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Autore: AcchanBaka    27/04/2010    1 recensioni
Non poteva immaginare che fare la conoscenza di quell'apparente bonaccione avrebbe a poco a poco dissolto l'oasi di perfetta solitudine che aveva costruito in anni di gentile isolamento – come lo chiamava lui – aprendogli porte colme di esperienze che, davvero, non avrebbe mai voluto provare.
La storia di un sospettoso pianista e un fotografo ficcanaso.
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1. le informazioni riguardo il pianoforte sono un po' farina del mio sacco, un po' raccimolate su wikipedia.com; lo stesso vale per le macchine fotografiche;
2. il parlato si esprime tra i simboli «», il corsivo indica pensieri (trascritti al presente) oppure serve a marcare l'importanza di un dato soggetto, le virgolette “” sono utilizzate per nomi di cose/opere o in generale per sottolineare concetti.
3. dopo avervi annoiato con le note, vi lascio solo con i copyright: i personaggi, i luoghi e il resto sono opera mia, mentre le opere citate (come “Für Elise”) sono ovviamente di proprietà del loro creatore (non ruberei niente a Beethoven-san <3). Grazie per l'attenzione e buona lettura!


 

 

Black and White

O magari in seppia?

 

 

1. 88 in tutto.

Di tanto in tanto 97.

 

 

Mi, re diesis. Trattenne per un infinitesimale quanto vitale istante il medio sul tasto nero. Di nuovo mi, re diesis. Quindi mi, si, re diesis, do, la.
Q
uell'attracco famosissimo faceva sciogliere in brodo di giuggiole le ragazze, ogni volta che si sedeva al pianoforte nell'aula di musica e accennava un brano. Non appena iniziava “Für Elise”, alle sue orecchie arrivava quasi automatico un «oooh» ammirato delle ragazze che si trovavano nei paraggi.
Proprio non riusciva a capire che cosa ci fosse di tanto smielato e romantico in quell'opera: ci pensava e ci ripensava, arrivando alla semplice conclusione che lui, al contrario della maggior parte delle ragazze che si emozionavano nel sentire quelle prime note, sapeva che non c'era nulla da ammirare particolarmente: di quella meravigliosa bagatella in La minore, nemmeno ben si conosceva l'esatta destinataria. Per quel che ne sapeva lui, l'ultima ipotesi riguardava una cantante tedesca dell'epoca di Beethoven, nota come Elise, con cui il Maestro aveva stretto una profonda amicizia all'epoca della composizione di “Für Elise”.
Ma probabilmente il motivo per cui ogni ragazza si portava le mani al petto sospirando innamorata era ancora più profondo e meno comprensibile da un'indagine acuta e razionale. Sì, forse era più illogico, meno spiegabile, meno scientifico.
Probabilmente era perché quella composizione sembrava una poesia tradotta in musica; o perché ogni nota pareva intrisa di una sorta d'affetto, forse mal corrisposto, che si riversava senza alcuna diga nel cuore e nelle orecchie di chi ascoltava, sia che chi suonasse fosse un magistrale pianista che un principiante alle prime armi.
Probabilmente il solo ascoltare quelle poche note iniziali, il cui eco aveva lasciato che si espandesse a macchia d'olio nell'aula vuota e inondata dal sole, riusciva a scuotere le corde più profonde dell'anima. Non c'era una spiegazione logica, e in fondo lo sapeva.
In quello strumento, nelle corde, nei tasti bianchi e neri, nell'elegante linea della struttura portante, nel luccichio dorato di ogni rivestimento, perfino nei cardini che abbassavano il leggio, c'era qualcosa di magico e inspiegabile che incantava chiunque.
Batté le ciglia, osservando la polvere roteare dolcemente davanti ai suoi occhi, talvolta attaccandosi al lucido nero della mezza coda di fronte a sé. Parve risvegliarsi dopo quel – gli parve infinito – giro di pensieri riguardo la dolcezza di “Für Elise”, e decise perlomeno di concludere l'esecuzione.
Ovviamente, sistemate le dita, partì daccapo.
Mi, re diesis, mi, re diesis, mi, si, re diesis, do, la. Fine inizio. Anche la mano sinistra entrava in scena. Mentre la destra orchestrava do, mi, la, si, mi, sol diesis, si, do, la sinistra s'impegnava in fa, do, fa, do, do, mi diesis. Era estremamente piacevole saltare da un'ottava all'altra, morbidamente, lasciando che i bassi suonati dalla mancina si intrecciassero con le note alte, quelle che guidavano la melodia.
Aveva sempre pensato a quel luogo comune, ovvero che fosse la destra a guidare le note che “dovevano essere ascoltate”, mentre la sinistra passava in secondo piano, faceva solo da contrapposto, da sottofondo, da accompagnamento. Ogni volta che si trovava a parlare di musica con qualcuno – e accadeva spesso, vista la sua passione – si irritava non appena entravano nell'argomento.
Senza ombra non c'è luce, senza odio non c'è amore, senza bianco non c'è nero: senza la mano sinistra non esisteva la destra. La melodia suonata dalla destra risultava vuota, infantile, persino fastidiosa senza il fondamentale apporto della sinistra, che si concentrava per motivi fisici e inalienabili sulle note basse, sulla tastiera poste proprio sul lato sinistro.
Naturalmente spesso la sinistra veniva lasciata silenziosa, ferma, perché fosse la destra a calamitare l'attenzione: ma in moltissime – e bellissime – opere, accadeva il meraviglioso opposto, la destra si zittiva per lasciar spazio alle armoniose e dolci note basse, lasciando che anche la sinistra avesse un po' di gloria.
Capitava spesso che si lasciasse andare a certe elucubrazioni, che gli parevano un momento prima profonde e degne di un trattato filosofico, un momento dopo vuote, infantili, partorite da una mente che ancora doveva capire molte cose del mondo; quando gli chiedevano a cosa pensasse mentre suonava, lui rispondeva «Al pianoforte, che altro?», perché era vero. Tutto ciò che concerneva quel sublime insieme di tasti, corde, pedali, rientrava sempre nel suo giro di riflessioni, che perciò si spostavano dalla musica classica agli artisti contemporanei, dalla difficoltà iniziale di far combaciare le due mani al desiderio di concentrarsi più sulla destra che non sulla sinistra o viceversa.
Il suo intelletto era sempre ed unicamente rivolto al suo primo amore. Il pianoforte. 

Soltanto a diciott'anni suonati si era reso conto che la propria vita girava attorno a quel sublime strumento. Erano più di dieci anni che vi rivolgeva sguardi affettuosi e cure che non indirizzava più nemmeno agli esseri umani: il suo primo pensiero al mattino era diretto al pianoforte, l'ultimo ancora al pianoforte. Durante il giorno immaginava melodie da poter comporre, idee e macchinazioni che si frantumavano come fragili bolle di sapone al contatto con la severa e bellissima superficie di bianchissimo avorio dei tasti candidi e scurissimo ebano dei tasti neri, che parevano scrutarlo, indagarlo nel profondo, distruggerlo e poi ricostruirlo ogni volta che venivano sfiorati da quelle incerte dita.
Incerte, sì, anche dopo dieci anni dalla prima volta.
Ricordava quel momento, lo ricordava con dolcezza e mai lo annoiava raccontarlo a chi glielo chiedeva per la prima volta.
Era successo tutto alla scuola elementare: era una scuola privata, e la direttrice aveva deciso d'inserire per quell'anno corsi extra da frequentare nel pomeriggio. La decisione, dopo aver varato campi dello sport e diversi dell'arte, era ricaduta su corsi di chitarra e pianoforte, naturalmente per principianti perché di principianti si trattava, bambini delle elementari da zero a dieci anni. Lui era tra quelli. Aveva otto anni quando tornò a casa, felice come una pasqua – e di questo la madre si stupì, visto quanto solitamente era “cupo”, quel bambino – sventolando il foglio su cui il genitore doveva apporre firma, compilandolo con l'attività scelta dal figlio.
«E tu cosa vorresti fare, tesoro?»
«Non lo so, mamma, sono belli entrambi!» aveva esclamato in risposta all'ovvia domanda della madre. Lei s'informò sulla data prevista di restituzione del modulo e gli consigliò, accarezzandogli i capelli, di rifletterci ancora qualche giorno.
Ma non passarono nemmeno poche ore che, durante il momento del pasto, si alzò in piedi sulla sedia – un affarino alto quanto un birillo, pressappoco – annunciando: «io suonerò il pianoforte!», scatenando la risata del nonno e un sorriso orgoglioso della mamma.
A distanza di tempo non seppe ricordare esattamente cosa scatenò quella risposta, una preferenza per le corde nascoste e non esposte o cose del genere, non avrebbe saputo più dirlo; seppe solo che quella sera le sue idee erano più chiare di quanto lo sarebbero state in dieci anni. 

Mentre concludeva le ultime battute di “Für Elise” – in sostanza replicavano le stesse note iniziali, concludendosi con un doppio fa in mano sinistra, di due ottave differenti ovviamente, e di un do unito ad un la per la mano destra – si ritrovò ad immaginare la propria vita senza quello strumento.
E se, quella sera a cena, avesse declamato di voler suonare la chitarra? Oppure se, dopo averci riflettuto per qualche giorno seguendo il consiglio della madre, avesse deciso di non suonare nulla e dedicarsi invece, per esempio, ad uno sport?
Tutti gli anni successivi a quella decisione si modificarono per adattarsi all'esigenza quasi vitale per quel bambino – poi ragazzino, poi adolescente – di suonare il pianoforte: la scuola media fu scelta perché il maestro di musica che v'insegnava era un ottimo pianista e poteva farlo accedere all'aula con il pianoforte; la scuola superiore aveva un'aula di musica con un pianoforte a coda di ottima fattura e infine il college, in cui era iscritto al primo anno, era famoso per aver inserito la facoltà di musica nella propria rosa di studi.
Non che non avesse altre qualità o passioni, oltre la dote per il pianoforte. Gli piacevano le scienze, ammirava soprattutto quelle rivolte allo studio del cielo, la famosa “geografia astronomica” eccetera; era abbastanza portato per la scrittura, ma la sua pigrizia in tutto ciò che non riguardasse la musica lo aveva portato a non concludere mai un progetto iniziato; al secondo posto dopo il pianoforte, c'era la fotografia. Difatti, quel college aveva anche un corso riguardo l'arte delle foto, ed era stato a lungo indeciso, prima di lasciarsi guidare dalla propria passione primaria.
Però, rifletté, mentre sollevava le mani dalla tastiera lasciando che le ultime note si espandessero nell'aria, sarebbe stato bello curiosare nelle lezioni di fotografia, specie in quelle pratiche: la conoscenza concreta di una macchina fotografica lo interessava davvero molto, quasi quanto l'indagine di ogni singolo martelletto del pianoforte.
Sì, un giorno libero da lezioni – come quello, in cui era corso a rifugiarsi nella vuota aula di musica per suonare in pace – avrebbe dato un'occhiata al corso di fotografia.
Così, giusto per dare un'occhiata. 

«Sei davvero bravo, lo sai?»
Non poté impedirsi di sobbalzare, e voltarsi quasi di scatto, come punto da un animale.
Era convinto di essere totalmente solo, solo nella sua oasi di quarti e semi quarti, ed avrebbe anche avuto ragione di esserne sicuro, visto che quell'aula della scuola era riservata agli studenti del corso di musica, e dato che quello era uno dei giorni vuoti, non avrebbe dovuto esserci logicamente nessuno.
E invece...
«Ti ho spaventato? Non era mia intenzione» ridacchiò il ragazzo che, dalla porta, lo guardava. La cosa che però catalizzò la sua attenzione non fu quell'entrata improvvisa, quanto più la macchina fotografica reflex medio formato, che pendeva dal suo collo e che però l'altro teneva ragionevolmente tra le mani, visto il considerevole peso che da sola quella parte del corpo non poteva sostenere.
Deglutì, per riprendersi da quel colpo e sistemarsi sullo sgabello, le mani portate sulle ginocchia nel movimento di voltarsi e il battito che si calmava a poco a poco.
Gliel'avevano sempre rimproverato: era ipersensibile alle pressioni, una piccola sorpresa e il suo cuore prendeva a battere impazzito. Non era malato, in sintesi era facilmente impressionabile.
«Sei del corso di fotografia?» indagò, a metà tra il sospetto – come mai si trova qui? – e l'ammirazione – chissà se può farmi partecipare ai corsi...
L'altro annuì, lo sguardo che si abbassava sull'oggetto che teneva tra le mani, come a ricordarsi che ci fosse. «Sì, finita la lezione pensavo di fare un giro nell'aula di musica, cercavo la mia ragazza» spiegò sorridendo, «ma a quanto pare sono arrivato tardi e...» continuò, ma venne interrotto dalla sua mano sollevata e un cipiglio alquanto dubbioso.
«Oggi non ci sono state lezioni, dovresti saperlo anche tu se la tua fidanzata frequenta il corso di musica. Perciò o lei ti ha omesso questo particolare, o tra voi non parlate di scuola, o tu stai mentendo e l'ultima possibilità mi sembra decisamente improbabile. Perché dovresti, dopotutto?» concluse una delle sue solite arringhe.
Ecco perché parlava poco.
Perché era portato ad indagare, a ragionare su tutto, a schiacciare gli avvenimenti con una retorica poco utilizzata ma agghiacciante, le poche volte che veniva sferrata in direzione di una persona o di un preciso momento.
Tanto che il ragazzo inizialmente aveva sgranato gli occhi, piacevolmente sorpreso, per poi ridacchiare nuovamente – era un modo di fare quasi canzonatorio, il suo – sollevando le mani come ad indicare di starsi arrendendo.
«Okay, okay, tigre, calma, non voglio essere divorato.» scherzò, facendolo accigliare ulteriormente – tigre? Ma chi è questo ragazzo? – avanzando nell'aula. «D'accordo, forse deve essermi passato di mente questo piccolo particolare» ammise «D'altronde la lezione di oggi è stata tremendamente interessante, probabilmente è per questo che sono con la testa fra le nuvole...» buttò là.
Non sapeva chi fosse, ma decisamente era in grado di destare perfettamente la sua attenzione: difatti aguzzò le orecchie, mentre sistemava con cura il panno bordeaux sui tasti ed abbassava la copertura.
«Ma lascia che mi presenti» aggiunse, avanzando ulteriormente fino a coprire la distanza con qualche passo – era molto alto – e allungando nel contempo la mano. «Maximilian Jackson, per gli amici Max, apprendista fotografo» si introdusse con un sorriso affabile.
Allungò la mano a stringere quella, grande e al tatto appena callosa, di Max.
«Steven MacMillian. Pianista» 

Non poteva immaginare che fare la conoscenza di quell'apparente bonaccione avrebbe a poco a poco dissolto l'oasi di perfetta solitudine che aveva costruito in anni di gentile isolamento – come lo chiamava lui – aprendogli porte colme di esperienze che, davvero, non avrebbe mai voluto provare.

  
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