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Autore: cabol    07/05/2010    1 recensioni
Dietro una porta ermeticamente chiusa può celarsi un pericolo misterioso, un favoloso tesoro, un terribile segreto. Aprirla può voler dire trovare tutto questo o chissà cos'altro. Ma certamente ci troveremo sempre l'avventura.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo 2: la porta aperta


La notte volgeva ormai al termine e presto una radiosa alba autunnale avrebbe scacciato la nebbiolina notturna di Elosbrand. Come ogni mattina, Algernon Leonard Fitzhoot, maggiordomo da tre generazioni e orgoglioso padre di un giovane promettente maggiordomo, già a servizio in casa di un giovane nobile di un’importante casata di Aglargond[3], cominciava il giro delle stanze per spolverare le opere d’arte del suo padrone. Si sentiva sempre assai gratificato per questo. I suoi colleghi, in genere, dovevano occuparsi di chincaglierie di gusto discutibile. Lavorare per James Brook significava stare tutto il giorno in mezzo all’arte, quadri, gioielli, statue, arazzi. Autentiche meraviglie. Spolverare una scultura valdoriana[4] o un quadro di scuola hyrmensiana[5] o un arazzo ariaken[6] non era lavorare: era un onore e un piacere.
Era un uomo alto, sulla sessantina, dai radi capelli, grigi come i suoi occhi severi. Era stato educato adeguatamente alla sua professione e il suo autocontrollo era pressoché perfetto. Quella mattina, come sempre quando si occupava di spolverare le opere d’arte, vestiva semplicemente con una tunica e un paio di ciabatte ed era armato di un delicato piumino. Appena terminato di spolverare, avrebbe abbandonato quegli abiti dimessi e avrebbe indossato la sua impeccabile livrea da maggiordomo.
Finito di pulire il museo, giunse alla stanza “del tesoro”, quasi impaziente di ammirare i pezzi più pregiati della collezione del suo padrone. Inserì la chiave nella porta e mormorò la formula di apertura, meccanicamente, come ogni mattina. La porta si aprì dolcemente, permettendo alla fioca luce del corridoio di proiettarsi sul pavimento della stanza buia.
Rimase sorpreso nel notare che, proprio nel triangolo di luce disegnato sul pavimento, spiccava un biglietto. Quella vista lo turbò. Come mai era lì? Chi poteva averlo lasciato? Il padrone era uscito presto, la sera prima, e rientrato tardissimo. Difficilmente poteva essersi affacciato in quella stanza. Però, quando l’aveva chiusa, poco prima di cena, non c’era assolutamente nulla per terra, nemmeno la polvere. La sua mano tremava un poco, nel raccogliere quel piccolo pezzo di carta. Gli bastò sbirciarlo un attimo per sentirsi svenire.

Oh Sergaries beata, proteggimi! Ora chi lo dice al signor Brook?

Il suo perfetto autocontrollo si dissolse improvvisamente lasciando spazio ad una reazione quasi isterica. Si precipitò fuori in preda al panico. Percorse il corridoio, attraversò quasi volando il museo, scese a rotta di collo le scale, spalancò il portone e corse in strada così com’era, col piumino ancora in mano e le ciabatte ai piedi.

«Al ladro! Aiuto!».

Fatti pochi passi in strada, andò letteralmente a sbattere contro un passante. Perse l’equilibrio e sarebbe caduto se colui che aveva quasi travolto non l’avesse sorretto prontamente.

«Calmo, calmo, caro signore. Cosa sta succedendo?».

Algernon Leonard Fitzhoot, maggiordomo da tre generazioni, sollevò lo sguardo sul suo interlocutore e quasi svenne dalla gioia nel riconoscere l’uniforme e l’elmo di un ufficiale della Guardia di Elos, la milizia che manteneva l’ordine nella Repubblica.

«Sono gli dei che vi mandano, capitano! Hanno rubato nella casa del mio padrone! Venite, presto!».

«Vi seguo, signore, state tranquillo però, e raccontatemi cosa sta accadendo, sono il capitano Ernest Tyron».

L’ufficiale parlava con calma, con un dolce accento ardoriano e un tono tranquillizzante. Era di altezza media, di aspetto elegante, con lunghi capelli biondi che fuoriuscivano da sotto l’elmo bronzeo per ricadergli morbidamente sulle spalle. Il volto, severo, era incorniciato da baffi di foggia militare, accuratamente arricciati all’insù. Portava la cotta di maglia di ordinanza e, su quella, la tunica con le insegne della Guardia e il suo grado. Il maggiordomo rallentò solo di poco l’andatura e cercò di spiegare all’ufficiale quello che era accaduto, mentre ripercorreva i corridoi della casa del suo padrone.

«Manca qualcosa?».

«Non so… veramente mi sono precipitato fuori appena ho letto il biglietto. Sapete, quel nome mi ha scombussolato».

Salirono le scale, attraversarono il museo, del quale l’anziano Algernon meccanicamente decantò la ricchezza, e si diressero lungo il corridoio che portava alla stanza detta “del tesoro”, dove il signor Brook conservava i pezzi più pregiati della sua collezione.

«Posso vederlo?».

«Cosa?».

Algernon si era perso completamente nel ruolo di guida, nell’elencare le meraviglie della collezione del suo padrone.

«Ma il biglietto, naturalmente, e magari, appena possibile, desidererei incontrare il vostro padrone. Vediamo cosa si può fare».

Algernon, bruscamente riportato alla realtà della situazione, perse di colpo buona parte della sua loquacità.

«Ma certamente capitano!».

Nel frattempo, avevano raggiunto la porta blindata.

«Avete chiuso voi la porta, uscendo?».

«Eh? Ah sì… credo di sì… veramente non ricordo ma la chiudo sempre… ma poi chi altro potrebbe averla chiusa? Certo che l’ho chiusa io».

Il maggiordomo estrasse la sottile chiave di bronzo dalla sacca che portava appesa alla cintura, la inserì nella serratura, pronunciò una parola in un’antica lingua e aprì la porta. Entrarono nella stanza “del tesoro” immersa nell’oscurità, il capitano con passo sicuro e tranquillo, l’anziano servitore malfermo sulle gambe, come se stesse entrando fra le fauci di un drago. Rimasero un attimo al buio, poi Algernon trovò una lampada su uno scaffale subito accanto alla porta e si diede da fare per accenderla.

«Il biglietto… L’ho lasciato cadere, ma dovrebbe essere qui sul pavimento… ecco, ora lo cerchiamo… chissà dov’è finito».

«Grazie, signor…? Magari cercate anche di capire se manca qualcosa dalla stanza».

Il capitano parlava con grande tranquillità, cercando di calmare il povero maggiordomo terrorizzato con il tono della voce e i modi controllati e sicuri.

«Eh? Oh, scusatemi… sono Algernon Fitzooth, maggiordomo del signor James Brook, il famoso mercante d’arte… Ora guardo cosa manca… OH MISERICORDIA!».

«Cosa succede?».

«Il… il… ru… rubino! L’occhio! Oh Dei misericordiosi!».

Il poveruomo era impallidito mortalmente, evidentemente terrorizzato. Guardava, alla luce della lampada, verso uno scrigno aperto in una nicchia della parete con la stessa espressione con la quale avrebbe guardato un fantasma.
Il capitano seguì il suo sguardo, prese la lampada dalle mani tremanti del maggiordomo, prima che potesse finire al suolo e raggiunse la nicchia. Esaminò lo scrigno con grande attenzione, poi lo tolse dal suo posto ed esaminò con la stessa attenzione la cavità nel muro, infine, lo rimise al suo posto e si volse.

«Mi dispiace, ma effettivamente è vuoto. Era qualcosa di gran valore? Ah! È quello il biglietto?».

Indicò un punto nei pressi della porta, dove ora giungevano i raggi luminosi della lampada a olio. Sul pavimento c’era un piccolo biglietto, di carta evidentemente pregiata, sul quale qualcuno aveva vergato due righe. Lo raccolse, mentre il maggiordomo pareva volesse incenerire quel pezzo di carta con lo sguardo. C’era scritto, con caratteri eleganti:
Spiacente, ma non troppo,
Blackwind.
Il capitano Tyron osservò silenziosamente il biglietto, studiandolo accuratamente, poi girò lo sguardo sul resto della stanza.

«Manca altro, oltre al rubino?».

«Ora controllo, capitano, ma nulla è paragonabile, come valore, all’Occhio della Regina».

L’ufficiale si aggirava prudentemente nella stanza, osservando le pregiate statue che vi erano conservate, le anfore antiche e i preziosi mosaici testimoni di splendori passati. A un tratto si fermò a osservare da vicino qualcuno di quei tesori, con aria incuriosita. Nella scarsa luce della stanza pareva cercare qualcosa che solo lui poteva vedere. Poi si rivolse nuovamente al maggiordomo.

«Dunque, vale veramente tanto quel gioiello?».

Una voce ferma risuonò alle loro spalle.

«Si può dire che sia inestimabile, capitano».

[3] La capitale dell'Impero di Ardor, potente stato a sud della Repubblica
[4] Dell'antico e scomparso impero di Valdor
[5] Dell'Hirmensyar, ricco e decadente regno a sud dell'Impero di Ardor
[6] Dell'Impero di Ariakas



  
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