogo di un’atmosfera vagamente bohemien, mi raggiunsero e trafissero come nient’altro era stato capace di fare negli ultimi mesi.

 Quella sonata filtrò sotto la spessa corazza di apatia che mi copriva e mi toccò il cuore. In un primo momento quasi mi mancò il respiro, poi una benedetta quiete avvolse la mia mente ed i miei sensi. Per la prima volta da quelli che mi parvero secoli, mi sentii in pace, compreso, accettato, perfino desiderato. Non sono in grado di spiegarlo razionalmente, so solo che avevo un intenso bisogno di quella musica e grazie ad essa divenni un cliente abituale di Uno Studio in Rosso.

Tutte le sere lui era lì e tutte le sere, dopo la fine del mio turno, io tornavo esclusivamente per ascoltarlo. Mi accomodavo al solito tavolino, ordinavo un bicchiere di brandy o un caffè, accendevo una sigaretta – la prima ed unica della giornata – chiudevo gli occhi e lasciavo che la melodia  s’impadronisse di me. Restavo sino a che non terminava la sua esecuzione – a volte poteva essere un’ora, a volte meno, altre di più – posticipando così il momento di rientrare a casa ed infilarmi nel letto freddo e vuoto che mi attendeva. Ogni tanto mi portavo qualcosa da leggere, ma il più delle volte stavo semplicemente ad ascoltarlo, crogiolandomi in quel senso di pace.

Poi lui sparì. Una sera il violinista non era presente ed io immaginai che fosse in ritardo, ma non arrivò mai e non comparve nemmeno i giorni seguenti. Continuai a tornare in quel locale, nella speranza di rivederlo, cercando di scacciare quell’irrazionale senso di abbandono. Comprai anche dei CD di musica classica, ma una banale registrazione non aveva la magia della sua mano. Infine, vinsi la mia naturale discrezione e chiesi al barista cosa ne fosse stato dell’artista.

«Il violinista? Oh, non credo tornerà, mi dispiace. Era un suo amico?» mi domandò questi ed io negai distrattamente, troppo occupato a metabolizzare la notizia. Lo immaginavo, certo, ma sentirlo confermare m’incupì più di quanto vorrei ammettere.

Scambiai ancora qualche chiacchiera con quell’uomo, che scoprii essere il padrone del locale, e poi saldai il conto e rincasai.

La sera seguente, benché sapessi che fosse del tutto inutile, i miei piedi sembrarono condurmi lì di loro iniziativa, forse a causa dell’abitudine, e mi ritrovai nuovamente nel piano bar. Mi dissi che era comunque un posto gradevole e stare lì era un modo come un altro per posticipare il momento di fare ritorno alla mia dimora.

Ma c’era una sorpresa ad attendermi. Infatti mi ero accomodato al mio tavolino da pochi minuti e stavo cercando in tasca il pacchetto di sigarette, in attesa che il barista venisse a prendere l’ordinazione, quando qualcuno si fermò al mio fianco.

«Prego» una voce calda attirò la mia attenzione ed una mano bianchissima, dalle dita affusolate, mi offrì un pacchetto di Marlboro Rosse aperto, invitandomi a prenderne una.

Rimasi senza fiato: era lui, il violinista.

Accettai la gentile offerta e subito dopo egli prese dalla tasca del cappotto uno zippo, che fece scattare per accendermi la sigaretta. «Questo posto è libero?» mi domandò poi ed io annuii, scostando la sedia per invitarlo ad accomodarsi.

«E’ un piacere starle finalmente seduto accanto, dottor Watson» aggiunse poi, accendendosi a sua volta una Marlboro. Notai che, come al solito, era vestito in modo sobrio ed elegante e curiosamente pensai che non sapesse nemmeno cosa fossero dei jeans.

«Lei come fa a sapere chi sono?» chiesi stupito.

«E’ il mio lavoro» spiegò, prendendo dal portafoglio un biglietto da visita e facendolo strisciare sul tavolo, sino a me.

Era un semplice cartoncino bianco, che recava una laconica scritta “Sherlock Holmes - investigatore privato” seguita da un numero di cellulare e da un indirizzo di posta elettronica.

«Dunque lei non si guadagna da vivere come violinista» constatai l’ovvio.

«No, quello è solo un hobby, nonché un’ottima copertura per il caso che ho appena risolto. Non credo tornerò ad esibirmi in pubblico» confermò.

«E’ un vero peccato» mi lasciai sfuggire «Mi ero affezionato alla sua musica»

«L’avevo notato» un accenno di sorriso lampeggiò su quelle labbra sottili.

I suoi occhi grigi erano straordinari, sembravano studiarmi attentamente e scavarmi dentro, non avevo mai conosciuto nessuno con uno sguardo tanto penetrante,  nemmeno in guerra. Gli occhi di una belva, ecco cosa sembravano, una belva addomesticata ed incatenata dalla ragione, ma pur sempre una belva.

«E posso sapere per quale motivo sta indagando su di me, signor Holmes?» domandai perplesso.

«Oh, ma non sto indagando su di lei, dottore» parve divertito dall’idea, ma s’interruppe poiché  il barman si avvicinò con il taccuino in mano «Buonasera Harold, due bicchieri di brandy – è d’accordo, dottor Watson?» io annuii, stupito dal fatto che conoscesse tanto bene i miei gusti e, non appena il padrone del locale si allontanò di nuovo, l’investigatore riprese il discorso «Le assicuro che non ho motivi per indagare su un uomo onesto come lei. Non è difficile capire che lei è un medico militare congedato con onore, lo rivelano chiaramente il suo portamento e le sue mani ben curate, oltre che la sua abbronzatura ed una certa rigidità della spalla sinistra, che denuncia una ferita non troppo vecchia ma ormai guarita. Inoltre è un tipo abitudinario ed  il brandy è il suo liquore preferito» spiegò, interrompendosi nuovamente quando arrivò la nostra ordinazione «Sono qui perché Harold mi ha riferito che lei cerca un coinquilino e, sempre lui, mi ha rivelato il suo nome» concluse.

Rimasi notevolmente stupito e non solo dal suo esame, infatti non ricordavo di aver parlato con il barman del fatto che volessi cambiare casa, ma naturalmente la sera prima non avevo badato troppo a quello che raccontavo, la mia mente era concentrata su ben altro... sull’uomo che avevo di fronte, per la precisione.

Proprio questi mi riscosse dai miei pensieri: «Come mai cerca un coinquilino, se posso chiederglielo? Ho notato che non porta più la fede, le è rimasto il segno dell’abbronzatura. Sua moglie l’ha buttato fuori di casa?»

Trasalii e mi schiarii la voce prima di rispondere: «Mia moglie è morta di cancro».

Vidi un guizzo di qualcosa che poteva essere rammarico, nei suoi occhi ed infatti, poco dopo, replicò: «Perdoni la mia indelicatezza. In effetti mi sembrava strano che un uomo tanto attraente fosse divorziato, ma – lo ammetto con franchezza – ho pensato ad un tradimento, oppure che la sua sposa l’avesse lasciata perché lavora troppo. Le donne tendono a sentirsi sole se gli uomini non dedicano loro almeno la metà del loro tempo».

Una persona senza peli sulla lingua, quindi, ma il suo modo di fare non mi dispiaceva. Preferivo di gran lunga quel trattamento agli sguardi commiserevoli di colleghi e conoscenti.

«E’ per questo che voglio cambiare casa. Quella dove abito adesso è troppo grande e troppo piena di ricordi e sogni infranti» spiegai «Ho bisogno di ricominciare da zero».

«Quand’è così, se le interessa, ho visto un grazioso appartamento in Baker Street: soggiorno, cucina, bagno e due camere da letto. L’affitto è ottimo e diviso in due diventa una cifra davvero irrisoria. Potremmo andare a vederlo domani, se ha un po’ di tempo libero e non le dispiace dividere la casa con me» propose.

«Mi pare un’ottima idea» risposi convinto.

«Allora mi permetterà di rivolgerle qualche domanda per conoscerla meglio?» chiese poi.

«Ma certo» acconsentii.

Lui schiacciò il mozzicone di sigaretta nel posacenere e, dopo aver bevuto un sorso di brandy, ne prese un’altra dal pacchetto, offrendomelo nuovamente. Stavolta, però, rifiutai gentilmente.

«Lei non è un gran fumatore, vero? Non ha le dita ingiallite dalla nicotina» affermò pacato.

«Sì, prima fumavo di più, ma ora mi limito ad una al giorno, e fuori dall’orario di lavoro. Non mi piace che i pazienti mi sentano addosso la puzza di sigaretta» confermai e lui mi dedicò un sorriso enigmatico, come se si aspettasse una risposta simile.

«Ha qualche vizio, dottore, o qualcosa che potrebbe risultare sgradevole nella nostra convivenza? Tanto vale saperlo sin da ora, non trova?» mi chiese allora.

«Ho una brutta passione per le scommesse, ma cerco di tenerla a freno il più possibile. Devo mantenermi costantemente reperibile, perché la mia giornata di lavoro non si conclude con la fine di un turno, ragion per cui il telefono a volte squilla in ore improbabili. Ho il sonno molto leggero a causa della guerra e di recente soffro d’insonnia. Infine ho un cucciolo di bulldog» elencai concisamente.

«Oh bene, i miei difetti sono molto più numerosi» di nuovo quell’accenno di sorriso ed un lampo d’ironia negli occhi d’acciaio «Sono disordinato, ho orari molto sregolati, fumo parecchio e ho la bizzarra abitudine di suonare il violino quando rifletto, anche ad ore poco consone. A volte m’incupisco d’improvviso e posso rimanere di quell’umore per giorni, ma lei non ci faccia caso, basta lasciarmi a me stesso e mi passa. Inoltre, per adesso non ho un ufficio, quindi potrei dover accogliere a casa dei potenziali clienti».

«Questo non è un problema, per la maggior parte del giorno io comunque sarei fuori. E lei ed il suo violino non mi disturbereste di certo». Avevo voglia di sentirlo suonare, ne avevo un bisogno quasi viscerale, come se la sua musica fosse una droga a cui mi ero assuefatto.

Lui sembrò leggerlo sul mio viso, perché replicò: «Sarò lieto di esibirmi  per lei in qualunque momento, dottor Watson».

Fu così che conobbi il mio amico Sherlock Holmes.

 

FINE.

 

Angolino dell’Auto-Pimping: Se può interessarvi, ho pubblicato un piccolo crossover Doctor Who/Sherlock Holmes: “L’Enigma della Cabina Blu”. Lo trovate su EFP, su Fire&Blade e sul mio LJ.

 

 

   
 
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