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Autore: yesterday    13/05/2010    21 recensioni
Non è mai una scelta vantaggiosa condividere una stanza di quattro metri per quattro con il tuo ex ragazzo. Soprattutto se l'ex ragazzo in questione è Akito Hayama, e siete più o meno in pessimi rapporti.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Akito Hayama/Heric, Aya Sugita/Alissa, Fuka Matsui/Funny, Sana Kurata/Rossana Smith, Tsuyoshi Sasaki/Terence | Coppie: Sana/Akito
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.42: Chain: metal rings connected together in a line.

PART TWO.

 

 

« Io l’ho sempre saputo che eri ottusa » espirò, aggiungendoci probabilmente anche qualcosa di simile a “non capisco come io riesca ancora a stupirmene”.
Ma non ne ero sicura, ero troppo nervosa e non avrei saputo cosa ribattere, quindi ignorai completamente quella seconda parte.
Campo Di Battaglia, dopocena della prima domenica nell’appartamento numero undici.
Inarcai un sopracciglio, le mani piazzate sui fianchi e la bocca semiaperta dallo stupore.
Le considerazioni di Hayama sulla mia scarsa capacità di recezione - assolutamente presunta, terrei a specificare - stavano facendo saltare i miei nervi, i miei neuroni, la mia pazienza e tutto il resto.
« ..Ottusa? » ripetei incredula.
D’altronde, se chiedi al tuo ex ragazzo delucidazioni circa parole sconnesse dette-per-gioco-ma-seriamente che ti fanno altrettanto seriamente pensare al suo equilibrio mentale - presunto anche questo - è ovvio che tu sia ottusa.
Almeno secondo Akito Hayama.
« O sei distratta o sei proprio sorda, allora. »
Avrei tanto voluto una terza opzione: o io ti strozzo con le mie stesse mani, ma in genere erano pochi i miei desideri che s’avveravano, quindi ressi perfettamente alla delusione.
Inspirai profondamente, imponendomi una calma che in quel momento mi mancava nel modo più assoluto, ed invocai i Kami uno ad uno - in effetti l’operazione richiedeva un lasso di tempo indubbiamente lungo, dato che i Kami sono otto milioni (*) -  per pregare loro di donarmi il sangue freddo necessario; ero arrivata a duecentocinquantasei quando..
« Né una né l’altra, alla luce dei nuovi elementi. Stai dormendo in piedi, e devo dire che capita spesso » ironizzò, sistemandosi sul suo letto.
Cercai di modulare la voce in modo da apparire perfettamente calma, e con mio sommo stupore ci riuscii. « Prima che io ti mandi a quel paese, Hayama, vorrei sapere perché sono ottusa »
Non mi calcolò nemmeno.
Con esagerata lentezza mi avvicinai al bordo del suo letto, ben decisa a non lasciar perdere.
« Rispondimi » lo sfidai.
Le iridi, fino a quel momento nascoste dalle palpebre abbassate, mi trapassarono in un sol colpo.
Trattenni il fiato.
« Vuoi sapere perché?» era maledettamente serio.
Annuii, deglutendo.
Spostò lo sguardo, fissando probabilmente un punto indefinito - e sicuramente interessante - tra l’armadio e la porta.
Espirò di nuovo, strinse i pugni, tornò a guardare me.
« Esattamente per questo »
..
Oh.
Mi sforzai di non ridere.
« Ora è tutto assolutamente più chiaro Hayama. Molte grazie. »
« Fai anche del sarcasmo, Kurata? »
« Io il sarcasmo, tu il sottotesto » lo apostrofai, zittendolo definitivamente.
Okay, momentaneamente.
Dopo un paio di secondi le trattative pre-belliche ricominciarono:
« Sottotesto, hai detto? » si mise a sedere di scatto, colpito.
« Non negarlo »
Si alzò ad una velocità impensabile, restando ad una decina di centimetri da me. Mi afferrò le spalle con entrambe le mani e mi scosse un paio di volte.
« Nemmeno te ne accorgi del perché! Tu vedi solo gli errori degli altri, non prendi nemmeno in considerazione che gli sbagli ci siano da entrambi i lati, ecco il tuo problema! » esalò con rabbia.
Co.. Cosa?
Ma andiamo.
Staccai con stizza le sue dita dalle mie braccia, sbuffando.
Avrei faticato ad accettare quel discorso assolutamente campato in aria da un perfetto autocritico e razionale, figuriamoci da un perfetto stronzo e musone.
« Non sono qui per farmi dire da te quali siano o meno i miei presunti errori. Io ti ho fatto una domanda: cosa significa “vestito”? Stiamo litigando da mezz’ora ma ancora non hai trovato il coraggio di dirmelo » lo provocai, sicura che avrebbe reagito - dopotutto minare il suo orgoglio era un metodo infallibile, in questi casi.
Sollevò un sopracciglio, senza scansarsi di un millimetro.
Strinsi le braccia al petto, contando i secondi col piede destro. Quanto ci avrebbe impiegato? Forse dodici, tredici secondi.
« Non ho ancora avuto il coraggio, hai detto? » schiamazzi notturni dopo quattro secondi « Credo proprio che non lo troverò mai, allora. Sono un tale codardo.. »
« Non ironizzare, fammi il piacere » sorrisi amara, alludendo ad un passato sconveniente, ad un tempo in cui l’orgoglio ed il poco coraggio ci avevano fatto soffrire entrambi, anche se eravamo solo dei bambini « non vorrei dover rivangare eventi passati. »
Annuì, tornando relativamente calmo.
I pugni stretti lungo i suoi fianchi si rilassarono.
« Fai come vuoi, dico davvero. Tutto questo sottotesto e la mia mancanza di coraggio sono chiari segnali che la risposta, stavolta, te la cercherai da sola. »
Chiusi gli occhi e trattenni l’ennesimo sorriso sarcastico.
« Certo, sono una veggente, sarà un gioco da ragazzi entrare nella tua testa e scoprire cosa c’è dietro »
« Sei ottusa, non c‘è speranza. Non serve entrare nella mia testa per scoprirlo, bastava un minimo di attenzione ai dettagli in più. »
Boccheggiai. « Vorresti dire che io »
« Sì, voglio dire. Prova col gioco che ha intavolato stasera a cena Tsuyoshi, magari risolvi qualcosa. Anche se conoscendoti ne dubito. Non che mi interessi, comunque. »
Le ultime cinque parole, proferite con la calma ed il disinteresse più assolute, riuscirono a mandarmi letteralmente in bestia.
Riaprii gli occhi e presi a gesticolare convulsamente.
« Certo, certo, secondo te dovrei passare la serata a mettere in fila parole collegate tra di loro pur di riuscire a capire quello che ti passa per la testa. Non sei il centro del mio mondo, Hayama, non capisco come tu possa anche solo pensare simili sciocchezze » buttai fuori tutto il rancore accumulato, terminando la breve scenata con l’immancabile occhiata al soffitto.
Rimasi a guardarlo, mentre con una lentezza impossibile ed un’espressione illeggibile in viso componeva un qualsiasi tipo di risposta.
« Forse.. Forse devi ancora capire che quello che fai, quello che pensi, le persone che frequenti non mi riguardano. Fai come ti pare, Sana, dico sul serio. Stiamo sfiorando il ridicolo. Tutta questa storia della stanza » indicò le quattro mura « è ridicola. Fai le tue scelte, continua a fare l’egoista, dai a me la colpa dei tuoi mali. Non mi sfiora minimamente. »


***


In fondo gli avevo soltanto chiesto cosa significava “vestito”. Non mi sembrava di aver commesso nessun tipo di reato, e la sua reazione era stata oltremodo esagerata.
Aveva tirato in ballo troppe cose, alcune delle quali non rasentavano neanche lontanamente l’argomento - vedi: “le persone che frequenti”, vedi “sei ottusa”; ma volendo ci si potevano leggere miriadi di altre allusioni non espresse, buttate lì come si lancia il sasso e subito dopo si nasconde la mano dietro alla schiena.
E poi - spezzai nuovamente la barretta - non ero come lui mi aveva descritta.
Io non vedevo soltanto gli errori degli altri, insomma, avevo fatto degli sbagli colossali nell’arco della mia alquanto relativamente breve vita, ma li avevo ammessi. Tutti.
Forse un po’ in ritardo, ma era perché non me n’ero accorta prima: un discorso totalmente diverso da quello a cui aveva accennato lui.
“Il mio problema”, che aveva così gentilmente nominato, era una distrazione inconsapevole, non la cattiveria e quel certo lato di premeditazione - nell’occultare i propri errori - che lui aveva insinuato.
Presi tra pollice ed indice un pezzo di cioccolato. Al latte, il mio preferito.
Mi guardai intorno, furtiva.
Sperai ardentemente che nessuno si azzardasse a mettere piede in cucina: trovarmi rannicchiata in un angolo, con addosso una vecchia felpa ed i capelli raccolti alla bell’e meglio, a rimpinzarmi di cioccolato e rimuginare sulle urla della stanza ad est - intuivo che me lo si doveva proprio leggere in faccia - avrebbe dato conferma alla teoria - errata - di Aya e Tsu, e fin troppa soddisfazione a quell’altro.
Soffocai la rabbia in un altro rettangolino di cioccolato.
E poi, diamine, la sua reazione non era stata normale. Il momento in cui avrebbe dato di matto l’avevo previsto, ma la calma e la risolutezza della seconda parte del litigio proprio no. Ed era stato proprio il momento in cui la conversazione aveva preso quella piega strana, quella piega insolita.
Avevo sempre pensato che io ed Akito - l’avevo pensato persino quando capii che era finita, l’avevo pensato soprattutto in quell’istante - non ci saremmo mai trovati a rivangare il passato, le mancanze l’un dell’altro; eppure l’avevamo fatto esattamente un’ora prima.
Ero convinta anche del fatto che due persone come noi avessero imparato come interagire correttamente. C’eravamo riusciti per cinque anni, doveva essere qualcosa di simile al concetto di “bicicletta”, no? Una volta imparato non lo scordi più.
Avevo sbagliato anche in quel caso. Era come se quell’anno passato ci avesse cambiati in modo profondamente diseguale, creando una sproporzione tale da impedirci di instaurare persino la più banale conversazione.
Uno dei due dava per scontato qualcosa che l’altro non coglieva. Malintesi su malintesi su malintesi. Non sembravamo nemmeno più gli stessi Sana ed Akito.
Che fine avevano fatto la ragazza S. ed il ragazzo A.?
Credevo fosse una di quelle sicurezze che non avrei perso mai.
Sbagliavo anche in quello.
Ma in fondo - altro pezzo di cioccolato - non era colpa mia se Hayama era stato un codardo.
L’avevo messo alle strette, avrebbe potuto parlare.
Quindi era un suo problema, un suo fottutissimo problema.
E di certo non mi sarei scervellata per capire come era arrivata a funzionare la sua testa, era una battaglia già persa in partenza.
Non l’avrei fatto, tantomeno con quello stupido giochetto.

 

***

 

Oh. In fondo mai nessuno l’avrebbe saputo.
Potevo concedermi una debolezza simile, potevo giustificarla almeno in due modi. Era notte fonda e non riuscivo a chiudere occhio, e quella stessa mattina avrei dovuto affrontare l’ignoto: l’università. E se mi avesse conciliato il sonno? Sarebbe stato un peccato non fare un tentativo.
Abbracciai più stretta il cuscino.
Decisi che come prima parola poteva andar bene quella decisa da Tsuyoshi a cena: Akito.


Cinque lettere che mi facevano pensare a dei capelli biondi, un tono di voce diventato ormai detestabile, una montagna di ricordi che iniziavano in sesta elementare e si spingevano fino a quella stanza, riempita dei suoi respiri calmi.
Anche ad un gazebo, effettivamente. Anche al Karate.
Ma soprattutto - ed inevitabilmente - con “Akito” rivedevo le sue iridi dorate che mi scrutavano.


Quindi occhi, giusto?

Presi a morsi il labbro inferiore.
Pessima idea, quella di giocare. Mi riempiva la testa di ricordi e risultava praticamente impossibile addormentarsi.

 
Quella parola mi riportava indietro nel tempo.
Quando i suoi occhi saggiarono ogni lembo di pelle del mio corpo, e mi sentii dannatamente felice di fare l’amore con lui.
Quando io ci annegai dentro, a quegli occhi, e mi ci persi definitivamente con quel « Non devi avere paura » soffiato sul mio collo.
E capii di non averne davvero.
 

 

Mi disfai delle coperte, improvvisamente troppo pesanti. Aprii gli occhi nell’oscurità e non fu la mossa migliore.Io di norma avevo leggermente paura del buio.
E fu così anche in quel preciso istante.

 
La paura più devastante la provai quando si trasferì in America.
Da un lato avvertivo la certezza incrollabile che sarebbe tornato, dall’altro il folle terrore che quell’oceano fosse davvero troppo grande per riuscire a non perderci.
La fiducia, anche se le telefonate divenivano sempre più rade, era ancorata in quei sorrisi, che un po’ amari però lo erano.


Ero ufficialmente in iperventilazione. Mi portai una mano all’altezza del cuore, che batteva all’impazzata.
Avrei dovuto pensare a vendicarmi - accidenti, rischiavo di arrivare all’università più addormentata che sveglia, e anche se indirettamente era colpa di Hayama - sì, decisamente.
Ma posticipai, lasciandomi scappare proprio un sorriso amaro.
A che livelli saremmo arrivati?


Solo uno. Quel breve istante prima della fine, al gazebo.
Mi guardò, e si lasciò sfuggire un sorriso amaro. Non avevo mai capito il perché.
Ma in quel momento l’inquadratura sembrò allargarsi, nella mia mente, e mi rividi col vestito blu.
“Un vestito, niente di che - ma per lui fu abbastanza da fargli scuotere la testa e sorridere amaramente.” (**)

 


E tornavamo al punto di partenza: vestito.
Sbuffai sonoramente, alzandomi dal letto.
No, così non andava bene.
Cercai di controllare respiro e battiti; probabilmente la cosa migliore era una capatina al bagno.
Tesi le orecchie, se Hayama dormiva avrei potuto tranquillamente accendere la luce - più che altro al buio in quelle condizioni non avrei raggiunto la porta prima di rompermi una gamba.
Respirava tranquillamente, ed io azzardai.
Spinsi l’interruttore trattenendo il respiro, che rilasciai solo dopo aver constatato l’assenza di urla, imprecazioni, varie ed eventuali.
Scivolai velocemente lungo il corridoio e mi chiusi alle spalle la porta del bagno.
Osservai la mia immagine riflessa e stentai a riconoscermi: le guance arrossate e la fronte velata di sudore. Gli occhi lucidi, il labbro inferiore morso quasi a sangue.
Sembrava il classico risveglio dopo un incubo.
Girai la manopola e l’acqua iniziò a scorrere.
Mi rinfrescai il viso un paio di volte e mi appoggiai con entrambe le mani al bordo del lavabo.
Espirai.
In definitiva, mi ero consapevolmente minata in modo irreparabile l’umore, avevo perso mezz’ora di sonno ed inoltre non ero nemmeno riuscita a capire il significato di “vestito”.
Non c’era proprio niente da aggiungere, era una giornata da cancellare totalmente.
« Al diavolo » imprecai a mezza voce, tamponandomi il viso con l’asciugamano.
Il mattino successivo sarebbe stato un disastro, ormai ne ero sicura.

Per raggiungere il letto, dieci minuti dopo in camera, andai a sbattere contro la sedia. E dire che la luce era rimasta accesa.
Mi morsi la lingua per non fiatare, e massaggiando il piede dolorante raccolsi gli indumenti che avevo fatto cadere.
Strabuzzai gli occhi mentre tenevo in mano l’ultimo vestito, che avevo abbandonato alla rinfusa proprio sabato notte, prima di dormire.
Deglutii.


« Quindi tu vorresti dirmi che Akito, dopo che ti sei vestita e vi siete scambiati un “buon divertimento” zeppo di sarcasmo reciproco, è uscito. […] Per ovvi motivi non vi siete rivolti la parola, e lui era furioso così, tanto per provare qualcosa di nuovo, a caso » parole di Tsuyoshi, prima di pranzo.
Dopo che ti sei vestita”..


Lanciai un’occhiata preoccupata - più colpevole che preoccupata, va bene - alla massa scomposta di capelli che sbucavano dalle coperte dell’altro letto.
A notte fonda, in piedi - in bilico - al centro di quella stanza troppo stretta per le cose non dette e soprattutto per quelle non comprese, capii che per una volta eravamo pari.
Che, come da mesi ripetevo a Fuka, non c’erano un aguzzino ed una vittima.
Un coltello ed una ferita.
Ci facevamo male entrambi, io ed Hayama, continuamente, senza dar peso a parole e gesti che potevano sembrare tutt’altro rispetto alle intenzioni originarie.
Trovai un senso per ogni allusione che non avevo capito, come quell’attenzione ai dettagli, gli errori degli altri, lo stesso “ottusa” che tanto mi aveva innervosita.
Perché aveva ragione, almeno per una volta. Avrei reagito male anch’io, se i ruoli fossero stati invertiti.
Non avevo fatto caso al mio vestito,la sera precedente - lui invece l’aveva riconosciuto immediatamente, il vestito che mi aveva regalato, il vestito che l'aveva fatto sorridere amaramente (e sinceri o tristi, i suoi sorrisi erano rari.. Chi lo sapeva meglio di me?) - e non avevo rispettato quel pezzo ingombrante di passato.
O meglio, non l’avrei rispettato se veramente avessi passato la serata nel modo in cui Akito credeva.
Ma in fondo lui, per l’appunto, lo credeva.
Eravamo sulla stessa barca, ma non troppo: il mio sabato era stato popolato da un semplice film e una sequenza di ricordi - ma questo Akito non lo poteva sapere per ovvi motivi.
Strinsi i pugni, e reclamando la mia parte di ragione aggirai il mio letto, snobbandolo. Mi fermai accanto al suo.
« Sei stupido »
Avevo una voglia tremenda di offenderlo. Anche di prenderlo a schiaffi, se solo avessi potuto.
Alzai le coperte e mi sistemai accanto a lui.
Solo perché avevo un disperato bisogno di dormire, ovviamente.
Non aveva molto senso infilarsi nel suo letto - nel senso pacifico del concetto - finchè lui dormiva, ma qualcosa doveva pur significare. Se non altro stavo già facendo un passo, anche se lui non l’avrebbe saputo mai.
Ma, per inciso, sapevo di avere relativamente ragione. Quindi non era un vero passo. E quindi l’indomani le ostilità si sarebbero riaperte con estrema naturalezza - però l’indomani, appunto.
(Appuntai mentalmente, afferrando il telefono e programmando la sveglia, che non avrei potuto reggere una seconda scena imbarazzante simile a quella della settimana precedente. Niente Akito che trovava Sana addormentata nel suo letto. Per niente al mondo.)
« “Anche se conoscendoti ne dubito” » sbottai, ripetendo le sue parole - alla fine invece avevo capito davvero, con l’aiuto di mezza giornata.
Partiva troppo prevenuto nei miei confronti.
« Comunque ne usi davvero troppo di sottotesto, lasciatelo dire. »
Dopotutto non stavo parlando da sola. Lui era lì, anche se incosciente.


Capita di non farcela.
E di essere il coltello.
E insieme la ferita.


___________________________



(*) Espressione di uso comune in Giappone, ad indicare l’esagerazione nel numero dei Kami. Fonte: Wikipedia.
(**) ripresa da 1.32: Breathless: to have difficulty in breathing properly. PART TWO.

Le ultime tre frasi, in centro, non appartengono a me, bensì agli Afterhours. E’ una citazione che amo tantissimo.

   
 
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