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Autore: cabol    17/05/2010    1 recensioni
Dietro una porta ermeticamente chiusa può celarsi un pericolo misterioso, un favoloso tesoro, un terribile segreto. Aprirla può voler dire trovare tutto questo o chissà cos'altro. Ma certamente ci troveremo sempre l'avventura.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo 12: fuga

Algernon era rientrato a casa di cattivo umore, la sera prima. La cena col suo figliolo era stata funestata dalle continue chiacchiere di Robert che gli aveva raccontato una serie di storie di assassini da far accapponare la pelle. Le aveva lette in un libro sul culto di Dhela trovato in casa del suo padrone e si era evidentemente impressionato a tal punto da raccontargli tutto quell’orrore per tutta la sera. Per fortuna, almeno aveva avuto il buon senso di chiedere al suo padrone il permesso di leggere quel libro.
Una marea di sciocchezze.
Insomma… 
Comunque, appena tornato a palazzo, si era chiuso nella sua stanza a doppia mandata. Qualunque cosa fosse accaduta quella sera, Algernon non avrebbe osato uscire dalla sua camera e, sebbene avesse fatto molta fatica ad addormentarsi, dormì fino ad un’ora alquanto tarda, per le sue abitudini.
Quando si alzò, si rese subito conto che il sole era alto e si affrettò ad incominciare le sue consuete attività mattutine, sperando che il suo padrone non si fosse accorto del suo imperdonabile ritardo.
Fortunatamente, pareva che il signor Brook non si fosse ancora svegliato, sicché Algernon cominciò a sperare di averla fatta franca. Ad un tratto, udì un tonfo proveniente dalle stanze del signor Brook. Si aspettò di essere chiamato ma non ci furono altri rumori per alcuni minuti, dunque, il maggiordomo si avvicinò alla studio del suo padrone, da dove gli sembrava fosse giunto il rumore.

«Signore? Avete bisogno di qualcosa?».

Non ci fu risposta. Algernon tese l’orecchio ma non riuscì ad unire alcun rumore. Attese ancora un po’, poi ritenne di non dover dare peso alla cosa e riprese le sue occupazioni.
 Quando, circa dieci minuti dopo, la voce del suo padrone lo raggiunse, recando con sé parole delle quali l’anziano maggiordomo non si sognava neppure l’esistenza, Algernon si sentì morire.
Se lo vide piombare addosso col volto sconvolto di rabbia, gli abiti sgualciti come se ci avesse dormito dentro, un bernoccolo come un uovo di gallina sulla fronte.

«Dormivi eh? Vecchio fannullone! E quegli altri idioti che dovrebbero vegliare su questa casa che diavolo fanno? Per gli Dei, stavolta vi sbatto tutti in mezzo ad una strada!».

Algernon non riusciva a spiegarsi come il signor Brook si fosse accorto del suo ritardo. La sua voce balbettò nel formulare un tentativo di scuse. L’idea di poter essere ignominiosamente licenziato lo terrorizzava più dei pugni serrati del suo padrone.

«Ah maledetto! Osi accampare scuse? Ma questa me la paghi, schifosa mummia! Levati dai piedi, immediatamente!».

Un violento pugno colpì in pieno volto l’anziano servitore, scaraventandolo contro la parete e lasciandolo privo di sensi, col viso coperto di sangue. Brook non se ne curò e si precipitò alla stanza del tesoro.
Appena dentro, vide il passaggio segreto ancora spalancato e si sentì raggelare. Cosa aveva osato fare quel maledetto ladro? Accese la lampada ad olio, chiuse la porta e scese rapidamente giù nei sotterranei. Il silenzio assoluto che vi regnava gli fece temere il peggio. Sguainò la spada e avanzò con prudenza.
Nel magazzino c’erano segni di lotta ma il mercante non fu in grado di capire esattamente chi avesse prevalso. Febbrilmente, esplorò il dormitorio e la sala delle forge, senza trovare nessuno. Non riusciva assolutamente a capire cosa potesse essere accaduto. L’unica cosa certa era che Sfi’Hak e i suoi schiavi erano scomparsi senza lasciar traccia.
Fuggiti? Catturati?
E da chi?
Blackwind, certamente; e chi altri, ancora? Non poteva certamente aver messo fuori combattimento da solo un mago come Sfi’Hak e quattro nani grigi armati fino ai denti.
Tornò nel magazzino. Lo scrittoio era stato forzato. Erano scomparsi alcuni documenti che avrebbero potuto diventare pericolosi se fossero caduti in mani sbagliate. Cominciò a sentirsi perduto. Voleva fuggire.
Sì, fuggire era la soluzione migliore. Era ricco. Dovunque fosse andato avrebbe saputo rimettere in piedi la sua attività, almeno per quanto riguardava le armi normali. E quella sera, sarebbe dovuta partire una nave diretta verso sud, col carico di opere d’arte che nascondevano le armi di contrabbando. Decise in fretta. Su quella nave sarebbe salito anche il ricco e rispettato (almeno fino ad allora) signor Brook.
Ma c’erano diversi problemi da risolvere. Senza i nani, portare le statue e le anfore piene di armi nella stanza del tesoro, sarebbe stata un’impresa improba. Aveva bisogno di alleati che non lo potessero tradire. Poi c’era da chiedersi quanto tempo gli sarebbe restato prima che la lettura di quei documenti da parte di uno dei senatori scatenasse le guardie sulle sue tracce. E, infine, voleva farla pagare a quel maledetto Blackwind.
Scacciò i propositi di vendetta. La situazione stava precipitando e non c’era tempo per le rivincite. Ora doveva salvare il salvabile, poi, una volta al sicuro, avrebbe pensato al resto. L’importante era riuscire ad imbarcarsi quella sera.
Bisognava organizzare le cose per bene. Si sedette allo scrittoio, cercando di riflettere con calma. Soffocò la rabbia, tentò di rilassarsi. Lentamente, sentì di stare riacquistando lucidità. Rimase quasi due ore a pensare alle varie possibilità, cercando di ponderare bene i vantaggi e gli svantaggi di ogni soluzione.
Infine scelse il piano che riteneva più sicuro. Non c’era da farsi scrupoli di alcun genere. Era in ballo tutto quello che aveva realizzato in quegli anni. Avrebbe chiesto aiuto ai marinai della nave contrabbandiera. Sarebbero salpati con lui, dunque non sarebbero stati in grado di rivelare alcunché ad estranei. Per maggior precauzione si sarebbe procurato un lasciapassare che gli avrebbe garantito qualche ora d’impunità, oltre a distrarre le guardie. Non avrebbe certamente più potuto metter piede a Elosbrand ma almeno avrebbe avuto la possibilità di ricominciare altrove.
Tornò nella stanza del tesoro. Chiuse il passaggio segreto e si diresse verso il museo. Lanciò un’occhiata distratta al punto dove aveva lasciato il vecchio maggiordomo. Non c’era. Solo una macchia di sangue sul muro ricordava cos’era accaduto. Non se ne curò. Quel vecchio idiota poteva andarsene al diavolo. Ora gli sarebbe stato solo d’impaccio.
Si cambiò e ripulì, gettò un mantello sulle spalle e uscì, ignorando il guardiano al portone che lo salutava deferente. Probabilmente non si era accorto di nulla di quel che era accaduto durante la notte. Certamente non s’immaginava che quello sarebbe stato il suo ultimo giorno di lavoro.

***

Una figura incappucciata si avvicinò con passo malfermo al palazzo di Lord Bailey Windström. Non c’era nessuno, nei pressi. Lentamente, come trascinandosi a malapena, raggiunse il portone e sollevò il battente con enorme fatica. Lo lasciò ricadere e scivolò al suolo, rotolando poco davanti al portone.
Una voce limpida risuonò poco dopo.

«Chi bussa?».

Non si udì risposta.

«Ehi? Chi bussa?».

Lo spioncino si aprì. Qualcuno guardò fuori, senza vedere nessuno. Il portone venne spalancato e un giovane in splendida livrea da maggiordomo uscì dal palazzo. Sobbalzò nel vedere la figura accasciata al suolo, sui gradini lì accanto. Corse a soccorrere quello sconosciuto e gli tolse il cappuccio per vederlo in volto. Sbiancò.

«Padre! Cosa vi è successo?».
  
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