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Autore: AcchanBaka    10/05/2010    1 recensioni
Non poteva immaginare che fare la conoscenza di quell'apparente bonaccione avrebbe a poco a poco dissolto l'oasi di perfetta solitudine che aveva costruito in anni di gentile isolamento – come lo chiamava lui – aprendogli porte colme di esperienze che, davvero, non avrebbe mai voluto provare.
La storia di un sospettoso pianista e un fotografo ficcanaso.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1. le informazioni riguardo il pianoforte sono un po' farina del mio sacco, un po' raccimolate su wikipedia.com; lo stesso vale per le macchine fotografiche;
2. il parlato si esprime tra i simboli «», il corsivo indica pensieri (trascritti al presente) oppure serve a marcare l'importanza di un dato soggetto, le virgolette “” sono utilizzate per nomi di cose/opere o in generale per sottolineare concetti.
3. dopo avervi annoiato con le note, vi lascio solo con i copyright: i personaggi, i luoghi e il resto sono opera mia, mentre le opere citate (come “Für Elise”) sono ovviamente di proprietà del loro creatore (non ruberei niente a Beethoven-san <3). Grazie per l'attenzione e buona lettura!


 

 

Black and White
O magari in seppia?

 

2. Morbido
Il collo trafitto da una forchetta.

 

 

Aveva sempre pensato che fosse morbido, lo scatto dell'otturatore, nonostante il nome. Sì, perché quella parola, “scatto”, evocava un'immagine veloce, rapida, invisibile eppure consistente, quasi dolorosa nella sua sveltezza. Forse, ciò che gl'ispirava sentire quella parola veniva in parte addolcito dalla parola seguente.
Otturatore.
Quando lo chiedeva ai compagni di corso – che non comprendevano del tutto le sue macchinazioni contorte – arrivava a credere di non sapersi spiegare.
«Non vi viene in mente qualcosa di morbido, se pensate all'otturatore?»
Non era una domanda strana, no? Lui non la vedeva tanto inquietante; invece quegli stupidi dalla mente chiusa dei suoi compagni lo guardavano sogghignando sotto baffi che non avevano – imberbi volti ancora infantili – e lui si sentiva escluso da quel mondo, cui partecipava solo ed unicamente per studiare fin nei minimi dettagli l'unica cosa che lo aveva sempre appassionato: la fotografia.
Era difficile spiegare cosa provasse (visto che non l'aveva mai fatto e i suoi pensieri si erano fossilizzati a tal punto che riesumarli e condividerli con un'altra persona a voce era diventato impossibile) mentre scrutava il mondo alla ricerca di un soggetto decente, sistemava l'obbiettivo, controllava la messa a fuoco, dava un senso alla luce che s'immetteva nell'intricato sistema che concerneva il semplice e delicato equilibrio della macchina fotografica e infine compiva il gesto più banale del mondo.
Cliccava.
Click.
Ed era così inebriante godersi quell'attimo in cui l'obbiettivo si richiudeva, catturando per sempre l'immagine, imprimendola sul rullino, e leccarsi lievemente le labbra mentre il pollice manovrava la piccola leva che faceva scorrere il nastro, lasciando avanzare di una posizione i numeri che segnavano quante possibilità di scatto ancora aveva.
Era come un gioco, un quiz a premi di quelli che vedeva nella piccola tv a colori nella propria stanza: qualcosa dove giochi se non la vita, perlomeno l'orgoglio di aver creato qualcosa di sensazionale, dopo tanta fatica, scatti, soggetti e sfondi differenti.
E lui adorava giocare.
Quando per la prima volta il professore aveva smontato in classe una macchina fotografica per mostrar loro il funzionamento interno, lui s'era emozionato come un bambino. Era stato talmente affascinante entrare in quel mondo che, per la maggior parte della gente, si concludeva in una foto solitamente rettangolare, che ritraeva un fuggevole istante di vita.
Loro non avevano idea di cosa si nascondesse, di quanto lavoro costasse, del significato intrinseco di quel minuscolo oggetto, spesso dimenticato, impolverato, pressato insieme a tanti altri gemelli in un “album di famiglia”, di quelli che si fanno con tanto amore per poi dimenticare negli armadi.
Tanto oggi c'è il digitale, no?
Detestava vagamente il digitale, anche se s'era convertito anche lui alle reflex compatte; ma solo per capirne la logica e la filosofia. Ma continuava a preferire senza ombra di dubbio il caro, vecchio, dolce, fragile rullino, così sensibile alla luce, così soddisfacente nei risultati. Non c'era assolutamente niente di più adorabile del rullino: montarlo, toglierlo nella camera oscura, svilupparlo e guardare più i negativi che non le foto riuscite.
Ah, sì. Decisamente, era in quell'istante che la fotografia trovava il suo compimento, il suo fine.
Nessuna digitale al mondo avrebbe potuto superarlo.

«E così mangi tutto solo, eh?»
Steven roteò vagamente irritato gli occhi, e nel compiere quel movimento non poté non notare Maximilian rientrare nel proprio campo visivo.
Ma insomma, non mi lascerà più in pace?
«Problemi?», rispose, assottigliando lo sguardo nel tentativo di non mangiarselo vivo.
Lo sapeva. Lo sapeva che conoscendo Maximilian Jackson la sua vita non sarebbe stata più quella di prima.
Quel tizio era... troppo, troppo rompiscatole.

Erano circa tre giorni che Max non lo lasciava in pace, fin da quando si era presentato nell'aula di musica quel tardo pomeriggio senza lezioni.
Durante il primo giorno si era seduto accanto a lui sulla panca a mensa, spingendo il vassoio con la colazione accanto al suo.
«Sai che mangi proprio poco, Steve?»
«Steven.»
«Sei gracile per essere così alto, ti spezzerai!»
«Sopravvivo benissimo così.»
«Ti ci vorrebbe un po' di frutta... e anche della carne. Tanta carne! Oggi per menù a pranzo c'è una bistecca. Una bella bistecca. Non ti andrebbe? Tanta carne succulenta, ti aiuterebbe a crescere, sai! Siamo ancora nella fase dello sviluppo!»
«...»
E così via. A colazione si erano divisi, ognuno con le sue lezioni, e a pranzo Steven se l'era ritrovato accanto. E via, di nuovo la stessa tiritera riguardo il cibo, l'alimentazione sana, corretta e soprattutto abbondante; dal punto di vista di Steven fin troppo abbondante.
«Ehi Steve! Posso sedermi qui?»
Non gli aveva nemmeno dato il tempo di rispondere, sistemandosi sulla panca e sfiorandolo diverse volte, con gran disappunto e irritazione da parte sua.
«Ah! Birbante, non hai preso la carne!»
Birbante?
«Sono affari miei.»
Già dal primo giorno di conoscenza Steven si era... come dire, inquietato. Quando parlava con le altre persone, e raramente capitava che ci conversasse per più di dieci secondi, non si scomodava mai, né si lasciava influenzare da tutto ciò che l'interlocutore diceva.
Invece Maximilian era così altamente rompiscatole che proprio non ci riusciva ad essere distaccato.
Il secondo giorno era stato lo stesso. Gli si era appiccicato a colazione, poi a pranzo, e la cena aveva preso l'abitudine di mangiare dei panini in camera, quindi fortunatamente quel momento della giornata era libero. Poi, incluso il giorno in cui si erano – sfortunatamente – conosciuti, aveva soltanto un'altra giornata libera, quindi erano poche le occasioni per incontrarsi, anche perché non avendo sempre gli stessi orari capitava anche che lui fosse libero – a studiare in biblioteca – mentre Max intanto aveva lezione.
Non che la cosa lo dispiacesse così tanto, eh.

Terzo giorno:
«E così, mangi tutto solo, eh?»
«Problemi?»
E ovviamente, l'altro si era seduto senza nemmeno aspettare qualcosa di vagamente simile a un “prego, siediti, nonostante la tua presenza inizi ad irritarmi più delle zanzare d'estate”.
«Come va oggi? Mangi un po' di più?», si era informato l'altro, con il suo solito modo di fare gioviale e seccante.
«Mangio quanto mi pare.», rispose dopo aver ingoiato un boccone di purè.
Se c'era una cosa che adorava, era il purè di patate. Ogni volta che la mensa del college lo proponeva, non riusciva a farne a meno. Proprio come Maximilian evidentemente non riusciva a fare a meno di rompergli costantemente l'anima.
Allontanò distrattamente la forchetta dalle labbra, fissandola con un'intensità di solito non regalata ad un oggetto inanimato. In realtà stava vagliando le possibilità che aveva di piantarla in gola a quell'irritante soggetto che gli stava di fianco.
«Steve, Steve, sei troppo indigesto, la gente finirà per trovarti antipatico.»
Decise che qualunque possibilità avesse, andava la pena di sfruttarla.
Si voltò brandendo la forchetta, forte del suo effetto sorpresa, ma dovette ricredersi: la mano di Max gli aveva afferrato il polso, e l'altro nemmeno lo stava guardando. Anzi, con la mano libera ancora teneva stretto il panino con hamburger che aveva preso al bancone, e lo mangiava, blaterando nel contempo qualcosa – disgustoso, parlava a bocca piena. Ugh.
Steven dovette ricredersi: quel tipo non era normale. Non erano normali riflessi del genere. Tanto che fece il grave errore di rivolgergli una domanda fin troppo personale, una di quelle che forzatamente danno avvio ad una conversazione, o ad un logorroico discorso da una sola delle parti:
«Ma cosa fai, karate?» pronunciata anche con stizza, dopotutto gli aveva rovinato il suo perfettamente congegnato piano di omicidio, eh!
Max lo guardò, poi guardò la propria mano, cui era strettamente collegato il polso del ragazzo. E ridacchiò – Steven iniziava a temere della sua salute mentale, qualora esistesse – lasciandogliela, e tornando ad afferrare lo sfilatino con entrambe le mani.
«Ah!», masticò e ingoiò. «Scusa, non volevo spaventarti. Pratico karate da anni, sono titolare della squadra di rugby del college e ho fatto nuoto da piccolo. Forse i miei riflessi sono abbastanza allenati da sconvolgerti.», rispose, e a Steven diede fastidio il modo in cui si era vantato di tutti gli sport che aveva fatto o che faceva. Ma insomma, non gliel'aveva chiesto! - in teoria sì, ma shhh, non diciamoglielo che si offende.
Si scostò in malo modo, anche se Maximilian gli aveva liberato il polso senza fare storie.
«Sbruffone.», lo apostrofò, irritato.
A quel punto, l'altro gli diede ulteriormente modo di innervosirsi, perché rise. Steven non si diede pena di chiedergli il motivo di tanta ilarità, perché riprese a mangiare il suo purè senza degnarlo di un'altra occhiata.
Ma tanto, signore e signori, noi lo abbiamo già capito: Max Jackson fa tutto da solo. È un bravo bambino, lui.
«Ah, Steve, non sai quanto fascino perdi quando fai tanto l'antipatico», commentò, e una seconda volta Steven si trattenne a fargli cortesemente notare che sai com'è, non sono propriamente affari tuoi. «Insomma, guardati!», continuò, scostandosi leggermente dal vassoio e voltandosi sulla panca per guardarlo e Steven si agitò leggermente. Non gli faceva piacere sentirsi osservato a quel modo, da capo a piedi – specie se i piedi erano addirittura nascosti dal tavolo.
«Sei fisicamente proporzionato, anche se un po' troppo magro, forse. Hai i capelli neri, ma davvero corvini, cosa rara visto che di solito sono tutti castani come me. Gli occhi di un marrone chiaro, che sembra nocciola, e quando ti ho visto nell'aula quattro giorni fa il sole li ha illuminati facendoli diventare quasi ambra. Peccato per gli occhiali.», aggiunse, continuando in quella descrizione che, se Steven non fosse stato notoriamente un pezzo di ghiaccio, l'avrebbe sicuramente fatto arrossire.
Ma insomma, cosa andava a dire quello lì?
«Senza contare i lineamenti, così fini eppure mascolini, soprattutto il naso pronunciato, e le lab--»
«Basta così.», lo interruppe a quel punto. Era stato già abbastanza imbarazzante lasciarsi descrivere in quel modo dagli occhi di quel tizio, però ora basta.
Come se poi l'altro non fosse da meno. Con quei suoi capelli castano chiaro, portati corti sulla nuca e sulle tempie, un tantino più lunghi sulla testa con un ciuffo sbarazzino e senza senso sulla fronte ampia e liscia; con i suoi grandi occhi verdi, scrutatori, sinceri e irritanti, i lineamenti virili e marcati, la corporatura da gigante, con quelle spalle larghe.
Peccato il modo di fare così talmente rompiscatole da far dimenticare all'istante tutta quella – a detta delle ragazze – bellezza.
A quel proposito, mentre compiva quel vergognoso giro di pensieri (prima si vergognava della descrizione compiuta dall'altro e poi ne stilava una nella propria testa, cosa ancor più scandalosa?), lo osservò, mentre Maximilian al suo 'basta' aveva taciuto per poi fissarlo.
«E della tua ragazza, che mi dici?», gli venne istintivo domandare, assottigliando lo sguardo. Insomma, quello lì non aveva la famosa ragazza da coccolare, riempire di attenzioni e rotture di scatole come invece stava facendo con lui da tre giorni? «Non esiste?», lo provocò senza cambiare espressione, mentre mandava giù l'ultimo boccone di purè.
Maximilian si lasciò andare ad un'altra risata, sciogliendosi dopo l'attimo di agghiacciante fermezza dovuta all'uscita di Steven.
«Oh, tu stai ancora pensando a quella ragazza!», se ne uscì e Steven sollevò un sopracciglio.
Come?
«Veramente toccherebbe a te pensarci. Sai com'è.», gli fece notare, guardandolo con eloquente distacco e anche una sorta di pena – insomma, lui che era single doveva star lì a spiegargli come trattare con le ragazze? Ma siamo usciti di senno?
Max ridacchiò ancora, e Steven tornò a ponderare seriamente l'eventualità di infilargli la forchetta per il manico – o per i rebbi, magari – su per il naso. Oh, sì, che sensazione gaudiosa, che vittoria per le sue povere orecchie torturate da quel continuo ridere e chiacchierare di cose, dal suo punto di vista, senza alcun senso logico od interesse.
«No, ci siamo lasciati, in realtà.»
Steven tornò a guardare il piatto con un'incredibile faccia da: ma quanto mi dispiace. Vuoi una tavoletta di cioccolata per non soffrire la solitudine?
«Quindi ora sono libero, se vuoi.»
All'aggiunta, poco ci mancò che il moro scoppiasse in una grassa risata, che voi tutti stavate iniziando a collegare con Maximilian; o magari che si strozzasse con la mela che stava finendo di mangiare – purè di patate e mela per frutta, qualcosa in contrario?
Per fortuna non fece una cosa così poco incline a se stesso e si limitò a... sì, avete indovinato. Ignorarlo, totalmente, dall'istante che gli servì per attutire il colpo di quella strampalata offerta di disponibilità fino ai successivi, durante i quali probabilmente il castano lo aveva guardato con una sorta di aspettativa.
Ma aspettativa di che?
«Ehi, non dirmi che non t'interesso!», aveva aggiunto, e dal tono – senza guardarlo – a Steven parve quasi scandalizzato, sotto shock.
Al che il moro, finito il pranzo si alzò, scavalcando la panca prima con una, poi con l'altra gamba, il vassoio tra le mani.
Lo fissò da lassù, Max che aveva seguito tutto il movimento senza perderlo di vista.
«Di', mi hai preso per un omosessuale
Gli diede le spalle, andandosene.
Dietro di lui – ma Steven non poté vederlo – Maximilian prima lo osservò andarsene senza mutare l'atteggiamento del volto, poi sorrise. Un sorriso diverso da quelli svagati e allegri di poco prima.
Un sorriso un po' più inquietante, forse; quasi maligno, per quanto possa parere strano.
«D'accordo, MacMillian... non volevo arrivare a tanto.» 

A Steven non poteva sembrare vero quanto il paradiso. Era troppo bello per corrispondere alla realtà che effettivamente stava vivendo.
Per tutti i due giorni successivi, che tra l'altro erano venerdì e sabato, Maximilian non si fece vivo: o meglio, lo notava nei corridoi, sentiva la sua voce mentre chiacchierava con altri compagni o incrociava la sua presenza poco prima che sparisse dietro un angolo. Nulla di preoccupante, insomma: era vissuto bene prima di conoscerlo, avrebbe vissuto ancora meglio dopo.
E soprattutto era sabato: il che significava che aveva tutta la mattina libera, tutto il pomeriggio libero, tutta la sera libera – il sabato era sacro, studiava la domenica e tutti gli altri giorni, lui.
Libero di poter stare in stanza a non fare niente, la televisione accesa tanto per fargli compagnia, un buon libro, una tazza di tè, magari una puntatina in aula di musica per poter suonare qualcosa in santa pace... sì, decisamente il sabato era una bellissima giornata.
O almeno, lo pensava finché dopo una succulenta – per lui – colazione si era diretto in camera, pronto a seguire il suo entusiasmante – per lui – programma di vita: stare steso sul letto ad ascoltare un cd con brani di pianoforte misti per tutta la mattinata prima di pranzo e a leggere un libro su Beethoven.
Aveva inserito il cd, premuto play e “Pan's Labyrinth Lullaby” era iniziata. Adorava il modo in cui era così dolce, tenera, effimera come un sogno nelle prime battute, per poi scatenarsi dopo poco più di un minuto e mezzo, salendo di tono, mantenendo una sorta di meravigliosa disperazione.
Mentre le prime note salivano, librandosi nell'aria, lui si era steso sul letto, aprendo il volume dove il segnalibro azzurro gli indicava il punto dove si era fermato la sera prima. Ebbe il tempo di leggere la parola “Ludwig Van” all'inizio della frase che qualcuno ebbe la brillante idea di infrangere il suo personale eden.
Bussando alla porta.
Che incivili.
Chiuse il libro, alzandosi. La musica iniziava a scendere, segno che tra non molto sarebbe cominciata la parte sensazionale della melodia. Andò ad aprire, socchiudendo l'uscio mentre chiedeva chi fosse, con aria che dire scocciata era sminuire di parecchio la noia sul suo viso.
Una mano color miele s'insinuò tra l'uscio e lo stipite, afferrando la porta ad un niente dal suo naso e spingendola in avanti. Ebbe il tempo di sgranare gli occhi, colto di sorpresa, ed evitare una craniata che quasi non notò Maximilian intrufolarsi nella stanza, richiudendo di schianto la porta.
«Tu...!», si lasciò andare Steven, quasi rabbioso – perché dopo due giorni di perfetta armonia doveva andare a rompergli le uova nel paniere proprio nel sabato?
Il sacrosanto sabato?
Vide il castano ridacchiare.
«Io.», fu l'esatta risposta, per poi sentirsi prendere il polso come a mensa, quel giovedì. Solo che non venne mollato, anzi tirato verso quel gigante, che con un movimento preciso e mirato lo spedì con la schiena contro la porta.
L'espressione di Steven, superato il fastidio per quel cozzare indesiderato scapole- legno, si mutò in un'aria alla: embé? Chi si credeva di essere quel bellimbusto montato per entrare in camera sua senza nemmeno un valido motivo – qualunque fosse stato, Steven gliel'avrebbe distrutto – e sbatterlo contro la porta?
L'altro gli fu addosso in breve, fu facile immaginarlo. Non così semplice per il moro, non precisamente abituato ad avances di quel genere. Sentire il respiro del castano sulle labbra non gli fece proprio piacere, infatti con la mano libera non ci pensò due volte a dargli uno schiaffo sul collo, parte del corpo dov'era riuscito a giungere prima che l'altra mano di Max non gli bloccasse l'altro polso.
Steven avrebbe potuto anche ringhiare, in quell'istante, tanta era l'irritazione che iniziava a nascergli dentro a causa di quel tizio.
Max fece un sorriso sghembo, strano, diverso da quelli che bene o male aveva imparato, senza volere, a riconoscere su quel viso stupido.
«È inutile che fai il sostenuto, Steven MacMillian.», gli consigliò, con un'aria saccente che diede parecchio sui nervi al moro.
«Chi ti credi di essere tu, eh? Maximilian Jackson!», lo richiamò infatti, utilizzando il suo stesso gergo e chiamandolo con nome e cognome. «Piombi nella mia stanza senza nemmeno un permesso od un saluto di sorta, mi afferri il polso e mi spingi contro al muro senza alcun riguardo, e soprattutto continui ad avere atteggiamenti che io ti ho detto chiaramente di non gradire. Ti ripeto la domanda, zucca vuota: chi ti credi di essere?», lo aggredì nuovamente con la sua retorica, anche se guidata solo dall'enorme fastidio che provava al momento.
Max non si sconvolse.
«Sono una persona che dovresti temere, Steve, lo sai?», disse quasi con dolcezza. Quasi provando pena per quel ragazzo che non aveva la minima idea di chi avesse di fronte, di chi stesse sfidando, di chi aveva deciso di voler giocare con lui dopo tanto tempo.
Infatti, come volevasi dimostrare, il moro si lasciò andare ad un sorriso scettico.
«Addirittura? E chi saresti tu, il Padrino?», lo prese palesemente in giro, assottigliando gli occhi nocciola da dietro le lenti.
Il castano sospirò leggermente. A lungo, per quasi quarantotto ore, si era lambiccato il cervello sulla possibilità di uscire allo scoperto subito, senza prima una premessa degna di questo nome. Aveva però concluso che Steven non poteva essere domato se non con le maniere forti.
Ehi, lui ci aveva provato ad essere amichevole; ma il moro non lasciava tante possibilità.
«Sono quello che conosce il tuo piccolo segreto, Steven.», se ne uscì, talmente improvviso che sul momento Steven nemmeno collegò.
Ma qualcosa, nel sorriso cattivo di Maximilian, lo indusse a tacere, a non uscirsene con una delle sue frasi sarcastiche.
«Io so tutto di tuo padre, Steven Macmillian secondo. Faresti bene a temermi, lo sai?»
Maximilian Jackson aveva un merito.
Nessuno, prima di lui, era riuscito a far sgranare quel paio d'occhi freddi e sentenziosi. 

Era morbido, vero?
Il suono della vittoria.
Click. 

 


Grazie a tutti per aver seguito fin qui <3
Ringrazio Yoko891 per aver recensito il primo capitolo, e a tutti quelli che so che l'hanno letto!
Spero che questo secondo sia stato di vostro gradimento, aspetto altri commenti *-* 

Yoko891: non ci credo che tu invidi il mio lessico, la cosa potrebbe seriamente commuovermi ç__ç
Spero che in questo capitolo tu ti sia fatta un'idea più precisa dei due protagonisti: se così non fosse stato, beh... lo capirei perfettamente XD non ho dato modo di comprendere perfettamente l'indole di nessuno dei due; adoro non svelare subito tutto ciò che concerne il carattere di una data persona <3 *saltella* Invece per quanto riguarda la descrizione fisica, spero di averti ampiamente soddisfatta ù.ù 

Alla prossima <3
Ja ne!

  
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