Storie originali > Avventura
Segui la storia  |       
Autore: cabol    23/05/2010    1 recensioni
Una locanda di un piccolo borgo isolato da una tormenta di neve diventa teatro di misteriosi fatti di sangue.
«Cosa cambia? Innocenti o colpevoli. Io non credo che volessero davvero uccidere. E poi, chi è davvero innocente, a questo mondo? Che differenza c’è fra un morto assassinato e uno giustiziato? Il primo muore nascosto, il secondo offre un edificante spettacolo alla popolazione. E quanti sghignazzano, davanti a quell’agonia! Chissà se a loro interessa se si tratta di un colpevole o un innocente… forse gli basta soddisfare la propria sete di sangue. Ma un morto è sempre un morto. No, amico mio. Uccidere mi fa orrore. Fare uccidere, altrettanto».
Un'avventura fantasy secondo i canoni del mistery.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 2

Capitolo 2: Sangue sulla neve

Deckard si svegliò – o, per dir meglio, fu svegliato – prima del solito, quel giorno. Era mattiniero per lunga abitudine ma stavolta qualcuno doveva esserlo stato più di lui perché in strada si udivano voci concitate. Bestia. Cercò di allontanare i fumi del sonno e tese l’orecchio. Due voci. Troppo confuse per capire qualcosa. Solo quella parola gli era giunta chiaramente: bestia. Che bestia? Di cosa stavano parlando? Cercò di riprendere sonno ma la curiosità e l’istinto lo spinsero a chiedersi cosa stesse accadendo.

Si alzò silenziosamente dal pagliericcio e si avvicinò alla finestra. Le voci erano sempre confuse. Provò a scostare gli scuri e subito la luce bianchissima e gelida dell’alba innevata irruppe nella camera. Ammazzata. Chi era stata ammazzata? Il suo compagno si voltò verso il muro e si avvolse più strettamente nel mantello. Come diavolo facesse quello a dormire placidamente ovunque si trovasse, era un mistero che aveva sempre incuriosito il barbaro. Come era possibile che un sofisticato damerino si trovasse a proprio agio praticamente dappertutto? Quel mattino, comunque, era più attratto da quel che accadeva in strada. Due uomini, evidentemente abitanti del villaggio, erano riuniti nella piazzetta del pozzo, a pochi metri dalla locanda, e parlavano fra loro come se fosse accaduto qualcosa di straordinario. Nulla da fare, non si capiva che qualche parola smozzicata. Ormai il sonno era scomparso e la curiosità scatenata. Si vestì rapidamente, prese il mantello e fece per uscire.

«Che diavolo succede? Deckard, ci sono problemi?». Il giovane aristocratico si era seduto sul letto e lo guardava con aria perplessa, ammiccando. Ancora semiaddormentato, pareva abbagliato dal riverbero della luce del mattino.

«Deve essere successo qualcosa di strano, al villaggio. Pare abbiano ammazzato qualcosa o qualcuno. Vado a vedere».

Il giovane si stiracchiò come un gatto, poi si alzò pigramente in piedi. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e rabbrividì.

«Vai, ti raggiungo subito».

Deckard uscì rapidamente sul corridoio che conduceva alle scale. La porta di una camera si aprì e il viso rotondo di Laurel sbucò fuori, ancora con gli occhi ancora socchiusi dal sonno.

«Sta succedendo qualcosa là fuori?».

Il barbaro trattenne a stento un sorriso nel vedere il grasso artista con una buffa papalina sulla sommità del capo e una camicia da notte dalla quale il pingue addome dell’uomo pareva volesse evadere a ogni movimento.

«Non so. Ci sono due che discutono in piazza, sembrano molto eccitati. Vado a vedere di che si tratta». Salutò l’attore con un cenno del capo e si avviò lungo il corridoio. Un altro uscio parve schiudersi ma nessuno si fece vedere e Deckard proseguì a grandi passi. Era curioso e non amava molto le chiacchiere. Scese rapidamente le scale che gemettero sotto il suo peso, raggiunse la porta e uscì nel gelo nevoso del mattino, dirigendosi verso la piazza.

Monia si svegliò allarmata. Il soffitto pareva doverle crollare in testa da un momento all’altro. Ma dove diavolo era? Che ci faceva nel sottoscala? Dei santissimi! Si era addormentata di nuovo. E la misteriosa ragazza? Era uscita senza che lei sentisse nulla? E ora cosa stava accadendo? Volle uscire ma prese una ramazza per darsi un contegno. Sarebbe stato seccante spiegare che aveva dormito nel sottoscala per spiare, peraltro inutilmente, un convegno amoroso. Uscì dalla porta dello sgabuzzino appena in tempo per vedere allontanarsi Deckard. Si avvicinò alla soglia e udì le voci che provenivano dalla strada. L’aria fredda finì di svegliarla del tutto. Incuriosita, girò attorno alla scala, acchiappò un pesante mantello di lana e corse dietro al barbaro.

Oliver Laurel impiegò un minuto a rendersi conto che qualcosa non quadrava. Un irrazionale senso d’inquietudine lo attanagliava, rendendogli penosi anche i movimenti più semplici. Cercò di rassettarsi un po’. Si lavò il viso con l’acqua gelida del bacile e uscì nel corridoio vestito meglio che poteva. La curiosità lo spingeva a uscire sulla strada ma quella strana angoscia lo trattenne. Bussò alla porta accanto alla propria camera.

«Chi è?». La voce di Jeff pareva ancora impastata dal sonno.

«Sembra che ci sia un po’ di agitazione in paese, vado a vedere cosa succede».

«Vai, ma se è quel cretino che ne ha fatta qualcuna delle sue non ci svegliare. Sugar ed io abbiamo ancora sonno».

Attività notturna, pensò l’anziano capocomico, sorridendo. Poi esitò. Whip ne aveva davvero combinata un’altra? Raggiunse la camera del domatore e bussò. Silenzio. Bussò ancora. Nessuno rispose. Spinse la porta che si rivelò aperta. La stanza era buia, dunque spalancò la porta e, alla tenue luce che giungeva dal corridoio, si diresse alla finestra e la aprì.

Nulla. Era deserta. William se ne era andato davvero. E Jorg? Allarmato, Laurel raggiunse lo sgabuzzino dove lo gnomo si era arrangiato a ricavare un giaciglio, giacché il suo padrone non lo aveva voluto con sé nella camera. Una specie di squittio lo accolse, facendolo trasalire. Un sospiro di sollievo gli sfuggì nel vedere gli occhi spalancati e il volto terrorizzato dello gnomo, ancora sdraiato su una coperta gettata al suolo, dietro un baule.

Deckard raggiunse in un attimo la piazzetta centrale del paesello, dove il pozzo di pietra, quasi completamente coperto di neve, torreggiava nel centro, sormontato da un arco metallico dal quale pendeva una carrucola. Da qualche parte, sotto la neve, doveva esserci un secchio, pensò il barbaro. Un gruppo di persone stava discutendo animatamente all’ingresso della piazza, dove la strada attraversava un arco ricavato fra due case, proprio nei pressi della locanda.

«Cos’è successo?».

Due uomini robusti guardarono con sospetto l’enorme barbaro. Uno dei due brandiva un’accetta e l’altro una roncola. Parevano decisamente eccitati. Quello armato di accetta si avvicinò minacciosamente allo sconosciuto.

«Da dove venite straniero?». La voce dell’uomo era arrogante e sgradevole.

«Dalla locanda. Ho raggiunto il passo ieri sera con un mio compagno e ci siamo fermati per via della bufera». Deckard parlava con calma. Quei due erano evidentemente agitati e avrebbero potuto fare qualche stupidaggine e lui non aveva voglia di una rissa. Almeno, non prima di colazione.

«E non avete visto nulla?». Stavolta era stato l’uomo con la roncola a parlare. Anche nella sua voce c’era un che di accusatorio che infastidì il barbaro.

«Neve e alberi. Cos’altro avrei dovuto vedere?». L’uomo con la roncola fece per rispondere ma fu bruscamente zittito dall’altro.

«Ma davvero? Che cosa avete portato con voi? Ne riparleremo con le guardie. Tornate coi vostri amici girovaghi e non lasciate la locanda». C’era un ridicolo tono di superiorità nella sua voce, forse si sentiva rassicurato dalla presenza del compagno, oppure dal fatto che il barbaro era disarmato.

Deckard stava per perdere la pazienza con quei due, quando la giovane locandiera sbucò al suo fianco.

«E le guardie dove le trovi, Ross? A Mer[1]? Lo sai che ci vogliono due giorni con questa neve, ammesso che non ne cada altra? Questo signore è un mio cliente ed è un tipo a posto». La voce di Monia era tagliente, sarcastica e lo sguardo di disapprovazione che accompagnava le sue parole avrebbe ferito chiunque. L’individuo con l’accetta, che rispondeva al nome di Ross, si fece di mille colori e abbassò il capo.

«Monia, che ne sapevo? Questo è uno straniero. E anche se non è uno di quegli attori di strada? Qui sono successe cose strane. Hanno portato i diavoli…». Imbarazzo e forse paura: Deckard cominciò a sospettare che quell’uomo fosse combattuto fra un inspiegabile senso di trionfo e di timore.

«Insomma, Ross, vuoi dirci che diamine è accaduto?». La ragazza pareva esasperata.

«Un gatto…». L’imbarazzo nella voce raggiunse vette straordinarie.

«Che?». Monia spalancò gli occhi.

«Un gatto, enorme, nero come l’inferno… forse un diavolo?». L’uomo era sempre più impacciato ma anche confusamente orgoglioso di avere scoperto qualcosa di insolito.

«Ross, sei ubriaco di prima mattina? O è ancora la sbronza di ieri sera?». La ragazza si accigliò, chiedendosi cosa mai avesse potuto aver visto effettivamente quell’uomo. Era un taglialegna di scarsa fantasia, media intelligenza e nessuna cultura, sia da sobrio, sia da ubriaco. La classica persona incapace di raccontare frottole credibili.

«Monia, vai a vedere! È sul ciglio della strada, mezzo coperto di neve, subito di là dal ponte!». Stavolta, la voce dell’uomo pareva soprattutto esasperata. Deckard sospettò che Ross dovesse tenere particolarmente alla considerazione della locandiera.

«Ross, sarà stato un orso! Che razza di gatti hai visto per confonderli con un orso?».

«Monia, gli orsi, in questa stagione dormono nelle grotte. Questo è un gatto enorme. Ed è morto». Qualcosa di ragionevole c’era, nei discorsi di quell’uomo. Il barbaro cominciò a credere che effettivamente fosse accaduto qualcosa di strano.

Lord Bailey Windström, elegantissimo come sempre, apparve sulla strada, sotto l’arco. La sua voce armoniosa echeggiò nella piazza con un’evidente nota di divertimento.

«Andiamo a vedere questo gattone, Deckard. Il signore mi sembra sincero e perfettamente sobrio. Un po’ maleducato ma sobrio».

Non attese nemmeno la risposta degli altri e si diresse verso il ponticello che scavalcava il fossato intorno al paese, ancora coperto di neve intatta, con solo le impronte di Ross e del suo compagno. Camminava sicuro, anche se in modo faticoso nella neve alta, attento a non avvicinarsi troppo alle poche tracce che macchiavano il candido manto che copriva la terra. Deckard si mise in marcia seguendo le orme del suo agile compagno e Monia fece altrettanto.

Poco fuori dal paese, sul ciglio destro della strada, una grossa macchia nera spiccava sulla neve che la circondava e, in parte, la ricopriva. Il giovane aristocratico si avvicinò con circospezione alla figura che, effettivamente aveva un aspetto felino. Si fermò, osservò attentamente la scena e, solo dopo qualche istante, si accovacciò accanto alla creatura sulla neve.

Anche Deckard si avvicinò con prudenza, con gli occhi fissi sul terreno innevato. Poi si allontanò di una decina di passi, fermandosi dall’altra parte della strada, nei pressi di un piccolo gruppo di alberi e di un muretto che racchiudeva un’icona di Telgëa, vicino al quale c’erano due carrozze, di quelle usate dagli artisti girovaghi per viaggiare da un punto all’altro del mondo, col loro carico di storie, sogni, inganni e magie. Il barbaro si era fermato accanto ai carri, in un punto dove lo spessore della neve pareva minore.

Monia rimase indietro, sulla strada, temendo di ostacolare i due uomini. Ordinò a Ross e all’altro uomo, che si chiamava Vernon ed era il fratello di Ross, di fare altrettanto.

«Allora, milord? Cos’è?».

«Il vostro amico non aveva tutti i torti, Monia. Questo è davvero un grosso gatto nero».

Il gentiluomo si alzò in piedi e si diresse verso la ragazza che lo guardava con gli occhi sgranati. Il suo viso, sempre sorridente, era ora atteggiato a una profonda preoccupazione, i suoi occhi verdi, sempre arguti e seducenti, erano lontani, persi chissà dove.

«Come? Un gatto?».

La mente del giovane era evidentemente impegnata in ragionamenti complessi, perché non rispose. La ragazza dovette ripetere la domanda per farsi capire.

«Un gatto?».

Lord Bailey si riscosse, posando i suoi occhi profondi sulla ragazza e sorridendole dolcemente. Ma in quegli occhi c’era tanta preoccupazione. La sua voce suonò grave, quando le rispose.

«In effetti, si tratta di una pantera dal manto nero. Un animale che non vive certamente da queste parti. Temo che questa sia una faccenda piuttosto seria, signorina».

«Ma, a parte il fatto insolito della presenza di questo animale, non vedo cosa ci sia da preoccuparsi».

«Questa bestia non è arrivata qua da sola, Monia. Qualcuno l’ha portata, aveva un padrone. Sarei più tranquillo se quel qualcuno fosse qui, ora».

«Volete dire il domatore?». Improvvisamente, la ragazza si ricordò del colloquio udito quella notte. «Stanotte diceva di volersene andare…».

«Vi ha confidato questo?».

«Beh… no. Ho udito per caso certi discorsi…». La giovane locandiera vide lo sguardo allarmato di lord Bailey, dunque gli raccontò tutto.

«… e siete certa che nessuno sia uscito dopo di lui?».

«Purtroppo mi sono addormentata… non sono certa, anche se mi sembra difficile».

In quel momento, Oliver Laurel si avvicinò, camminando goffamente sulla neve fresca. Anche il suo volto, in genere gioviale, appariva segnato dalla preoccupazione. Appena vide il cadavere della pantera corse verso il povero animale, con un gemito soffocato.

«Santi Dei! È Kira… ma cosa è accaduto?».

Lord Bailey si avvicinò al corpulento attore. In lontananza, il brontolio del tuono ricominciava a farsi sentire.

«Immagino si tratti della pantera del signor Pasterron, vero?».

Laurel si volse verso il gentiluomo, con gli occhi offuscati di lacrime e la voce piena d’angoscia.

«Sì, milord. E lui è scomparso».

Lord Bailey non parve sorpreso della scomparsa del domatore. Annuì gravemente col capo e indicò Deckard, ancora chino sulla neve, intento a cercare chissà cosa.

«Il suo carro era fermo là dove si trova il mio amico?».

L’anziano attore guardò nella direzione indicata, riconoscendo immediatamente il posto dove il suo domatore aveva fermato il carro, al riparo di un gruppo di alberi e del muretto con l’immagine votiva.

«Allora è partito… ma come ha fatto a lasciare qui Kira? Non l’avrebbe abbandonata mai, era sinceramente affezionato a questo animale… e chi l’ha uccisa?».

«Tre colpi di balestra». Il giovane lord si voltò verso l’attore. «Anche lo gnomo è scomparso?».

«No, milord. Non sa cosa pensare. Dormiva e non si è accorto di nulla. Ma ora come faccio a dirgli della pantera? Povero Jorg… Mi sembra un brutto sogno». Laurel pareva sinceramente costernato e la sua voce stava prendendo un tono lamentoso, insolito in un tipo apparentemente sempre allegro. I suoi occhi vagavano smarriti dalla carcassa della pantera al punto dove avrebbe dovuto trovarsi il carro del suo padrone. «Sono stati quei due!». Si era rivolto a Ross e Vernon, paonazzo in volto, e li indicava al giovane lord.

«Calmatevi, Laurel, non c’è nessuna prova che siano stati loro».

«Si sono vendicati! Ieri, appena siamo arrivati, hanno attaccato briga con whip! Lui li ha scacciati e loro si sono vendicati».

«Laurel». La voce di Lord Bailey era sempre calma e paziente. «se fosse così, avrebbero ammazzato la pantera nella gabbia. Non l’avrebbero certamente liberata. E Pasterron è sparito. Non avrebbe abbandonato la sua pantera, vero?».

«No, avete ragione. Mi sono fatto prendere dalla disperazione. Scusatemi. Anche voi, signori».

I due uomini, imbarazzati, borbottarono qualcosa che fece intendere che l’incidente poteva ritenersi chiuso e fecero per allontanarsi. Monia li trattenne seccamente.

«La pantera portava un collare, di solito?». La voce pacata di Lord Bailey riscosse lo sconvolto capocomico.

«Eh?». Laurel guardò perplesso il suo interlocutore, poi comprese e annuì.

«Sì, milord, un collare di cuoio con borchie di bronzo. Whip diceva che la rendeva ancora più minacciosa, anche se, in realtà, era un animale piuttosto mansueto». Sorrise, preso da chissà quali ricordi, poi le lacrime tornarono a rigargli le guance paffute.

«Non aveva mai aggredito nessuno?». Il giovane gentiluomo proseguiva nel suo interrogatorio con voce dolce e rassicurante, gli occhi verdi pieni di compassione per quell’anziano artista.

«Assolutamente no, whip la trattava benissimo. Ovviamente, era pur sempre un animale pericoloso, dunque nessuno osava avvicinarsi senza che Jorg o William fossero nei paraggi, però non erano mai accaduti incidenti di nessun genere». Esitò un attimo. «Perché mi avete chiesto del collare?».

«Perché ne vedo i segni sul collo, ma il collare non c’è». Lord Bailey gli indicò il collo dell’animale dove la splendida pelliccia nera mostrava i segni del continuo sfregamento contro qualcosa che lo circondava completamente. Laurel seguì meccanicamente le indicazioni del gentiluomo ma pareva che la sua mente fosse altrove.

«Evidentemente, ha davvero voluto liberarla… non capisco perché».

Nel frattempo, Deckard aveva raggiunto il piccolo gruppo. Il vento riprese a lamentarsi fra gli alberi.

«Credo sia partito un po’ prima dell’alba. Nevicava ancora, deve aver smesso circa un’ora dopo. Mi chiedo che fretta avesse… Hai esaminato la pantera?».

Lord Bailey riferì all’amico quanto aveva ricavato dall’esame della carcassa della povera Kira, poi si rivolse a Monia.

«Andate a chiamare vostro padre, miss Monia. Mi pare di capire che sia il personaggio più autorevole del villaggio, dunque è giusto che venga informato di quanto è accaduto».

La ragazza fece un inchino e lanciò un’occhiata maliziosa al giovane aristocratico, prima di voltarsi e correre verso la locanda.

«Le piaci». Osservò sottovoce Deckard, mentre la ragazza si allontanava ancheggiando. Poi si avvicinò alla pantera, esaminandola attentamente.

«Davvero?». Lord Bailey sorrise all’amico. Era assai apprezzato dalle donne, lo sapeva e sapeva approfittarne. Eppure, sentiva che con quella ragazza tutto doveva restare un gioco. Andare oltre sarebbe stato pericoloso. E il suo cuore era rivolto altrove, fra le strade e i vicoli di Elosbrand, dove una donna bella e micidiale lottava contro il mondo, forse macchiandosi di nuovi delitti. E lui ignorava pure quale fosse il suo nome[2].

«Signor Laurel credo che sia opportuno tornare alla locanda. La tregua che il tempo ci ha concesso temo sia agli sgoccioli».

Le nuvole erano tornate a farsi basse e minacciose e qualche fiocco di neve stava ricominciando a cadere pigramente dal cielo plumbeo. Laurel tornò verso il villaggio scuro in volto e con un sospetto tremolio sugli occhi. La delusione di essere stato abbandonato da uno dei suoi artisti lo aveva ferito profondamente. Il nobiluomo lo osservò mentre si allontanava ed ebbe compassione per l’anziano artista. Si riscosse quando il gigantesco barbaro si alzò in piedi e si avvicinò nella sua direzione a grandi passi. Anche Ross e il fratello tornarono verso il villaggio e il giovane aristocratico li ignorò.

«Hai ragione. Almeno due balestre diverse. Una leggera e una pesante. Francamente non capisco. Se è stato il domatore, chi lo ha aiutato? E perché ammazzare la sua pantera? E se sono stati quei due, chi ha liberato la pantera? E, poi, cosa gli è saltato in mente a quello sconsiderato di andarsene con questo tempo? Lo ritroveranno in fondo a qualche scarpata!».

«Temo che tu abbia spaventosamente ragione, amico mio». Lord Bailey aveva un’espressione assorta, inseguendo chissà quali pensieri. «Però c’è un’altra domanda, da porsi. La più critica, perché dalla risposta deriva la soluzione di tutto quest’arcano… perché il collare è scomparso?».

La neve continuava a cadere, sempre più fitta, ottundendo suoni e immagini di quel mattino gravido di mistero. Il gigante sentiva il desiderio di tornare al riparo, nei pressi del grande camino della locanda. Guardò il suo amico con aria confusa.

«Cosa? Forse semplicemente non lo aveva al collo, magari la lasciava senza, quando non c’erano spettacoli in vista… non capisco perché sia tanto importante…».

«Non credo. Hai visto i segni sul collo? Questa bestia portava sempre il collare, ci scommetto la camicia. Non aveva senso toglierlo, a meno che…». Un’espressione allarmata comparve sul volto del giovane che si diresse rapidamente verso il posto dove il carro doveva aver trascorso larga parte della notte.

Nel frattempo, Stanley Cannon era sopraggiunto a grandi passi, seguito dalla giovane figlia e da un Cedric Faulkner accigliato come non mai. L’imponente locandiere si fermò accanto a Deckard. Aveva simpatia per quel barbaro, forse per l’episodio della sera precedente o forse, semplicemente, perché gli ricordava i tempi gioiosi della sua giovinezza. Guardò perplesso l’animale ucciso e il gentiluomo che camminava in mezzo alla neve con gli occhi fissi al suolo.

«Ma cosa diamine è successo? Hanno ammazzato quella bestia e il suo padrone è scomparso? Ma dove può essere andato, con questo tempo?».

Il barbaro era altrettanto confuso ma cercò di rassicurare il locandiere. «Forse la faccenda di ieri sera l’ha esasperato… forse meditava da tempo di lasciare la compagnia. Certo , con questo tempo… Non capisco però perché abbandonare la pantera».

Faulkner lo interruppe con voce querula. Era seccato per tutta quell’agitazione, per il freddo che gli toccava patire, per la neve che stava nuovamente cadendo, per un’altra giornata persa in quel posto dimenticato dagli Dei.

«Ma cosa ci interessa di quella bestia?».

Deckard sentì prudergli le mani, sicché decise che era meglio allontanarsi da quell’individuo così odioso. Cannon ebbe lo stesso impulso ma si trattenne e si rivolse al mercante.

«Signor Faulkner, a parte il problema della pantera, è scomparso il suo proprietario. Per me, questo è un motivo sufficiente per cercare di chiarire questa faccenda».

«Ma aveva detto che se ne sarebbe andato. Che c’è di male se una persona, una volta tanto a questo mondo, mantiene la parola data? L’aveva detto e l’ha fatto. Forse ora è già a valle. Certamente in un posto migliore di questo. E, ripeto, che c’importa di quella bestia?».

La voce di lord Bailey lo interruppe.

«Temo che sia andato poco lontano signori. E non ha abbandonato il suo animale».

Fece cenno agli altri di raggiungerlo e, mentre si avvicinavano, il locandiere e sua figlia si accorsero che il suo volto era diventato, se possibile, più grave.

Era chino sulla neve, dove pareva aver scavato delicatamente e ora osservava con espressione pensierosa il fondo della piccola buca candida. Laurel e Deckard si avvicinarono perplessi, poi sgranarono gli occhi nel vedere una larga macchia scarlatta emergere da sotto la neve.

«Santi numi! Ma questo è sangue!». Cannon sgranò gli occhi e, istintivamente, strinse a sé la figlia che era decisamente impallidita. Deckard si era immediatamente inginocchiato accanto all’amico. Faulkner, pallido e spaventato, pareva sul punto di svenire.

Il giovane aristocratico alzò gli occhi verso di loro. Era scuro in volto e i suoi occhi verdi palesavano un’intensa preoccupazione.

«Esattamente, signor Cannon. E non credo affatto sia della povera Kira».



[1] Città al confine settentrinale della Repubblica di Elos, subito ai piedi dei monti

[2] cfr il racconto Il mistero della Porta.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: cabol