The Bitter End
Capitolo
4: Help Me Parte I
Princeton
Plainsboro Teaching Hospital. Ufficio del
Primario del Primario. Ore 17:45
Si fermò
qualche secondo fuori dalla porta dell’ufficio di Cuddy. Lo
studio era aperto,
ma le tende erano tirate per nascondere ciò che succedeva
all’interno. Puntò il
bastone sulla porta ed entrò, come al solito, senza bussare.
Cuddy gli dava le spalle. La tuta blu scuro le copriva le gambe, mentre
la
camicia rosa le copriva il busto. Nel sentire la porta aprirsi, si
voltò e lo vide
camminare verso di lei.
“Un edificio è crollato, ci sono feriti, parto con
la squadra di soccorso”
“La cosa non mi interessa. Tieni”
House le porse un involucro ocra, lei lo prese senza dare attenzione a
ciò che
poteva contenere. Aprì la busta e ne estrasse il pesante
contenuto. Osservò la
copertina del libro, e la accarezzò lentamente, come se
facesse arte di un
veccio ricordo. Lesse con attenzione ciò che vi era scritto:
“Introduzione alle malattie
dell’addome
acute” di Ernest T. Cuddy.
“Il mio bisnonno…”
“E’ solo un vecchio libro…”
Cuddy lo guardò sorpresa mentre House timidamente
gesticolava.
“Aprilo…”
A Lucas E Lisa
per un nuovo inizio…Greg
A Cuddy si gelò il sangue delle vene. I suoi
polmoni cominciarono a farle
male quando si accorse che non stava respirando. Rilesse quelle righe,
scritte
con la calligrafia dell’uomo che le stava di fronte in quel
momento. Le lesse
attentamente per una decina di volte, ma le parole sfuggivano alla sua
attenzione, girovagavano nella sua mente senza una meta precisa. Era
confusa,
tra l’ennesima confusione causata da uno che poteva sembrare
il gesto più
normale in una circostanza del genere. Ma quella non era una
circostanza
normale, come non lo erano quelle due persone che si contendevano lo
sguardo.
Cuddy ruppe il silenzio, fu l’unica ad esserne in grado.
“Cosa sarebbe questo? Un modo per darci la tua
benedizione”
House la guardava quasi dolcemente, come se il suo lato umano si fosse
fatto
rivivo nuovamente nella sua anima confusa. La osservava. Vedeva le sue
rughe
d’espressione e le apprezzava. Avrebbe voluto fare un
commento, per farla
arrabbiare e innervosire, invece rimase a fissare quelle linee che
marcavano la
sua pelle e che la rendevano ancora più bella. House fece un
respiro profondo,
ripensando al discorso che già si era preparato.
Perché per le poche volte che
si trovava con lei, lui doveva già programmare tutto o
avrebbe fatto scena
muta, preso dalle emozioni e dalle delusioni.
“E’ un grande passo quello che stai per fare.
Voglio solo congratularmi con te,
con voi due. Lo so che può essere vista come la cosa
più stupida, ma…”
Cercò di moderare il suo tono di voce, cercò di
renderlo il più vero e
cordiale. Più vero, pensava di poter autoconvincersi che
quello a cui Cuddy
stava andando incontro sarebbe stato il meglio per lei. Una vita senza
di lui.
Lei sarebbe andata a vivere con Lucas, non avrebbe avuto più
tempo per lui. Lo
avrebbe ritenuto uno dei suoi dipendenti, ma dopotutto lui era uno dei
suoi
dipendenti. Lui non era più speciale per lei, ma ancora lo
sperava.
“Come fai a saperlo?”
Cuddy non smise di fissarlo. Rigirava il libro nelle sue mani, mentre
con lo
sguardo ripercorreva per l’ennesima volta i lineamenti del
visi del diagnosta.
Ormai li conosceva a memoria. Avrebbe potuto descriverlo nei minimi
particolari.
Solo gli occhi, non poteva descriverli. Quegli occhi erano solo i suoi,
non
aveva mai trovate le parole giuste per descriverli. Si era solo
limitata a
perdersi dentro quell’immenso oceano di pensieri.
“Ho le mie fonti qui in ospedale e la voce gira da un
po’ di tempo. Se le mie
fonti sono corrette, beh. congratulazioni”
Cuddy si girò dandogli nuovamente le spalle,
cercò velocemente di rivestirsi,
ma le risultò impossibile. House la aiutò.
“Grazie…”
House notò il suo tono di voce. Ora cercava di evitarlo.
Biascicò quel grazie e
non alzò più lo sguardo finchè non lo
superò di qualche passo.
“Problemi in paradiso?”
“No, tutto è incantato come al solito”
Cuddy uscì dalla porta, lasciando il diagnosta a contemplare
l’ufficio vuoto.
Lanciò un ultimo sguardo alla scrivania e al libro che
giaceva chiuso sul
margine. Prese le chiavi della sua moto dalla tasca. Avrebbe scoperto
quale era
il problema di Cuddy. Avrebbe scoperto a cosa era dovuto il suo
comportamento
così distante. L’avrebbe
potuta aiutare,
se lei lo avesse voluto, se lui ne fosse stato capace.
Luogo
del crollo. Ore 20:00
House spense il motore della sua Honda. Intorno a lui regnava il caos.
Gente
che urlava, piangeva e si dimenava nel buoi. Rantoli di terrore, gente
folle
dalla paura che si accasciava al suolo perdendo conoscenza.
Allargò il suo
campo visivo. Cercò una tuta blu scuro, tra le altre. I
soccorsi erano giunti
già da un pezzo, ma lui imperterrito cercava Cuddy. La vide
fasciare il braccio
di un uomo sulla quarantina.
Lei alzò lo sguardo per incontrare quello di lui.
Aspettò che si avvicinasse.
La sua voce, si fece largo oltre le urla.
“House, abbiamo bisogno di una mano qui.”
Gli indicò la fila di persone sedute in parte ad una delle
ambulanze. Volti
pieni di sangue, braccia rotte. Gemiti di dolore.
“Come può aiutare uno zoppo?”
“Non giocare la carta dello zoppo. Hai due mani, puoi
aiutare”
Il diagnosta si allontanò da lei, camminò
lentamente portando con se uno
stetoscopio. Si sedette di fronte ad una donna sulla ventina. Il sangue
secco
le macchiava la fronte fino alla guancia. Lo sguardo spento cercava di
percepire ogni singolo movimento in parte a lei.
“Come ti chiami?”
La donna non gli rispose, ma rimase a fissarlo impaurita.
“Sai dove sei?”
Rimase a fissarlo senza dire una parola.
“Mi riesci a sentire?”
Niente. Rimase immobile.
“Cuddy, questa deve essere portata in ospedale.”
“Tutti vanno portati in ospedale”
“Se non va subito in ospedale il suo cervello
fuoriescerà dal suo cranio”
“Mettila sulla prima ambulanza pronta a partire, ma sia
chiaro: tu rimani qui!”
Dopo aver aiutato uno dei paramedici a caricare la ragazza sul veicolo,
House
si avvicinò di nuovo a Cuddy.
“Ci sono problemi con Lucas?”
“Possiamo parlarne in un altro momento. Magari più
tardi?”
Cuddy riprese a medicare il paziente, mentre House testava i riflessi
di
questo.
“Adesso è passato un po’ di tempo.
Allora c’è qualche problema?”
“No, nessun problema. E’ tutto ok. Anzi, direi che
va tutto più che bene”
Gli sorrise, come per convincerlo. Ma Cuddy sapeva che non avrebbe
dovuto
convincere lui, ma avrebbe dovuto convincere se stessa.
“Allora perché questo tuo comportamento
strano?”
“House, aspetta.”
Si girò verso uno dei medici alle sue spalle, gli disse
qualcosa e poi afferrò
House per un braccio e lo portò lontano dal caos.
“House, quando tu mi hai dato il libro, non pensavo fosse un
regalo per, come
posso dire, darmi il benvenuto in una nuova casa, ma pensavo fosse un
regalo
per il mio matrimonio”
Il diagnosta rimase a guardarla. Si perse nell’espressione
del suo viso. Era
seria, non lo stava prendendo in giro. Era sincera.
“L’anello…”
“E’ nel mio ufficio.”
“Ma prima non…”
“Sapevo che sarei venuta qui, perciò
l’ho lasciato nel cassetto. E’ successo
l’altra sera.”
“Ok…”
House si allontanò, lasciando Cuddy a fissarlo. Con ogni
passo si allontanava
da lei e dalla realtà circostante. Non sentiva alcun rumore,
la sua mente era
concentrata su quella strana emozione. Si sedette sui resti di un muro
crollato. Trattene il respiro per qualche secondo poi
respirò profondamente. Sarebbe
cambiato tutto da quel momento. Lui sarebbe stato il Dr House, lei la
Dr Cuddy.
Niente battibecchi, niente scherzi. Solo lavoro. Solo richieste
improvvise, urla
e poi lui se ne sarebbe tornato nel suo ufficio con un nuovo esame da
fare pur
di accontentare il primario e non perdere il posto.
Perso nei suoi pensieri, vide Cuddy massaggiarsi le tempie e
raggiungerlo.
“Avrei preferito che tu lo sapessi in un altro modo”
“Pensavo tu non volessi dirmelo”
“Non sarebbe stato giusto”
Rimasero in silenzio per qualche minuto. Lui rimase seduto, mentre
Cuddy
camminava di fronte a lui in cerchio.
“Credo che dovremmo tornare a lavoro. Le persone non escono
dalle macerie da
sole”
Cuddy annuì sommessamente e si allontanò. House
si alzò, ma qualcosa lo fece
fermare. Sentì un rumore sordo. Come lo sbattere di metallo
contro altro
metallo.
“Cuddy, c’è qualcuno qui sotto”
“Cosa?”
“Ho detto che c’è qualcuno qui
sotto”
“Come fai a saperlo?”
Di nuovo quel rumore. Questa volta più forte tanto da far
sobbalzare Cuddy.
“Chiamo la squadra”