L’aria sapeva di croste di formaggio affumicate e di pomodori marci. Era viziata, spessa quasi che ne si potesse toccare con mano la consistenza: sarebbe stata molle al tatto, se vi si fosse affondato un coltello, sarebbe stato come affettare del burro.
Gli
toglieva il respiro, schiacciandolo, una morsa che gli opprimeva i
polmoni.
Lovino
si svegliò di soprassalto, milioni di gocce di sudore sulla
fronte come piccole
perle scintillanti. Si passò una mano nervosa tra i capelli
sudaticci,
tastandosi il volto, il naso, gli occhi, il mento, come per accertarsi
che
fosse ancora integro. Poggiò una mano sul cuore, dove la
camicia era
sbottonata. Batteva a mille.
Si
trascinò dal pagliericcio su cui aveva dormito fino al
tavolaccio di legno su
cui si abbandonò, braccia conserte, come gli avevano
insegnato a scuola, e
testa tra di esse. Sul tavolo vi erano gettati alla rinfusa i resti di
una
misera cena: croste di formaggio bruciacchiate e fetidi brandelli di
pomodori.
Si
recò,
gli occhi assonnati, nella stalla dietro la casupola nella quale quella
sera
era stato costretto a passare la notte. Vi sonnecchiavano delle capre,
strette
in cerchio, tra cui una con il ventre vistosamente gonfio: avrebbe
partorito
tra breve. Lentamente, i gesti resi goffi dal sonno, prese una lunga
verga di
legno che stava appoggiata al muro diroccato e svegliò gli
animali,
percuotendoli con il bastone. Con grida d’incitamento,
menando colpi talvolta
all’aria e talvolta alle capre che si attardavano lungo il
cammino, condusse
gli animali al pascolo più vicino, situato sulla
sommità di una scoscesa
collina.
Come suo
padre prima di lui, Lovino, a soli quattordici anni, era diventato un picuraru. Un pastorello. Ma a differenza
di suo padre, lui non avrebbe lasciato una moglie e due figli nello
sconforto
precipitando in una scarpata. Se lo
ricordava bene, suo padre. Un omone alto e robusto con due folti baffi
scuri
sempre bagnati di birra annacquata, occhi vispi e mani ben pasciute che
sapevano maneggiare con abilità zappa e nerbo.
Comunque,
quello del pecoraio era un lavoro utile. Alla gente del paese e a
Lovino.
“Qualcuno deve pur farlo” si diceva spesso. La
famiglia aveva bisogno di soldi,
e poco importava che il lavoro trovato fosse considerato di scarso
stampo
sociale. Mandriano, bracciante, garzone… quello che contava
era la paga, per
aiutare sua madre, che lentamente si stava riprendendo dalla disgrazia
capitatale, anche grazie all’aiuto di Feliciano, che le era
sempre stato
accanto, ma che purtroppo ultimamente aveva dovuto lasciare che si
crogiolasse
da sola nel suo dolore, poiché assunto come apprendista dal
panettiere.
Spazzava il pavimento e, se capitava, accoglieva i clienti o gli veniva
riservato l’onore di tenere d’occhio le pagnotte
nel forno. Un vecchio
artigiano che lo aveva preso in simpatia gli aveva anche insegnato ad
intrecciare covoni di paglia e vimini per ricavarne cestini e ventagli.
Intrecciava
cesti e ventagli dalle sei alle sette, senza sosta. Il vecchio
bottegaio non
gli aveva mai elargito una lira.
Arrivato
al pascolo senza affaticarsi e versare una stilla di sudore, tanto era
avvezzo
a quel percorso e a quella vita, si sedette all’ombra di un
albero ad osservare
il cielo senza nuvole. All’orizzonte il sole non era ancora
sorto, ma Lovino
sapeva che presto si sarebbe levato, illuminando con la sua luce fioca
i prati,
poi i ruderi di campagna, poi, infine, le prime case del suo amato
paesino.
Mise le mani dietro la nuca, aspettando l’albeggiare,
controllando di tanto le
capre che placide ruminavano poco lontano. Inspirò
l’aria del mattino. Sapeva
d’erba, di fragile grano che si piegava alla brezza leggera
del vento. Cadde in
un sonno profondo, cullato dalla dolce fruscio delle fronde degli
alberi,
attraverso le quali cominciarono a far capolino i primi raggi di sole.
***
<<
Lovino! >>
Il
malcapitato aprì gli occhi. Confuso come un pulcino appena
nato che rivendica
come propria madre la prima cosa che i suoi deboli occhi vedono, Lovino cercò di
mettere a fuoco colui che lo
aveva appena svegliato.
Una
folta zazzera di capelli scuri, due occhi neri ed un sorriso a
trentadue denti.
Fronte alta, guance rosse sporche di terra. Torso nudo, mani ruvide e
callose
che gli serravano i polsi. Un fazzoletto rosso legato stretto
all’avambraccio, gomiti
sbucciati. I calzoni corti e sdruciti che tutti i ragazzini erano
obbligati a
portare.
<<
Antonio… >> mormorò scocciato
<< che ore sono? >>
<<
Non lo so >> disse l’amico chino su di lui
<< è tardi. Marinella ha
il calessino, torniamo a casa >>
<<
E le capre? >> chiese preoccupato Lovino.
<<
Ci ha pensato Gianni, a loro >>
<< Chi è? Non lo
conosco >>
Antonio
sbuffò. Il suo amico era sempre parecchio diffidente
<<
Un amico mio. Lavora nel campo di Zu’
Turiddo, come me >>
Lovino
si tirò su a sedere, gettando un’occhiata
all’amico che intanto si incamminava
per raggiungere Marinella, la quale attendeva poco lontano a dorso del
vecchio
ronzino che aveva il carretto carico di fieno a suo seguito. Antonio
aveva da
poco cominciato a lavorare come bracciante per un ricco proprietario
terriero
del posto. Il sole gli aveva scurito ancor di più la pelle
ed il lavoro nel
campi gli aveva sviluppato i muscoli delle braccia e del torace. Giorni
a
seminare vasti campi di cereali, a trascinare l’aratro, a
tirar su e poi far
affondare nella nuda terra la zappa lo stavano lentamente forgiando nel
corpo e
nel carattere, ammansendone la fin troppo scherzosa indole, mutando il
suo
aspetto da bambino in quello di un uomo adulto. Lui invece aveva ancora
il
fisico acerbo di un marmocchio, i lineamenti delicati di un fanciullo,
il naso
piccolo e a punta, gli occhi grandi, da cerbiatto, come Feliciano.
Né del tutto
bambino, né del tutto uomo.
Raggiunse l’amico in quattro salti ed assieme saltarono sul calessino, sistemandosi tra le balle di fieno.
*Turiddo è il
"nomignolo" di Salvatore