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Autore: Shichan    19/05/2010    2 recensioni
[Durarara!! - Kida centric]
Forse Orihara Izaya aveva ragione sostenendo che Saki sarebbe divenuta il suo personale Dio; senz’altro, era un’ossessione.
Quella per la quale non provava interesse in nessun’altra.
Quella per la quale non riusciva a liberarsi del passato e di quel senso di inadeguatezza che non gli faceva mai oltrepassare la soglia di quel maledetto ospedale.

[Presenza di personaggi di contorno/ombra originali]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il ragazzo cercava di cambiare un poco alla volta

Il ragazzo cercava di cambiare un poco alla volta.

Come quando, ogni giorno,

guardava verso una finestra d’ospedale.

 

Era così fastidioso; dirigersi a quell’ospedale, arrivare per la strada, vicino il parcheggio.

Guardare in alto.

Accennare un passo in avanti.

Poi, fermarsi; mentre le mani in tasca sembravano sudare un po’, e una spiacevole sensazione di agitazione gli smuoveva lo stomaco.

Allora alzava lo sguardo verso la finestra, e si diceva: “Oggi devo salire le scale. Salire ogni gradino, e raggiungere la camera di Saki”.

A quel punto aggrottava le sopracciglia, infastidito da tanta incertezza, e muoveva un altro piccolo passo, quasi deciso a non farsi vincere stavolta; però poi arrivava.

Quel senso di spossatezza che gli ricordava quella corsa forsennata, animata solo dalla paura, dall’ansia e dalla rabbia per un telefono che squillava a vuoto.

Finiva sempre col sentirsi troppo stanco persino per un mezzo passo in più: allora, paradossalmente, si voltava e faceva la strada a ritroso.

A quella stanza di quella finestra che guardava, spesso non si avvicinava nemmeno.

 

Ma cambiare era difficile,

perché troppe cose

gli ricordavano com’era una volta.

 

Tornava sui suoi passi, proprio come adesso.

Le mani ancora in tasca che, quasi volendosi prendere gioco di lui, erano tornate completamente asciutte nel momento stesso in cui si era allontanato da quel posto.

La mente, per assurdo, pareva completamente vuota in quella prima parte di tragitto; Masaomi vi si era fastidiosamente abituato.

Forse, in cuor suo, spesso faceva quell’avanti e indietro senza nemmeno entrare in ospedale solo per quello.

Quando aveva scoperto la sensazione di sollievo che, seppure per poco, lo coglieva finché non tornava nel centro delle vie trafficate di Ikebukuro, aveva pensato infantilmente: “Forse, questo tragitto non fa pensare a nulla”.

E dal momento che quando era solo non riusciva ma a “non pensare a nulla”, aveva fatto sì che quella specie di prassi divenisse meccanica; ogni tanto lo sfiorava il pensiero di andare in ospedale già deciso a ripetere quella piccola routine, senza la minima intenzione di entrarci fin dall’inizio.

Di solito ci pensava quando arrivava nei pressi della sessantesima strada.

Allora scuoteva la testa leggermente, piazzava su un sorrisetto scemo, e puntava una ragazza; una qualsiasi, perché non era importante chi fosse.

Una battuta da cascamorto, un sorrisetto complice, una frase scherzosamente melodrammatica.

Accolta da una risata, o da uno sbuffo seccato e un rumore di tacchi che si allontanano.

Nemmeno quello era importante.

 

Pensando che per lui fosse troppo difficile,

il ragazzo cercò una scappatoia.

Pensò che illudersi un po’:

dopotutto,

non avrebbe fatto male a nessuno.

 

Masaomi ricordava una frase, pronunciata da qualcuno che aveva dimenticato – o magari era stato lui stesso – a proposito dei Dollars. Gli tornava in mente spesso, ora che era di nuovo tra gli Yellow Turbans; come anche era tornata, meno apprezzata, quella sensazione di ansia e adrenalina che sentiva addosso quando nella strada intravedeva qualche membro delle altre gang.

Con i Dollars era tutto amplificato, perché non c’era un segno di riconoscimento, non c’era nessun colore; perciò forse, quella frase che gli tornava spesso prepotentemente in testa, era un modo che lui stesso sfruttava per darsi una certezza.

Un qualcosa che gli avrebbe permesso di riconoscerli, perché in fondo per loro era una delle regole del gioco: usciamo allo scoperto, rendiamoci visibili.

E vediamo chi vince.

Perché mai per i Dollars avrebbe dovuto essere diverso? – se vedi qualcuno che pensi possa essere dei Dollars, allora è probabile che lo sia.

Un po’ ignorò quella sorta di massima, un po’ la lasciò passare in secondo piano nella propria testa, mentre si avvicinava a quella ragazza qualsiasi, che gli avrebbe rivolto parole qualsiasi.

«Ooohi, signorina, il mio cuore si è commosso nel momento in cui il mio sguardo si è posato su di te, e il mio romantico animo adolescente ha deciso che non avrei potuto vivere senza conoscerti!» esclamò, con quel fare stupido che a volte rischiava di smascherarlo – Kida Masaomi, di rimorchiare, non aveva mai la minima intenzione in realtà.

La ragazza alzò lo sguardo, seduta sul bordo di quella fontana qualsiasi di Ikebukuro.

 

Mantenere viva un’illusione era difficile.

Il ragazzo pensò che non importava,

che quella ragazza alzandosi,

andandosene o assecondandolo,

ne decidesse le sorti.

 

«Perché?» fu l’unica parola che pronunciò, il tono pacato, inclinando appena il capo lateralmente.

Masaomi si ritrovò a perdere il sorriso un po’ scemo con cui gli si era rivolto, perplesso dalla domanda.

Lo ripristinò quasi subito, sebbene con una sfumatura di confusione inevitabile.

«Perché cosa?» le fece eco, quasi inevitabilmente.

Non rispose subito, e in quella pausa disturbata solo dai rumori della città trafficata Masaomi si prese qualche secondo per darsi la pena di osservarla.

Capelli e occhi scuri come un qualsiasi giapponese, un’altezza moderata come la maggior parte delle ragazze, un fisico nella norma come se ne vedevano in giro tanti da farti dubitare che a volte le persone fossero fatte con lo stampino come i dolci.

«Perché me?» chiese lei più chiaramente, limitandosi ad osservarlo con espressione quasi apatica che rendeva difficile capire se avesse posto la domanda per sincera curiosità o meno.

La vide alzare appena la mano e indicare dietro di lui, verso destra. Voltando la testa quanto bastava a dare un’occhiata da sopra la propria spalla, intravide un gruppo di ragazze.

Tornò a guardare lei, occhieggiandola pur rimanendo con la testa leggermente voltata; lei manteneva lo sguardo su quel gruppetto: «Hanno l’aria più allegra, amichevole e di chi ha voglia di uscire. Perché me?» chiese per quella che, alla fine, era la terza volta.

Masaomi le osservò nuovamente: probabilmente quella ragazza si riferiva agli abiti più colorati e “da uscita”, ai visi truccati anche se non necessariamente in maniera pesante, e ai risolini che provenivano da quel gruppo; forse, quella ragazza ricordava un pochino Anri. Solo più strana, più simile a…

Un gatto., si ritrovò a dare forma nella propria mente Masaomi, riscoprendosi ad incurvare le labbra divertito senza un motivo.

«Perché tu non hai l’aria allegra, amichevole e di chi ha voglia di uscire.» replicò quasi in una presa in giro, come fra amici di vecchia data: «Ma nonostante tutto non mi hai ancora mandato al diavolo.» aggiunse furbo.

Lei non fece una risatina divertita, ma lo osservò in un modo che Masaomi non seppe definire, nel quale tuttavia intravide una sfumatura di curiosità. Leggera, ma c’era.

«Va bene.» le sentì dire, mentre di nuovo lo lasciava un po’ confuso alzandosi in piedi senza aggiungere nulla che ne rivelasse le intenzioni.

«Va bene cosa?» chiese, quasi un’eco della domanda al suo “perché”, nemmeno fosse un gioco.

«Va bene, conosciamoci. Cosa vuoi fare?» chiese con tutta la naturalezza del mondo.

Che persona strana., pensò mentre ridacchiava per dare poi voce ad un: «Passeggiata! E poi seguirò l’impulso di questa passione improvvisa e inaspettata!»

 

Masaomi le aveva chiesto di fermarsi in un bar ad un certo punto, uno di quelli dove si poteva anche ordinare qualcosa da mangiare; uno qualsiasi sarebbe andato bene, ma lei aveva scosso la testa, indicando di fronte a sé: «Andiamo un po’ più avanti.» aveva detto.

Una, due, tre volte.

Poi, quando Masaomi aveva iniziato a chiedersi cosa passasse per la testa di quella strana ragazza, lei aveva indicato nuovamente di fronte a sé fermandosi.

«Entriamo qui.» aveva detto e l’attimo dopo Masaomi si era stupito nel riconoscere il ristorante di sushi dove lavorava Simon.

Non avevano mangiato granché, né parlato chissà quanto: lei non di certo, almeno.

Ad eccezione del piccolo dialogo con Simon quando erano entrati e avevano ordinato qualcosa, non aveva dimostrato di essere particolarmente chiacchierona.

«Oh, Masaomi! E anche Naho-chan!» era stato il saluto di Simon nel vederli, tramite il quale il biondo era venuto a conoscenza del nome della ragazza.

Lei aveva alzato una mano, semplicemente, e sul suo viso si era fatto largo un sorriso lieve, ma c’era stato – un attimo, per poi tornare all’espressione placida e disinteressata di prima: «Oss, Simon.» era stato il suo saluto all’uomo.

Dal momento che Simon alle loro ordinazioni aveva accennato, riguardo a lei, ad un “solito” Masaomi aveva immaginato – già intuibile dal saluto di lei in realtà – che andasse abbastanza spesso a mangiare lì.

Durante il tempo in cui avevano mangiato, Masaomi aveva parlato mentre lei per lo più ascoltava: in realtà non lo guardava, focalizzando la sua attenzione sul sushi che mangiava un po’ lentamente, intingendo i pezzi nella salsa di soia e wasabi1 in maniera quasi meticolosa.

Tuttavia annuiva ed un paio di volte – a battute piuttosto stupide – aveva alzato lo sguardo su di lui per qualche secondo.

«E allora si è creato questo triangolo amoroso da film del cinema! Lui, lei e il suo migliore amico! Cosa farà lui? Conquisterà lei ignorando i sentimenti dell’amico? Lascerà stare lei per onorare la loro amicizia? Aaaah, l’adolescenza e l’amore scolastico sono così complicati!» esclamò, camminando di qualche passo avanti a lei, senza una meta precisa visto che Naho non era voluta entrare nel conbini2 per prendere qualcosa da bere.

«C’è anche un’altra opzione per lui.» lo interruppe a sorpresa, facendolo rallentare abbastanza da farsi affiancare da lei: «Sarebbe?»

«Lasciar stare lei e mettersi con l’amico.» disse, rischiando di far inciampare Masaomi nei propri piedi: «Che?!» esclamò con una voce buffa tipica di chi ha appena rischiato un forte shock.

Cercò comunque di riprendersi – perché sia mai che qualcuno potesse dire di Kida Masaomi che non era cool con le ragazze – abbozzando un sorrisetto divertito: «Cos’è, sei una lettrice accanita di quei fumetti che piacciono tanto alle ragazze?» chiese, il tono scherzoso.

Lei scosse la testa, rallentando fino a fermarsi, indicando – com’era stato per il ristorante di sushi – un distributore automatico.

«Non è tanto strano.» pronunciò, facendo per dirigersi verso il distributore. Masaomi la fermò: «Faccio io.» canticchiò, andando a prendere due lattine.

Una volta di fronte a lei – seduta sul bordo di uno dei muretti che delimitavano alcuni bordi delle strade abbelliti da piante che potessero spezzare la monotonia di macchine e asfalto – gliene porse una facendole l’occhiolino, complice.

Si sedette quindi di fianco a lei, aprendo la lattina e bevendone un generoso sorso, dopo il quale diede voce ad un: «Aaaah.» soddisfatto.

Notò che lei teneva ancora la sua fra le mani: «Non ti piace?» chiese, vedendola dirigere lentamente lo sguardo verso di sé.

«Mi piace. Ma se bevo cose troppo fredde poi mi fa male lo stomaco.» spiegò, facendo sì che il biondo ricollegasse la sua posizione al voler riscaldare il contenuto della lattina.

«Cosa non è strano?» chiese lui, riferendosi a quanto detto da lei prima.

«Un maschio che si mette con un maschio. O una femmina che si mette con una femmina.» replicò lei, impersonale.

Masaomi alzò appena un sopracciglio: «Tu… sei un po’…?» azzardò, ritrovandosi a ricevere uno scappellotto leggero sulla nuca, sorprendendosene.

«Mi piacciono i maschi. E comunque non si dice “un po’ gay”. Non è mica come una pietanza, che è “un po’ salata”.» lo riprese, completando inconsapevolmente il quadro di se stessa formatosi nella testa del biondo per tutto quel tempo.

Masaomi tacque mentre la osservava: d’aspetto quella ragazza sembrava come una ragazza avrebbe dovuto essere.

Minuta e dall’aria timida e fragile; anche l’abbigliamento un po’ lo suggeriva, forse dandole anche un’aria infantile – pantaloni al ginocchio, maglia un po’ più lunga della vita e un cappello di quelli molto da Karuizawa e Yumasaki, da otaku, con le orecchie sulla parte alta anche se nel suo caso non davano molto nell’occhio.

Però l’atteggiamento era un po’ strano, per una ragazza: era un po’ scostante, era capace di non parlare per un sacco oppure partire con discorsi come quello.

Non aveva dato a Masaomi molta confidenza fino a quel momento, poi però se ne prendeva tanta da dargli uno scappellotto come solo un amico di vecchia data avrebbe fatto.

In lui si rafforzò la sensazione di una certa somiglianza tra quella ragazza e un gatto che può farti le fusa quanto graffiarti nell’arco degli stessi cinque minuti.

Sorrise divertito: dopotutto lo sapeva, che Ikebukuro era piena di gente strana.

 

Il ragazzo pensò che la ragazza

avesse l’aria di qualcuno

né particolarmente felice,

né particolarmente triste.

 

«Com’è che ti chiami?» le sentì chiedere, ritrovandosi inevitabilmente a ridere una manciata di secondi dopo: «E me lo chiedi soltanto adesso?» le fece notare.

«Prima non m’interessava. Uno che ti avvicina come hai fatto tu di solito non è affidabile. Però ho aspettato per vedere se mi sbagliavo o no. Siccome ti sei comportato bene e Simon ti conosce, penso che tu non sia uno con strane fissazioni o passatempi. Perciò adesso mi interessa.» spiegò lei, limpida.

Masaomi sorrise tra il furbo e il divertito: «E se invece Simon non ne sapesse nulla e io fossi davvero uno con qualche idea strana?» ipotizzò tranquillo, osservandola incuriosito dalla reazione.

Lei aprì la sua lattina finalmente, tenendola con entrambe le mani e portandola alle labbra. Dopo averne bevuto un sorso rispose, pur senza voltarsi a guardarlo: «Sei troppo lento nel metterla in pratica per esserlo davvero secondo me. Comunque, se lo fossi… non lo so. Non riesco a pensare al panico ora come ora. Magari inizierei ad avere paura davanti al fatto compiuto.» se ne uscì.

Masaomi alzò le mani in segno di resa: «Mi arrendo, mi arrendo. Tu sei proprio una tipa che non si scompone per nulla, eh? Naho-chan è così cool!» esclamò lui in risposta.

«Non è carino da dire ad una ragazza3.» gli fece eco lei, fissandolo: «E comunque sei solo stato sfortunato. Qualche tempo fa magari ti avrei preso sul serio. Pessimo tempismo, senza nome-san.» concluse bevendo un altro sorso.

Lui rise: «Kida Masaomi.» la corresse.

Lei alzò lo sguardo su di lui, senza mutamenti particolari dell’espressione: «Masaomi-kun, allora.»

 

In quel momento, si risvegliò dall’illusione,

perché anche Saki aveva pronunciato,

tempo addietro,

quelle parole.

Ma fu solo un attimo; poi vi sprofondò nuovamente.

 

Camminavano da un po’ facendo la strada a ritroso.

Alzandosi dal punto in cui si erano fermati a bere dalle lattine, la ragazza aveva dichiarato di dover tornare a casa. Masaomi, senza chiedere aveva preso a seguirla per accompagnarla.

Non era un tipo particolarmente galante e, oltretutto, non cercava mai di rimorchiare davvero.

Nemmeno ora.

Ma Naho era una persona un po’ strana, non era nemmeno totalmente classificabile tra le ragazze intese come possibili interessi fisici o sentimentali; anche se non avrebbe saputo dire con precisione quale sensazione gli desse.

Avevano camminato per un tratto in silenzio, fino al punto in cui erano ora, meno trafficato e che si spostava verso le vie con condomini e case modeste.

Più silenziose e illuminate da pali della luce che non si avvicinavano molto all’illuminazione del centro, parevano deserte nonostante fosse un orario ancora accettabile.

Tuttavia lui non le aveva chiesto nulla riguardo possibili lamentele dei suoi genitori in merito, non ne aveva visto l’esigenza: dopotutto, era solo una ragazza qualsiasi a cui aveva chiesto come sempre un tacito aiuto.

Anche se lui per primo sapeva che dimenticare Saki non era possibile.

Aveva già provato, volta dopo volta, ritrovandosi a fallire miseramente ognuna di esse.

«Tu sei il Kida Masaomi che era negli Yellow Turbans, vero?»

La domanda arrivò così improvvisa e inaspettata che Masaomi avrebbe preferito una secchiata di acqua gelida addosso; aveva abbassato totalmente la guardia in quel senso e si ritrovava ora con addosso un’agitazione improvvisa e incontrollabile, mista ad un senso di colpevolezza per il solo essere appartenuto alla gang citata dalla ragazza.

Inoltre, lo avevano assalito simultaneamente dubbi diversi, tra i quali spiccava quello che si chiedeva come lei potesse saperlo; era entrato nel panico senza quasi accorgersene, scivolandovi ad una velocità troppo elevata ed immediata per potersene rendere conto abbastanza in fretta da calmarsi ed evitarlo.

Notò che lei si era voltata, e ritrovò nella sua figura che pure non aveva nulla di particolare che denotasse cambiamenti di espressione o di emozioni qualcosa di Saki.

Forse stava impazzendo.

Forse Orihara Izaya aveva ragione sostenendo che Saki sarebbe divenuta il suo personale Dio; senz’altro, era un’ossessione.

Quella per la quale non provava interesse in nessun’altra.

Quella per la quale non riusciva a liberarsi del passato e di quel senso di inadeguatezza che non gli faceva mai oltrepassare la soglia di quel maledetto ospedale.

«Tu chi sei?» domandò guardingo senza poterlo evitare, come se dovesse difendersi da qualcosa.

Lei non parve stupirsene.

«Ho sentito il tuo nome, quando ho incontrato gli Yellow Turbans. Tu però non c’eri già più. Quella volta qualcuno diceva che “se ci fosse il Generale, non agirebbe così!”. E qualcuno rispose: “Kida Masaomi non decide più per noi, ora che se n’è andato!”. » spiegò, anche se non rispondeva davvero alla domanda del biondo.

Alla quale, come se se ne fosse ricordata solo in un secondo momento, rispose con: «Fukada Naho.»

A quel nome, Masaomi cercò di fare mente locale, senza riuscire ad estrapolare nulla del suo periodo subito dopo aver lasciato la gang che lo ricollegasse in qualche modo alla ragazza di fronte a sé.

Strinse i pugni senza quasi rendersene conto, mentre gli unici ricordi che gli tornavano in mente erano il senso di impotenza provato a pochi passi dal covo dei Blue Square dove aveva abbandonato Saki, le lacrime di fronte al gruppo di Kadota-san, e il terrore puro di affrontare qualcuno che ha rischiato di morire a causa tua.

Qualcuno così ossessionato dall’uomo che quella volta, quell’unica volta in cui avresti fatto di lui il tuo punto di riferimento, non aveva risposto al telefono e al quale aveva addossato una colpa che forse c’era.

Ma forse no.

E quello era la consapevolezza peggiore di tutte le altre che ancora lo inchiodavano a terra, in quel momento, vicino a quel parcheggio sotterraneo.

Anche un anno dopo.

«Non ci siamo mai incontrati.» andò Naho in suo aiuto; Masaomi la osservò, l’espressione ancora seria e sospettosa nonostante fosse portato a crederle per il semplice fatto che non riconosceva alcuna menzogna nelle sue parole.

«Come hai avuto a che fare con gli Yellow Turbans?» domandò, mantenendo lo sguardo su di lei, chiedendosi se non fosse stata un membro per qualche breve periodo dopo che lui aveva già mollato tutto.

Lei lasciò passare un po’ di tempo, rimanendo in silenzio, quasi soppesando se dire o meno la verità o semplicemente se rispondere o no al biondo che le stava di fronte.

Optò per un sì, probabilmente, visto che pronunciò: «Il mio migliore amico ha avuto a che fare con loro.» con tono atono.

Masaomi non riuscì a rilassarsi particolarmente a quelle parole.

«Se gli hanno fatto qualcosa e cerchi la vendetta per il tuo amico, io non ne so più niente ormai.» disse, anche se non era proprio vero.

Lo avevano appena trascinato di nuovo in tutto quello, ancora una volta, nonostante la sola idea gli facesse accapponare la pelle e rivoltare lo stomaco.

«E cosa pensi che me ne farei, della vendetta?» chiese di rimando, fissandolo.

La voce non aveva assunto particolari tonalità rispetto a quella con cui Naho aveva parlato fino ad allora, tuttavia a Masaomi era parsa più secca, in qualche modo.

«Anche perché scatenerei qualcosa di cui non voglio essere la causa. Se un membro di una gang si vendicasse in modo così stupido, non otterrebbe nient’altro che un grosso casino.» osservò, destando l’attenzione del biondo.

«Membro di una gang? Tu?» chiese infatti osservandola, le mani portate entrambe in tasca.

E in quel momento, quando la sensazione di una persona in qualche modo particolare di fronte a sé si mescolò a quella frase che ultimamente si ripeteva nella mente e aveva ignorato poco prima di incontrarla, Masaomi trasalì.

«Dollars.»

E quella parola confermò il pensiero che aveva preso forma in quel preciso istante.

Certo che sarebbe stato un gran casino, se una dei Dollars si fosse vendicata dell’ex “generale” degli Yellow Turbans, per di più appena tornato operativo all’insaputa dei più.

«Akira» riprese, e Masaomi suppose che parlasse dell’amico in questione: «aveva avuto dei problemi con quella gang. Allora un giorno, mentre tornavamo da scuola, li abbiamo incontrati, alcuni tipi che portavano bandane di quel colore.» iniziò lei.

Masaomi deglutì: sentiva che non gli sarebbe piaciuto affatto, perché somigliava a qualcosa di familiare.

Troppo, tragicamente familiare.

 

Il ragazzo pensò,

per un folle attimo d’impulsività,

di fuggire lontano da lei.

Dalla ragazza che raccontava di un ragazzo che,

finito nei guai con una gang,

ne aveva subito le conseguenze,

vedendosi divenire la causa del dolore della persona cara.

 

 

«Hai saputo? Ho sentito che Fukada della sezione D è stata assente per un sacco di giorni e che è tornata in uno stato strano.»

«Che vuol dire in uno stato strano?»

«Beh, non so se la conosci, ma io ci ho parlato diverse volte per il club. Sembra che non le importi più nulla di niente, da quando è tornata. Ci guarda quasi con superiorità.» spiegò la compagna, mentre sia lei che le sue interlocutrici guardavano in direzione della ragazza di cui stavano parlando, che passava in quel momento per il corridoio.

«Ma dai, proprio Fukada-san? Sei sicura?» chiese una, perplessa.

«Ti dico di sì. Ha pure lasciato il club.» confermò con l’aria di chi la sapeva lunga.

Fukada Naho non era il tipo da essere sulla bocca di tutti come in quel momento, pertanto era probabile che molti si aspettassero che da un giorno all’altro cedesse: non era certamente in grado di fronteggiare una situazione in cui si ritrovava al centro di chiacchiere continue.

«E poi, non sta più con Kitagawa-kun. Si comportano come due estranei.»

«Ma dai, se sono amici di infanzia e Kitagawa-kun è il suo migliore amico!»

«Tu non li vedi in classe. Quando Fukada-san è entrata l’altra mattina lui non l’ha nemmeno salutata. Lei ha guardato verso di lui, ma non ha detto nulla e così per i giorni seguenti fino ad oggi. Me l’ha detto un’amica che è in classe con lei.» continuò, assicurando l’attendibilità delle sue fonti.

Fukada difficilmente avrebbe potuto guardarle con superiorità e non per quello aveva quell’atteggiamento scostante; tuttavia, da quando era tornata non si era data pena di spiegarsi, lasciando che ognuno credesse cose diverse fino a mescolare tanto le possibilità da non sapere più quale fosse la verità.

Non aveva nemmeno più parlato con Kitagawa Akira, perché lui le aveva chiesto di non farlo; implicitamente, quando quella sera una gang dagli indumenti gialli aveva fatto scontare al ragazzo un torto nei loro confronti in un modo molto da film americano.

Ma soprattutto, l’aveva silenziosamente supplicata quando al suo ritorno a scuola non le aveva nemmeno rivolto la parola.

Lei aveva rispettato al sua decisione: non perché volesse passare per l’eroina o la persona comprensiva in tutta quella faccenda.

Aveva solo pensato che fosse giusto.

E che, dopotutto, non fosse poi così importante, né così strano.

…No?

 

 

«Grosso modo, è così che è andata.» concluse, il tono tutto sommato placido a fine del racconto che Masaomi le aveva chiesto per chiarire la situazione in cui versavano – quanto doveva effettivamente temere un membro dei Dollars che lo conosceva e che sembrava aver avuto a che fare con la sua gang in maniera non troppo piacevole?

Ma Masaomi non vedeva lei; sembravano più accuse di Saki, la cui immagine si sovrapponeva a quella di Naho, nonostante non si assomigliassero nemmeno vagamente.

Aveva ascoltato in silenzio di come, tornando da scuola, quel giorno avessero sorpreso lei e Kitagawa-kun, finendo con l’obbligarli a seguirli.

Di come aveva scoperto che Kitagawa-kun, chissà come e quando, oltre ad essere entrato in contatto con persone come quelle aveva fatto in modo di indispettirle tanto da provocare una reazione del genere; aveva visto – per quanto fosse possibile nel locale in cui erano finiti a discutere, illuminato da luci al neon fastidiose e un po’ accecanti – picchiare Akira.

Era stata sorpresa, all’inizio, aveva detto: perché Akira era figlio di una buona famiglia, che si supponeva quindi non si sarebbe mai dovuto nemmeno avvicinare ad un ambiente come quello delle gang.

Aveva ammesso di essere stata terrorizzata, quella volta, da quei tizi che vestivano indumenti gialli e che ad un certo punto avevano detto ad Akira: «Allora ce la prenderemo con la tua ragazza.»

Non c’era stata alcuna violenza di tipo sessuale, aveva assicurato.

Qualche molestia vaga, accennata più per spaventare che non per reale intento: c’erano state più percosse, in verità.

Ma quello che ricordava, aveva detto Naho – Masaomi aveva codardamente abbassato lo sguardo molto prima che il racconto giungesse a questo punto – era lo sguardo terrorizzato di Akira.

«Per questo, tornata a scuola non abbiamo più parlato.» aveva detto quasi a conclusione del racconto: «Penso che non potesse più funzionare comunque, un’amicizia come la nostra. Guardandomi, lui temeva che si sarebbe scoperto che nonostante le origini e la famiglia alle sue spalle aveva a che fare con le gang. Io, quando lo guardavo, finivo per ricordare troppo bene lo sguardo di Akira che mi aveva spaventata tanto.» aveva spiegato.

Masaomi aveva stretto i pugni per riflesso, chiedendosi se non fosse destino il suo; sfuggire a Saki e ritrovarsi a parlare con qualcuno che le somigliava intimamente, più che per un aspetto totalmente dissimile.

L’esperienza, le analogie e la stessa bieca, codarda fuga del responsabile.

Quell’Akira in un altro contesto lo avrebbe sicuramente biasimato ad alta voce, sostenendo che se lo avesse incontrato lo avrebbe volentieri picchiato.

Ma si rendeva poi conto che non c’era “un altro contesto”, ma solo quello in cui erano in quel momento e che esso implicava che lui non potesse azzardare alcuna azione e alcun parere; lui e Kitagawa-kun erano uguali dopotutto.

Erano scappati entrambi.

Solo, Kitagawa-kun non era mai tornato, mosso probabilmente da una paura molto simile a quella che inchiodava Masaomi al passato.

«Forse capisco perché dici che non ce l’hai con me. Perché effettivamente io non c’ero. Ma non dovresti essere a disagio sapendo chi sono?» la interrogò, ancora senza alzare lo sguardo su di lei – era più forte di lui – il tono serio così inusuale per Kida.

«Perché hai accettato di venire?» chiese più schietto.

Lei – anche se il biondo non poté notarlo – lo osservò: «Perché dovrei avere paura di qualcuno che non riesce nemmeno a guardarmi in faccia mentre parla?» domandò di rimando, il tono che era morbido nonostante le parole fossero dure, secche.

Masaomi trasalì a quella domanda, anche non visibilmente.

E rise, una risata sommessa e bassa, fatta di sarcasmo e con una nota di disprezzo che era fin troppo facile da interpretare come quel tipo di biasimo che si indirizza a se stessi.

«È colpa tua, che assomigli troppo ad un’altra persona.» replicò; poteva sembrare una risposta infantile, ma era forse la cosa più sincera che Kida Masaomi avesse mai detto ad una ragazza con il medesimo ruolo di Naho – quello del personaggio secondario che cerca di sviare l’eroe dalla sua missione, o che cerca di diventare importante per il protagonista senza riuscirvi, destinata al fallimento. Era il ruolo che tutte le ragazze avevano per Kida Masaomi.

Anche Sonohara Anri.

Anche se non lo diceva e giocava al triangolo amoroso con Mikado.

«Siamo pari. Anche tu somigli ad Akira.» se ne uscì lei, sorprendendolo al punto tale da fargli alzare istintivamente lo sguardo sul viso della ragazza.

Lei parve soddisfatta dal proprio operato che le aveva permesso di far sì che almeno non fosse costretta a guardare la testa del biondo anziché la sua faccia mentre parlavano.

«Come fa una persona che viene picchiata da una gang ad entrare in una gang a sua volta?» chiese con tono sommesso, quasi stesse pensando ad alta voce più che chiedendo a lei: «Perché sembra come se voi non incolpaste chi ne è stato la causa?» aggiunse, parlando al plurale senza nemmeno accorgersene.

Perché lei e Saki perdonavano, o non incolpavano, quasi fingendo che non fosse accaduto?

Nonostante il modo quasi diametralmente opposto di reagire, alla base c’era quella noncuranza inaccettabile, fastidiosa.

Completamente innaturale.

«Ho pensato che non ci fosse nulla di strano. E poi i Dollars sono una gang che, secondo me, non è una gang. Non per come la intendono tanti.» replicò criptica forse, riferendosi all’assenza di regole di quel gruppo probabilmente, che lo rendeva diverso dagli altri.

Almeno in parte.

«Non c’è bisogno di incolparvi. Lo fate già da soli.» riprese, osservandolo con un misto di chi sta studiando le tue espressioni per capire, e di chi guarda qualcosa di già visto.

«Mi chiedo se tu sia come lui con la persona a cui somiglio. Però a te non lo chiederò. Tu non mi hai chiesto come va ora con Akira.» gli fece presente, come se quello fosse da considerarsi un qualcosa per cui dimostrare gratitudine al biondo.

Masaomi abbassò lo sguardo; sorrise e basta, di quel sorriso che Anri e Mikado probabilmente non avrebbero visto mai.

«Come va ora con Kitagawa-kun?» chiese, quasi volesse farlo per ripicca senza darsi la pena di nasconderlo.

Naho alzò un sopracciglio perplessa, fissandolo forse per la prima volta con un’espressione non totalmente apatica.

 

Sapeva di poter sembrare crudele,

nel fare quella domanda.

 

Tuttavia qualcosa nella sua mente,

guidata forse dalla pressione che quel passato esercitava su di lui,

gli aveva suggerito quella specie di gioco,

tipico più di persone come Izaya, che non come lui:

 

esorcizziamo il peggio di noi,

attraverso il peggio degli altri.

 

Osservò il pc caricare la pagina, indeciso.

Non era del tutto convinto di volerlo fare; gli ultimi giorni erano stati di quella piattezza che arriva implacabile dopo che qualcosa ti ha smosso dentro con tutte le sue forze lasciandoti privo della voglia di fare qualsiasi cosa, completamente spossato.

Scosse la testa, alla fine: che cavolo, da quando si faceva tutti quei viaggi mentali inutili? – tutti quei problemi erano tipici di Mikado, non suoi.

Digitò la password, accedendo alla chat e vedendo il primo messaggio che appariva sempre automaticamente quando qualcuno faceva il login.

Bakyura è entrato in chat, lesse meccanicamente, visto che non era la prima volta che vi accedeva.

Notò quasi subito i saluti istantanei al suo ingresso di Tanaka Tarou, Kanra e Setton-san – a volte si chiedeva se avessero una vita o essa fosse principalmente su quella chat…

Ricambiò velocemente, dando un’occhiata agli altri presenti – un paio, di cui uno sembrava non scrivere da un po’.

Con la scusa di allontanarsi un attimo dal pc, rimase in realtà a leggere passivamente i commenti per diversi minuti in cui i soliti argomenti avevano animato lo scambio di opinioni fra gli altri utenti – di nuovo la storia del tizio che andava ferendo gente in città a quanto pareva.

Si lasciò cadere all’indietro, fino a poggiarsi di peso contro lo schienale, lo sguardo al soffitto.

Non importava quanto ci pensasse, alla fine si tornava sempre allo stesso punto.

Akira? Lui è ancora il figlio di buona famiglia che non frequenta certi ambienti, aveva risposto Naho quando erano ormai arrivati nei pressi di casa sua – non pareva arrabbiata, e Masaomi non sapeva dire se questo lo avesse spaventato o irritato, ma probabilmente erano accadute entrambe le cose .

Poi, sulla porta, quella ragazza che era stata e sarebbe rimasta una qualsiasi a cui aveva fondamentalmente chiesto di allontanarlo per un po’ da un problema chiamato senso di colpa aveva abbozzato il sorriso più terrificante del mondo.

Quello che diceva che dal senso di colpa non c’era scampo, e confermava parole che non voleva sentire mai – Izaya-san ha detto così – pronunciate da un uomo che siccome non credeva in Dio, allora si fingeva candidato alla sua carica giocando a fare l’oracolo.

Però in una cosa non vi somigliate affatto, gli aveva detto, Akira-kun una volta che ti volta le spalle, non torna più indietro.

Suonava come un complimento; perché lui quelle spalle non le aveva ancora voltate.

 

Il ragazzo, cercava di cambiare un poco alla volta.

Ma la sua realtà era come un cerchio:

non si interrompeva mai.

 

Ma in realtà quella era… una condanna, giusto?

 

Due parole dell’autrice

 

Innanzitutto grazie a Gioielle e LitaChan per aver commentato “Omoshiroi”.

Quanto a questa shot, l’intento era distruggere con un po’ di sane pare mentali Kida: Saki reagisce in un modo un po’ particolare a quanto le succede (merito delle panzane di Izaya immagino x°) e mi stuzzicava l’idea di farlo confrontare con qualcuno di passeggero, che magari non incontrerà mai più, che poteva aver reagito in modo totalmente diverso e quasi paradossale.

…Ho idea di non esserci riuscita granché.

Ma dal momento che mi sono ripromessa di non cestinare nulla finché è leggibile almeno per la grammatica, ho deciso che la pubblico comunque.

Mazzolatemi fino a farmi piangere, se me lo merito e_e *fa puff*

   
 
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