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Autore: yesterday    04/05/2010    21 recensioni
Non è mai una scelta vantaggiosa condividere una stanza di quattro metri per quattro con il tuo ex ragazzo. Soprattutto se l'ex ragazzo in questione è Akito Hayama, e siete più o meno in pessimi rapporti.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Fuka Matsui/Funny, Sana Kurata/Rossana Smith, Tsuyoshi Sasaki/Terence | Coppie: Sana/Akito
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.41 : Chain: metal rings connected together in a line. PART ONE

 

 

 

 

 

« Sono state quelle - esattamente - le parole? » chiuse di scatto con la mano sinistra un’anta aperta della mia parte di armadio - perché no, non bastava dover dividere l’ambiente, era necessario condividere anche l’armadio e, come se non bastasse, il bagno. Ma almeno per quello avevamo previsto dei turni piuttosto ferrati, in effetti.
Mi voltai lentamente verso di lui. « Per la milionesima volta.. Sì, Tsuyoshi. »
Parliamoci chiaro, ero irritata. Ed era una novità - no che non era una novità, ma la fonte del mio abituale malumore aveva varcato la soglia di casa per andare a correre e fatto sparire pantaloni di tuta, maglietta, capelli biondi e spettinati ed occhi di miele dalla mia vista - perché Tsuyoshi, di norma, non mi irritava.
Tsuyoshi era un ragazzo equilibrato. Serio, con la testa sulle spalle, forse un po’ impacciato ma con un’idea di futuro già plasmata nel suo cervello. Idea che senza dubbio includeva Aya, che aveva tentato invano di non farlo entrare in camera mia con diversi “calmo” risuonati a vuoto nell’aria, un matrimonio, una toga d’avvocato e un numero non ancora definito di bebè al seguito.
Non avrei dovuto prendermela con Tsuyoshi, lui era un ragazzo dolce, innamorato, ragionevole ed - ancora - equilibrato.
« Ne sei sicura? »
Ma io continuavo ad essere infastidita. Anzi, mi irritavo sempre di più.
« Ho detto di sì circa milleduecentoventiquattro volte -Argh, ma come mi sono lasciata sfuggire - ..milleduecentoventicinque » sospirai piccata. Sarcastica e piccata.
E dire che il mio sarcasmo, quello pungente, lo riservavo alla - come l’avevo chiamato? - fonte del mio abituale malumore. Che aveva varcato la soglia insieme ai pantaloni della tuta, i capelli biondi spettinati eccetera.
E su di lui riversavo anche la mia irritazione. Su di lui, non su Tsuyoshi.
Il dolce, innamorato, ragionevole ed equilibrato Tsuyoshi.
« Io non ti credo »
Riuscii quasi a sentire gli occhi schizzarmi fuori dalle orbite, ed ero tentata di poggiarmi una mano sul viso per provare l’ebbrezza di sentire i bulbi oculari vuoti - idea che mi aveva sempre affascinata; forse mi sarei dovuta iscrivere a Medicina, a ben pensarci - ma non mi parve proprio il caso; mi limitai ad una breve richiesta di spiegazioni.
« Perché » spiegò « sembrava furioso. Ed Hayama ha i suoi motivi per essere furioso »
Di tutta la questione potevamo ricavare una regola generale piuttosto logica: all’interno della stessa specie - se nella suddetta specie vige la parità dei sessi - le femmine sviluppano un senso di protezione verso le loro simili. Qualcosa che nel gergo comune si può tradurre in svariati modi: tenerezza, affetto.
Ma, e c’è un ma come in ogni caso nella vita, anche i maschi.
Il che è tutto dire, considerata l’idea dell’uomo forte ed autosufficiente.
Forse è un meccanismo di autodifesa del cromosoma Y. Forse un tentativo di conservazione del cromosoma stesso. Forse un richiamo - Cromosoma Y Hayama chiama Cromosoma Y Tsuyoshi, mayday, mayday, intervenire prego - sconosciuto alle povere detentrici di quel paio di cromosomi X che vengono nominati così poche volte rispetto a quello-che-determina-il-sesso-del-nascituro.
E nella fattispecie , ero irritata. Per colpa di Tsuyoshi - andiamo! Anche per colpa di Hayama (dopotutto, lui era la causa di tutto, persino della mia notte popolata di ricordi) - che non era affatto la persona dolce, sensibile, premurosa, comprensiva, innamorata, ragionevole e dannatamente equilibrata.
Perché nella specie umana anche gli uomini si difendono - ed ecco il motivo per cui aveva perso in quell’esatto istante tutto il malloppo di complimenti che ero solita donargli - perché Tsuyoshi difendeva Hayama.
Mi appoggiai stancamente all’altra anta dell’armadio, che ormai mi ero rassegnata a chiudere.
Inspirai.
Era Tsuyoshi, non meritava di essere trattato male.
Convinciti, Sana.
« Tsuyoshi, davvero. Non puoi cercare altri indizi perché davvero, davvero non ce ne sono »
« Quindi tu vorresti dirmi che Akito, dopo che ti sei vestita e vi siete scambiati un “buon divertimento” zeppo di sarcasmo reciproco, è uscito. Stanotte non l’hai sentito rientrare perché stavi già dormendo, e stamane quando si è alzato per la maratona ti dovevi ancora svegliare. Per ovvi motivi non vi siete rivolti la parola, e lui era furioso così, tanto per provare qualcosa di nuovo, a caso »
Ero seriamente tentata di rifilargli un bel “sono innocente, Vostro Onore!”, ma mi obbligai a restare dove mi trovavo.
Non volevo comportarmi da maleducata con lui. Non se lo meritava.
Tsuyoshi era una persona equilibrata sempre.
A parte in tre casi. Se veniva infranta - volutamente o meno - una delle tre irrinunciabili regole, beh, i problemi che ne conseguivano erano piuttosto evidenti.
“Non svegliar can che dorme”, dicono. Non che Tsu dormisse, insomma non molto più del resto della popolazione maschile mondiale, ma l’infrazione di una di quelle regole lo faceva esattamente svegliare.
Primo. Non offendere Aya. In nessun modo, in nessun luogo e per nessun motivo. Pena un qualsiasi componente della mobilia scagliato contro - ed era il genere di fardello che si trascinava dietro dalle elementari, dal momento stesso in cui aveva confessato di avere una cotta per la nostra piccola e timida compagna di classe. Ma allora la sua corporatura di bambino gli permetteva di alzare un banco, al massimo, mentre ora - vuoi rabbia o vuoi maggior prestanza fisica - forse sarebbe addirittura arrivato a sollevare il mio - nostro - armadio.
Perché Aya era il suo tutto e mai nessuno avrebbe potuto ferirla.
« Se n‘è accorta anche Aya, che era furente. »
Ecco.
Il secondo caso riguardava la famiglia. E qui si riconosceva la grandezza d’animo del mio amico Tsuyoshi.
« Se ne sarebbe accorta persino mia sorella. Insomma, il malumore era lampante. »
La terza cosa che nessuno doveva permettersi di sfiorare, la medesima cosa che gli faceva perdere così tanto le staffe, che lo faceva parlare a ruota libera senza inciampare in imbarazzi e parole strascicate, la stessa fottutissima cosa che gli sortiva gli stessi effetti dei miei beneamati viaggi in tram - sinonimi sempre nuovi e paroloni difficili, o forse chissà lui aveva realmente un vocabolario mentale piuttosto esteso - era la sua amicizia con Akito.
E, quindi, il mayday lanciato da un cromosoma Y all’altro.
« Conosco Hayama come le mie tasche. Devi aver detto - o fatto - qualcosa di sbagliato, Sana »
Che, per inciso, era ciò che in quei quarantasette secondi e mezzo mi stava irritando a morte.
Provai a spiegargli anche la nostra precedente “conversazione”, e dovette ammettere che in effetti, dal mio racconto, non risultava nulla di così particolarmente noioso, cattivo o volgare da urtare i nervi del povero Hayama.
Che già di loro erano, tra le altre cose, piuttosto instabili.
« A meno che tu non abbia omesso qualche particolare »
Bene.
La fiducia sta alla base di tutto.


***

Posizionai i bicchieri sulla tavola ormai preparata.
Tsuyoshi, seduto ad un paio di metri da me, spostava lo sguardo dall’orologio a muro piazzato al centro della parete all’ingresso ogni dodici secondi, personalmente contati. Maniacale, no?
Aya, invece, si dava da fare ai fornelli. Ogni tanto si voltava verso il suo ragazzo e scuoteva la testa.
Osservai l’orologio che Tsu rischiava di consumare a forza di occhiate: segnava le diciannove e cinquantotto.
Akito aveva due minuti per arrivare in tempo alla cena del’appartamento numero undici.
E se non fosse arrivato in fretta, probabilmente l’altro uomo di casa sarebbe andato a prenderlo, tanto determinato era il suo sguardo.
Cinquantanove.
Alzai gli occhi al soffitto.
Per quanto non potessi saperlo, dato che stavo dormendo sia quando era rincasato che quando era uscito, non avevo dubbi sul fatto che Hayama non fosse di buonumore.
Non perché l’avesse ipotizzato Tsuyoshi, quanto per il fatto che, quel giorno, la sua maratona si era protratta per - mi dedicai ad un piccolo calcolo matematico - ..quasi dieci ore.
Mi strinsi nelle spalle; improbabile che avesse passato tutte quel tempo a mettere un piede davanti all’altro. Sicuramente aveva pranzato con del sushi, ci avrei messo la mano sul fuoco. E magari il pomeriggio lo aveva trascorso con qualche amica. Magari con Keiko stessa.
La porta si spalancò.
« ‘no tornato » biascicò Akito, già nell’atto di sgusciare in camera nostra. Ma non “nostra” in quel senso.
Osservai Tsuyoshi, perfettamente calmo e composto sulla sua sedia.
« Fermo dove sei, Akito » lo freddò.
Hayama rimase interdetto, stupito leggermente dal tono lapidario che aveva usato.
Aya addentò uno spaghetto - ricetta all’italiana, per la nostra cena di quella domenica - e poi mi si avvicinò con uno strano sorrisino dipinto in volto; aprii la bocca per chiederle spiegazioni, ma lei mi precedette:
« Sana, tu lo sapevi che gli avvocati divorzisti provano prima a fare da pacieri? »
Inarcai un sopracciglio e mi accostai al suo orecchio.
« Cosa? »
Si strinse nelle spalle, prima di voltarsi nuovamente verso la pentola sul fuoco.
« Il mio Tsu è già un fantastico avvocato divorzista » la sentii sussurrare.
Delirava?
Forse avrei dovuto fingere un mal di pancia tremendo e saltare la cena, se la pasta produceva quegli effetti.


***


Mi morsi il labbro pur di non ridere: la situazione era patetica.
La tavola si era trasformata in una sorta di silenzioso campo di battaglia; alla mia sinistra Tsuyoshi era immobile nella sua richiesta di spiegazioni, di fronte a me Hayama era altrettanto immobile nella convinzione di non fornirne alcuna.
Aya, al suo fianco, mangiava silenziosamente la pasta sospetta.
Mi costrinsi ad abbassare lo sguardo, arrotolando gli spaghetti attorno alla forchetta - cosa che peraltro non mi riusciva molto bene: perché usare quegli arnesi, quando esistevano le comodissime bacchette?
Ma forse era un discorso di parte, gli italiani, di fronte al Colosseo o al Canal Grande, sicuramente maledivano i nostri insoliti - per loro - utensili da cucina.
Addentai un boccone complimentandomi con me stessa per il pensiero intercontinentale, mentre in quel momento Tsu richiamava per la quarta volta l’attenzione del mio biondo ex ragazzo.
« Akito, mi vuoi rispondere? »
Di risposta ottenne un cenno millimetrico in sua direzione.
Lo sentii innervosirsi al mio fianco.
« Aya, complimenti per la pasta. E’ ottima. » cercai di stemperare la tensione, senza riuscirci.
Calò nuovamente il silenzio.
Akito non era un idiota, nemmeno da arrabbiato. Stava accuratamente evitando di rispondere, poiché al terminare la sua frase Tsuyoshi gli avrebbe rifilato la domanda reale.
Apparentemente era un “dove sei stato tutto il giorno?” ma nascondeva un ben più spinoso “dimmi cos’hai”.
Mi allungai per afferrare la bottiglia d’acqua; nello stesso istante Akito imitò il mio stesso gesto.
Sfiorò un secondo il mio indice, prima di ritirare la mano e spostare la sua attenzione altrove.
Espirai. Da quando era rientrato altro non aveva fatto che evitarmi. Evitava persino di guardarmi.
« Akito? » provò Tsuyoshi per la quinta volta.
« Tsu, non sei mio padre. Non ti devo spiegazioni » si sentì rispondere, telegrafico.
« Va bene » annuì, sistemandosi gli occhiali sul naso « vogliamo fare i bambini? E allora comportiamoci di conseguenza. »
Seguii con lo sguardo ogni scrupoloso gesto che seguì: Tsuyoshi svitò il tappo della bottiglia d’acqua al centro del tavolo e lo mostrò a tutti noi, tenendolo tra indice e medio.
« Facciamo un gioco » annunciò « ..si chiama “reazione a catena”. »
Sollevai un sopracciglio.
« Aya, cominciamo noi, così i due bambini imparano le regole » la sua ragazza soffocò un risolino.
Appoggiai la forchetta sul bordo del piatto.
Il sospetto non era più tanto sospetto.
Osservai la pasta: di sicuro lì dentro c’era qualcosa che non andava.
Probabilmente un pensiero simile aveva fatto breccia anche nel cervello di Hayama: mi lanciò un veloce sguardo allarmato prima di continuare ad ignorarmi.
E oltretutto, perché dovevo rientrare anche io nella categoria “bambini”?
« E’ molto semplice: chi ha il tappo in mano deve dire una parola, poi lanciarlo ad un’altra persona - e quella persona deve rispondere con la prima parola che la precedente suscita. Poi lanciare di nuovo il tappo, e così via »
Hayama scosse la testa: « Non ho la benché mini- »
« Akito, non ti ho chiesto se ti va di giocare. Tu. Giocherai. » e il tono non ammetteva repliche.
« Aya.. La parola è: Akito. »
Osservai il breve volo del tappo blu, che atterrò tra le mani della mia amica.
Lei scoccò un’occhiata piuttosto eloquente. « ..malumore. »
Lanciò il disco in mia direzione.
L’afferrai maldestramente, mentre con la destra mi grattavo la testa, sovrappensiero.
Malumore, eh?
La prima cosa che potevo associarci altro non era che la mancanza di..
« rispetto » proferii.
Gli occhi di Hayama, fissi sull’oggetto che tenevo sulla sinistra, s’illuminarono.
Mio malgrado lo lanciai a lui; era l’unico a non aver ancora..giocato.
Si schiarì la gola. « Vestito. » annuì.
Il mio sguardo crollò sulla pasta, che ora m’insospettiva all’inverosimile.
Spaghetti allucinogeni, non c’erano alternative. Che diamine significava vestito?
Osservai il resto degli abitanti dell’appartamento e notai che perlomeno anche loro erano stupiti.
Arrivò il turno di Aya. « Ehm.. Shopping. »
Tsuyoshi non sembrava particolarmente felice dell’improvviso cambio di rotta preso dal gioco. Attese che Aya gli lanciasse il tappo.
« Maratona » disse secco.
Annuii; all’epoca i pomeriggi dedicati allo shopping erano stati ribattezzati “maratona” da un’insofferente Hayama ed un paziente Sasaki.
Toccò ad Akito.
Aprì la bocca, poi la richiuse.
Nascose un ghigno. « Keiko. »
Annaspai, girando il viso verso la finestra.
Ottimo. Se voleva provocarmi ci stava riuscendo, e tra le tante cose aveva dato piena ragione alle mie supposizioni: aveva passato il pomeriggio con quella.
Ebbe anche la faccia tosta di dare a me la parola.
Proprio senza vergogna.
Inspirai. « Bassezza »
Reclamò il tappo con un moto della mano destra. Restituii.
« Gelosia? » ammiccò, formulandola come fosse una domanda.
Non aspettai nemmeno di ricevere l’oggetto.
« Rispetto » ribadii, alzando di due ottave il tono di voce.
Si strinse nelle spalle, mentre accanto a lui Aya sembrava piuttosto confusa.
« ..Vestito. » ripeté, prima di spostare indietro la sedia ed andarsene.



   
 
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