Storie originali > Avventura
Ricorda la storia  |       
Autore: cabol    23/05/2010    1 recensioni
Una locanda di un piccolo borgo isolato da una tormenta di neve diventa teatro di misteriosi fatti di sangue.
«Cosa cambia? Innocenti o colpevoli. Io non credo che volessero davvero uccidere. E poi, chi è davvero innocente, a questo mondo? Che differenza c’è fra un morto assassinato e uno giustiziato? Il primo muore nascosto, il secondo offre un edificante spettacolo alla popolazione. E quanti sghignazzano, davanti a quell’agonia! Chissà se a loro interessa se si tratta di un colpevole o un innocente… forse gli basta soddisfare la propria sete di sangue. Ma un morto è sempre un morto. No, amico mio. Uccidere mi fa orrore. Fare uccidere, altrettanto».
Un'avventura fantasy secondo i canoni del mistery.
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 1

Personaggi

Lord Bailey Windström, gentiluomo di Elosbrand.

Deckard Caine, barbaro Ariaken.

Stanley Cannon, oste del “gatto nero”.

Monia, cameriera, figlia di Cannon.

Cedric Faulkner, commerciante.

Miss Lilian Faulkner, figlia di Cedric.

Ross Calides, taglialegna.

Vernon Calides, taglialegna, fratello di Ross.

William “whip” Pasterron, domatore.

Kira, splendido esemplare di pantera nera.

Jorg Stone (Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanapjorgelinaplilimipapcaulderinapgregolinapmiliteraplienan), gnomo, assistente (schiavo) di William.

Jeff “blade” Barthington, acrobata.

Miriam “sugar” Deekin, acrobata, moglie di Jeff.

Oliver “Ollie” Laurel, istrione, attore, ciarlatano.


Capitolo 1: Tormenta

La neve turbinava, in candide volute, sulla tenue traccia della pista che attraversava i monti, tagliandoli come un preciso colpo d’ascia. Il vento mulinava e trasportava fiocchi mordaci e silenziosi su due viaggiatori stanchi, avvolti nei mantelli e sulle loro bestie tremanti, costrette dalle briglie a seguire, riottose, quel cammino. Alti abeti, torreggianti e cupi, osservavano impassibili i penosi sforzi e i pesanti passi delle intirizzite e fragili creature che, sfidando il gelo, osavano percorrere quei luoghi. La voce gelida e lontana, ora cupa, ora stridula, del vento pareva motteggiare la fatica che uomini e bestie profondevano sulla strada montana. Tuoni lontani brontolavano ogni tanto, ammonendo i viaggiatori che la notte, ormai prossima, sarebbe stata ancora peggiore di quel giorno gelido e spietato.

«Non manca molto, ormai». Il viaggiatore più alto sollevò la testa, come annusando l’aria gelida del tramonto. La voce, bassa e profonda, s’intonava perfettamente a quell’ambiente, quasi fosse stata l’antico accento delle conifere innevate.

«Al passo o al nostro trapasso?». Una voce tenorile, decisamente ironica, emerse dal cappuccio più basso.

«La locanda è vicina. Sento odore di fumo». La voce profonda echeggiò fra gli alberi, appena increspata da una nota d’esasperazione.

«Non ti arrabbiare, vecchio mio. Se non avessi avuto fiducia in te non sarei certamente qui, ora». La nota beffarda era scomparsa lasciando il posto a un tono evidentemente divertito, che fece irritare ancora di più il suo compagno.

«Non ti ho chiesto io di seguirmi».

«Questa era la via più rapida per tornare a casa, Deckard. E tu sai che ho fretta di riprendere i miei affari. La nostra gita è stata una piacevole digressione ma ora bisogna tornare al lavoro. Via, non sprechiamo fiato. Sbaglio o quella è una luce?». Indicò un punto in lontananza, seminascosto dai rami degli alberi, dietro un’ampia curva della strada. Un punto luminoso che appariva e spariva col vento.

«Sì. È certamente la locanda. Ci arriveremo prima del buio». La voce bassa era ora riscaldata dalla speranza e dal sollievo.

«Telgëa[1] ci assiste, amico mio. Minaccia tempo da lupi per stanotte».

Un piccolo gruppo di case di sasso, strette fra loro come freddolose comari, inghiottiva la strada montana, succedendo agli alberi quasi senza interruzione, separato dalla foresta imbiancata solo da uno stretto fossato. Quei poveri tetti di paglia parevano, tuttavia, caldi e rassicuranti, in quella notte che avrebbe certamente coperto di un gelido manto tutto ciò che circondava il paesello.

Lo stretto cerchio di case racchiudeva una piccola piazza, poco più di un cortile, al centro del quale troneggiava un pozzo di pietra, già quasi totalmente innevato. In quella stagione, sarebbe rimasto inoperoso a lungo, giacché per i paesani era decisamente più semplice riempire i mastelli di neve, piuttosto che manovrare la pesante e ghiacciata catena del pozzo.

Una tiepida luce filtrava dalle imposte socchiuse di una casa, decisamente più grande delle altre, accanto al ponticello che scavalcava il fossato. Sulla porta pendeva una logora insegna, raffigurante un gatto nero acciambellato. Una stalla, proprio lì accanto, offriva un rifugio anche per le cavalcature di eventuali viandanti.

«Orsù, pensavo peggio. C’è anche ristoro per i cavalli. Potremo fermarci finché questa maledetta tempesta non sarà cessata del tutto». Il viaggiatore più basso si era fermato sul ponticello, osservando soddisfatto l’edificio della locanda. «Un bel fuoco e una cena calda ci rimetteranno in sesto, amico mio».

«Ci deve essere gente alla locanda. Qui ci sono almeno sei cavalli. E prima del ponte ho visto alcune carrozze. Speriamo ci sia una stanza. E la cena…». La gigantesca figura si rivolse desolata al suo compagno, con un gesto che indicava chiaramente i suoi dubbi di riuscire a soddisfare il suo robusto appetito.

«In qualche modo ci arrangeremo, l’oro non ci manca e un riparo al caldo possiamo assicurarcelo. Quanto alla cena… temo che ci vorrebbe un cinghiale tutto per te, amico mio… dovrai accontentarti».

Luce, calore e voci chiassose vacillarono quando la porta della locanda si spalancò. L’odore di fumo, vino e vivande venne spazzato dal vento gelido accompagnato da tenui fiocchi candidi. Volti curiosi fissarono gli occhi sui nuovi arrivati. Scivolando giù dalle spalle, i mantelli innevati rivelarono quanto fossero diversi quei due viaggiatori. Uno era molto alto, dai lunghi capelli scuri che ricadevano sulla muscolatura possente dell’ampio torace, vestito come usavano i barbari, con una corazza di cuoio orlata di pelliccia e pantaloni di pelle, dai quali spuntavano morbidi stivali di renna. Portava sulle spalle un’arma formidabile, la tradizionale ascia doppia degli Ariaken[2]. L’altro di statura media e corporatura esile, indossava un’elegante guarnacca di lana azzurra bordata d’ermellino, pantaloni e stivali di pelle nera e portava al fianco un elegante stocco dall’elsa riccamente lavorata. Pareva un ricco gentiluomo diretto a un appuntamento mondano, più che un viandante costretto dal gelo a cercare rifugio nella locanda.

Monia si voltò, come tutti, a osservare i nuovi arrivati, rischiando di far cadere i boccali di birra che stava portando. Un gentiluomo affascinante (e probabilmente ricco) e un guerriero ariaken, certamente la sua scorta o la sua guida. Questi pagano, rifletté e si liberò rapidamente dei boccali. Ignorò gli sguardi bramosi degli avventori, più interessati alle sue forme che alla birra, si rassettò le vesti e corse incontro ai nuovi potenziali clienti. Raggiunse agilmente quello che pareva un giovane gentiluomo e gli si rivolse con una seducente, se non perfettamente educata, riverenza.

«Buongiorno milord. Come posso servirvi?». Due occhi color smeraldo si fissarono in quelli della giovane locandiera. Due occhi che potevano accarezzare ma anche ferire. Due occhi pericolosi, valutò l’esperta ragazza.

«Col vostro sorriso, madamigella. E, se è possibile, con una camera e una buona cena». Una voce tenorile, musicale e dolce, scaturì dalla sua bocca ben disegnata e sorridente, ornata da due baffetti sottili alla moda.

Monia sorrise, un’attività che le riusciva naturale e che le tornava utile nella maggior parte delle situazioni, poi si esibì in un nuovo elegante inchino che espose la sua interessante scollatura agli occhi dell’interlocutore. Sapeva giocare a quel gioco.

«Sorridere a un così bel signore è la cosa più facile del mondo, milord. Quanto alla camera, ne abbiamo ancora una, non è grandissima ma è pulita e calda. Accomodatevi e la cena arriverà subito».

Indicò un tavolo abbastanza vicino al grande camino, fece un’altra procace riverenza e si diresse verso il banco ancheggiando agilmente fra i tavoli, seguita dallo sguardo ammirato di molti avventori. Raggiunse il bancone, dove il locandiere, suo padre, era alle prese con un barilotto di birra che non voleva stare sul suo cavalletto. Lo guardò un attimo, fra il divertito e l’esasperato, poi si avvicinò al suo orecchio.

«Pa’, questi due che sono arrivati, hanno l’aria di gente che paga bene. Ci vai tu o me ne occupo io?».

Stanley Cannon, alto quasi due metri e largo in proporzione, era ancora un uomo vigoroso, nonostante l’età non più verde. Piazzò il barilotto sul cavalletto, stroncandolo, e si voltò a osservare la sala. Individuò immediatamente i nuovi arrivati e sorrise all’indirizzo della ragazza.

«Un gentiluomo in viaggio con la sua guida e guardia del corpo. Vestiti eleganti, belle armi. Brava bimba. Vado a farci due chiacchiere ma è meglio se poi te ne occupi tu. Il tuo fascino ci frutterà qualche moneta in più. Restano a dormire?».

«Sì. D’altronde, solo dei pazzi si metterebbero in viaggio con questo tempo».

L’oste si passò una mano sui radi capelli grigi e ammiccò.

«Allora, al tavolo degli artisti, ci deve essere qualcuno abbastanza pazzo. Quell’idiota non era ancora arrivato che aveva già litigato con Ross e Vernon e ora sta piantando grane ai suoi compagni».

Al tavolo vicino alla parete di fondo, in effetti, pareva essere sorta un’animata discussione. Un uomo biondo, alto, e atletico dal volto bello e arrogante, probabilmente sulla trentina, stava parlando concitatamente con un uomo più anziano, decisamente sovrappeso, i cui pochi capelli neri erano abbondantemente macchiati di grigio. Questi parlava quietamente, con un’espressione paziente nei piccoli occhi scuri, affondati nel grasso del viso. La sua voce suonava ragionevole ma venata di autorità, anche se non si udivano chiaramente le parole. Una bella ragazza dai capelli rossi interloquì vivacemente, probabilmente schierandosi dalla parte dell’uomo biondo ma il suo intervento provocò una brusca reazione da parte del giovane seduto al suo fianco. Questi era di statura media, all’incirca coetaneo della ragazza dai capelli rossi, muscoloso ma snello, il fisico che frequentemente si ritrova negli acrobati. Col suo intervento, la conversazione si trasformò in alterco e cominciarono a volare apprezzamenti vivaci e coloriti fra i due giovani uomini. La situazione degenerò quando un ometto di statura quasi infantile, dal fisico minuto e la testa sproporzionatamente grossa rispetto al corpo, evidentemente uno gnomo, provò timidamente a dire qualcosa. La reazione del biondo fu violenta e improvvisa: uno schiaffo che fece ruzzolare lo gnomo dalla sedia.

«Non permetterti mai più di contraddirmi, schiavo! Vattene! Torna nella tua tana e aspettami lì. Partiremo appena sorgerà il sole».

Altre voci concitate si alzarono dal tavolo, dove tutti parvero disapprovare il gesto dell’uomo. Il piccolo gnomo sgattaiolò lontano dal tavolo, mentre il gigantesco barbaro, che aveva osservato attentamente la scena, si alzò scuro in volto. Il suo compagno di viaggio si accomodò meglio sulla sedia, come per gustarsi l’imminente spettacolo.

«Deckard, vedi di non esagerare. Il signore deve alzarsi presto, domattina». Il suo compagno non rispose, mentre si avvicinava a grandi passi verso il tavolo degli artisti, con gli occhi minacciosamente puntati sull’uomo che aveva colpito lo gnomo.

«Perché non provi a prendertela con uno più grosso? Sei uno sporco vigliacco!».

Lo sguardo arrogante dell’uomo si fissò sull’importuno. Il suo bel viso si contrasse in una smorfia di disgustato furore e la sua voce suonò incrinata dall’ira.

«Di cosa t’immischi, bestione? Queste cose riguardano me e il mio schiavo. Se il tuo padrone ti schiaffeggia, io non m’immischio di certo. Cerca di fare altrettanto. Sono un tipo pericoloso».

Gli occhi del barbaro lampeggiarono come un cielo cupo prima di una tempesta e come un tuono echeggiò la sua voce: «Io non ho padroni. E sono molto più pericoloso di te». Nel dir questo, il suo pugno piombò sul tavolo, spezzandolo in due e facendo ruzzolare dalla seggiola l’uomo grasso. Tutti si allontanarono precipitosamente dai rottami del tavolo. Il biondo impugnò la frusta che portava al fianco, minacciando Deckard.

«Fatti sotto, idiota. Facci vedere come sai ballare!».

«Whip, piantala subito!». Nonostante fosse disteso al suolo, in una posizione ben poco dignitosa, la voce dell’anziano capo della compagnia di acrobati, risuonò autoritaria, nella sala.

«Questo bestione ha bisogno di una lezione, Ollie, non preoccuparti, sono abituato a domarne di più grossi». La frusta schioccò nell’aria e subito dopo saettò sul braccio del barbaro, strappandogli una striscia di pelle.

Il guerriero non fece una piega, ma nei suoi occhi cominciava a montare una collera che pareva poter diventare devastante.

Avanzò di un passo.

La frusta saettò nuovamente, colpendolo.

Deckard avanzò ancora.

Un’altra frustata partì, ma il barbaro afferrò al volo il cuoio, strappandolo bruscamente verso di sé. L’avversario, sorpreso, non lasciò la presa con sufficiente prontezza e si trovò trascinato verso il gigantesco barbaro, le cui mani si strinsero inesorabili intorno al suo collo.

«Ti piace giocare? Fai saltare le bestie con la tua frusta? Ora tocca a te saltare, sacco di letame!». La mano sinistra di Deckard rimase stretta sul collo dell’uomo, mentre la destra lo afferrò per la cintura, sollevandolo da terra come un fuscello.

Un attimo dopo, il malcapitato volava per la sala, atterrando rovinosamente davanti alla porta d’ingresso del locale.

«È inaudito! Questa cosa è inaccettabile». Un uomo piccolo e magro, sulla cinquantina, elegantemente vestito, si alzò rosso in volto dal tavolo accanto alle rovine di quello degli artisti, rivolto all’oste, vanamente trattenuto dalla giovane ragazza bionda seduta di fronte a lui.

Deckard ignorò completamente le sue proteste e raccolse l’avversario ancora mezzo stordito, sollevandolo di peso per attaccarlo, a un gancio che penzolava a circa due metri dal pavimento, di quelli usati per i salumi.

«Fate cessare questa barbarie o chiamo le guardie!». L’ometto elegante alzò la voce, portandola a un tono alquanto stridulo.

L’oste, per la verità, pareva piuttosto divertito, nonostante il tavolo fracassato, però non poteva ignorare le proteste dei suoi avventori. Specie di quelli paganti, anche se poco simpatici. Si avvicinò al barbaro che osservava soddisfatto la propria opera.

«Per favore, signore, credo che quest’uomo ne abbia avuto abbastanza. Rimettetelo a terra».

Deckard lo osservò distrattamente.

«Tornerà a terra appena avrà chiesto scusa allo gnomo». Sorrise, guardando verso l’uomo appeso. Con un gesto della mano richiamò accanto a sé la piccola creatura, ancora tremante.

«Come vi chiamate, messer gnomo?». L’interpellato guardò il gigantesco uomo di fronte a sé e poi il suo padrone, che dondolava appeso come un salame, rosso in volto ed evidentemente spaventato.

«Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanap…». Qualcuno, fra gli artisti, si schiarì rumorosamente la gola, ricordando allo gnomo che gli umani, generalmente, non amavano sentir declamare i nomi secondo l’usanza del suo popolo. Anche perché quei nomi comprendevano numerosi ascendenti che, nella migliore delle ipotesi, risalivano alla ventesima generazione.

«… ehm… tutti mi chiamano Jorg, chiamatemi così, anche voi, milord». Il barbaro trattenne una risata e si voltò un’altra volta verso la propria vittima.

«Chiedigli scusa o passerai la notte così».

L’uomo che rispondeva al nomignolo di whip non rispose, restando con lo sguardo fisso nel vuoto, ancora stordito dal volo attraverso la sala e dall’umiliazione subita.

L’omino elegante si avvicinò con fare minaccioso.

«Ora basta. Siete solo un servo e non avete il diritto di trattare così un signore. Ho fatto il viaggio da Elosbrand a qui con questi artisti e posso assicurarvi che sono persone assai più rispettabili di un selvaggio come voi».

Deckard si voltò lentamente verso l’incauto interlocutore. Le mani si erano serrate a pugno e parevano due magli pronti a entrare in azione. Quasi certamente avrebbe colpito l’azzimato individuo che osava parlargli in quel modo arrogante, se il suo compagno di viaggio non si fosse intromesso rapidamente.

«Messer Faulkner! Ma che sorpresa! Anche voi in viaggio con questo tempo da lupi?».

L’omino rimase interdetto, osservando il gentiluomo che lo aveva apostrofato così. Lentamente nei suoi occhietti comparve una luce di comprensione. Aveva visto già da qualche parte quel damerino.

«Lord… Windström?».

«Sono proprio io, messere, lord Bailey Windström. Sono lieto che vi ricordiate di me. Ci siamo conosciuti al ricevimento di lady Imbert, questa primavera».

Monia per poco non si mise a ridere. Un gentiluomo di nobile famiglia che si dichiarava contento di essere ricordato da un borghese! Eppure le parole del giovane dovettero sortire l’effetto voluto, dal momento che messer Cedric Faulkner gonfiò il petto e quasi arrossì di piacere, salutando con calore l’elegante aristocratico. La rissa era scongiurata.

«Ma come potrei mai dimenticare uno dei gentiluomini più apprezzati di Elosbrand! La vostra cortesia e generosità sono quasi leggendarie, sapete?». Così, messer Faulkner cominciò a chiacchierare fittamente col giovane lord, invitandolo al proprio tavolo e dimenticandosi completamente del povero domatore, tristemente appeso al gancio da salumi. Monia corse in cucina dove, finalmente, poté sciogliere la risata che minacciava di farle scoppiare il petto. Una risata con una punta d’amaro, però: che gente meschina c’è al mondo!

Pure Stanley Cannon aveva osservato la scena con evidente divertimento ma si stava chiedendo se realmente il barbaro avrebbe lasciato quel tipo appeso al gancio per tutta la notte. Sospirò. Sospettava di sì.

L’anziano capo della compagnia girovaga gli si avvicinò con aria imbarazzata.

«Signor Cannon, Whip, ehm, William ha un gran brutto carattere ma forse non è il caso di lasciarlo davvero lì fino a domani».

«Signor Laurel, convincetelo a chiedere scusa allo gnomo, perché quella specie di gigante non credo proprio che cambierà idea. Io non ci litigo di certo, ho passato l’età delle risse!».

«D’accordo, proverò a convincere Whip a ragionare. Vedrete che ci riuscirò. È cocciuto ma non stupido. Voi mettete una buona parola con quel barbaro, mi raccomando».

Il grassoccio attore si avvicinò al collega appeso e incominciò a parlargli quietamente. Il domatore, sulle prime sembrò disinteressato alle parole di Laurel ma, poi, la sua attenzione parve crescere, sicché il locandiere cominciò a sperare. Quando, però, il gigante se ne tornò al tavolo ignorando la sua vittima e dedicandosi alla cena, riprese a preoccuparsi.

Monia tornò nella sala con ancora le lacrime agli occhi e si avvicinò all’oste sorridendo.

«Allora? Pace fatta?».

«Per quel che riguarda il mercante, direi di sì. Per quell’idiota appeso, invece, le trattative sono ancora in corso. Porta un’altra razione abbondante a quel barbaro, chissà che non lo rabbonisca».

Al tavolo di messer Cedric Faulkner, intanto, la conversazione era sempre vivace e cordiale, con la loquace miss Faulkner che teneva banco riferendo gli ultimi pettegolezzi di Elosbrand[3] da dove era partita una settimana prima.

«…e pare che Blackwind continui a depredare i più ricchi della città!». La ragazza parlava quasi sottovoce, con aria di chi la sa lunga.

Lord Windström le rivolse un sorriso affascinante. Non era bella, miss Lilian Faulkner, con un naso troppo aquilino e le labbra troppo sottili, eppure i suoi occhi grandi e vivaci sapevano colpire chi l’avesse osservata con attenzione. Era magra, anche troppo, con forme appena (o forse non ancora) accennate e un po’ troppo poco femminile nell’atteggiamento ma sapeva affascinare con una conversazione brillante, acuta e intelligente a dispetto dei suoi diciassette anni appena compiuti. Non era bella ma aveva un suo fascino.

«Davvero? Raccontate, mia cara». L’aristocratico giovane pareva divertirsi un mondo, mentre il suo compagno aveva assunto un’aria perplessa che strappò un sorriso alla biondissima damigella.

«Non ci credete, vero? Eppure un gioiello preziosissimo è sparito e, visto che non si capisce come abbiano fatto, sembra proprio opera sua. Pare che sia stato rubato, proprio il giorno prima della nostra partenza, un gioiello famosissimo: il “collare di fuoco”, un meraviglioso girocollo di rubini che apparteneva a lady Bracknell».

«Lady Bracknell? La moglie di lord Mark Bracknell, il senatore?».

«Proprio lei, milord! La moglie dello “sparviero”. Quello che si è arricchito sui fallimenti degli armatori». Disse le ultime parole quasi sussurrando, come una cospiratrice.

«Lilian, ti prego!». Messer Faulkner parve scandalizzato.

«Non mi interesso molto di affari economici, miss Faulkner, perdonatemi ma non so di cosa parliate… Ma raccontateci di questo furto mirabolante, vi prego».

La ragazza parve dispiaciuta di non essere stata seguita sul terreno dei pettegolezzi ma era troppo contenta di poter raccontare una storia piena di mistero, sicché proseguì con tono professionale.

«Un colpo veramente nel suo stile: il gioiello era chiuso in una stanzina con una porta blindata che, badate, non è stata forzata, e senza altre aperture che una finestrella dalla quale non sarebbe potuto passare nessun uomo».

«Se è stato davvero rubato il gioiello, qualcuno deve pur essere entrato in quella stanza. Avranno usato una chiave falsa o qualche altra diavoleria. Se la finestra è troppo piccola, devono essere per forza passati dalla porta!». Obiettò il gentiluomo. Stava per fare un’altra osservazione, quando vide l’oste avvicinarsi al tavolo, con aria imbarazzata.

«Ehm… miei signori, quell’uomo si è scusato… sarebbe possibile farlo scendere da lassù?».

Messer Faulkner fece un gesto infastidito con la mano, come a significare che non era il caso di disturbarli per una questione tanto futile. Deckard, impegnato con un’enorme bistecca, fece finta di non aver sentito. Lord Windström sorrise e si scusò con i commensali.

«Perdonatemi, signorina. Messer Faulkner. Torno subito». Si alzò da tavolo e si diresse con noncuranza verso l’uomo appeso.

«Vedo con piacere che siete una persona ragionevole. Vogliate continuare a esserlo, signore, e badate che questa discussione col mio amico non abbia ripercussioni sul vostro servitore». Sguainò la spada e la fece scorrere lungo l’addome dell’uomo. «Dovesse giungermi alle orecchie potrebbe accadervi di perdere qualcosa di prezioso».

William whip Pasterron, domatore, acrobata e molto altro ancora, divenne, se possibile, più pallido e fece cenno, col capo, di aver capito.

«N-non ci saranno co-conseguenze, mi-milord. Ve lo g-giuro».

«Bravo ragazzo!». La spada del gentiluomo scattò come un serpente recidendo la cintura del malcapitato che rovinò al suolo fra le risa degli astanti. Lord Windström non lo degnò di uno sguardo e se ne tornò al tavolo dove messer Faulkner si stava sbellicando dalle risa.

Il capo degli artisti si avvicinò timidamente all’aristocratico giovane, proprio mentre questi stava per riprendere il proprio posto.

«Milord, perdonate il mio uomo se vi ha procurato disturbo. William non è cattivo. Solo un po’ arrogante, ma dovete capirlo, è la stella del nostro spettacolo, si sente un reuccio».

«Non preoccupatevi messere. Capisco perfettamente. Vi prego però di consigliare al vostro reuccio una riposante dormita e di non provarsi minimamente a vendicarsi sullo gnomo. Posso sapere con chi ho l’onore di parlare?».

«Eh? Oh, eccellenza, perdonatemi. Sono Oliver Laurel, capocomico, cantante, alchimista e guaritore e questa è la mia compagnia».

«Artisti girovaghi, eh? È un vero peccato che abbiate soggiornato a Elosbrand proprio durante la mia assenza. Avrei gradito davvero ospitarvi nel mio palazzo, amo molto l’arte, caro mastro Laurel».

«Torneremo in primavera nella vostra bella città, lord Windström. Permettete che vi presenti i miei compagni, milord?».

«Ma certamente, mastro Laurel, con sommo piacere».

«Questi è Jeff “blade” Barthington, acrobata e giocoliere, un giovane che ha uno splendido futuro nell’arte, credetemi, milord». Il giovane dal promettente futuro era il ventenne di piccola statura, di bell’aspetto, snello e agile, con glaciali occhi glauchi che si era quasi azzuffato col collega. Guardò con sospetto l’aristocratico gentiluomo ma si esibì in un inchino educato, dimostrando rispetto per l’anziano capocomico.

«… e questa è sua moglie, l’affascinante Miriam “sugar” Deekin. Acrobata, ballerina, cantante e attrice, la perla della nostra compagnia».

Una splendida donna dai capelli fulvi e gli occhi verdi si esibì in un inchino, sollevando poi gli occhi per sorridere sfacciatamente all’indirizzo del nobile.

«È un onore, conoscere il più affascinante aristocratico di Elosbrand, milord. Consideratemi a vostra… completa disposizione».

«Onoratissimo e lusingato, madama, sono certo che apprezzerò assai la vostra arte». Lord Bailey restituì l’inchino, fissando negli occhi la procace ballerina. Lei ammiccò maliziosamente, ricevendo un divertito sorriso per risposta.

«William “whip” Pasterron lo… ehm… conoscete già, è un acrobata e domatore di gran fama, la stella del nostro spettacolo e Jorg è il suo assistente».

«Sono certo che messer Pasterron sia un artista di valore. Deve solo imparare a controllarsi meglio e a rispettare i suoi collaboratori. Mi dispiace per quanto è accaduto ma il mio amico non tollera le angherie verso i più deboli».

«Avete ragione, milord. Ma whip aveva bevuto ed era già contrariato perché avevamo rifiutato di ripartire all’alba di domani, con questo tempo… spero vogliate ritenere chiusa la questione».

«Certamente, messer Laurel. Perdonatemi ora ma desidero terminare la cena e andare a riposare, dopo una giornata davvero pesante».

Sono a vostra completa disposizione. Monia trattenne un sorriso di fronte a tanta goffa sfrontatezza. Anche lei sapeva sedurre un uomo ma era abbastanza intelligente da capire che un tipo come quel gentiluomo difficilmente sarebbe stato davvero tentato da una proposta tanto volgare. Comunque l’incidente era chiuso e, poco dopo, tutti erano tornati a sedere ai propri posti. La serata volgeva finalmente al termine.

Lentamente, i tavoli si svuotarono e gli avventori si ritirarono nelle loro camere. Il silenzio scese nella grande sala da pranzo mentre fuori la neve continuava a cadere fittamente. Monia rimase a lungo fra gli scuri e la pesante tenda ad ascoltare il vento.

Qualcuno bisbigliava nel buio.

Che ora era? Doveva essersi addormentata dietro la finestra. Il vento pareva molto meno intenso. Il tendaggio che la separava dalla sala le impediva di vedere chi era alzato a quell’ora di notte.

«Non andare!». Una donna, giovane.

«Vieni con me, allora». Un uomo.

«È pericoloso con questo tempo!». La donna . Monia non avrebbe saputo dire chi fosse.

«Non intendo restare ancora. Vieni con me e sarai la donna più ammirata e invidiata del Kaardir[4], ormai sono ricco, credimi». Il domatore. Ecco. Certamente era lui.

«Io ti seguo perché ti amo, non perché sei diventato ricco. A parte che non capisco come avresti fatto». Nulla da fare. La ballerina o la figlia del mercante? Monia non riusciva a capire.

«Te lo dirò lungo il viaggio! Andiamo, ha smesso di nevicare».

«Devo prendere le mie cose!».

«Sei pazza? Potrebbe svegliarsi! Andiamo via, ora».

«Non si sveglierà, ha il sonno pesante. Vai al carro, ti raggiungerò subito».

«Mi raccomando! Aspetterò al massimo mezzora. E se lui ci dovesse seguire?».

«Non ci seguirà. Quando si sveglierà saremo già lontani. E saremo felici». Una pausa. Un bacio?

«Vai, e sbrigati». Passi leggeri sulla scala. Lo scorrere della catena. Il gelo aveva fatto irruzione nella sala. Monia lo avvertiva anche dietro quel tendaggio. Perché non l’ho scostato? Alzò le spalle. Forse perché era buio pesto e non avrebbe visto nulla rischiando, al contempo, di farsi scoprire. E quell’uomo dai modi gentili ma dai violenti scoppi d’ira e dalla frusta facile le faceva paura.

Attese qualche minuto. Silenzio. Provò a sporgersi verso la tenda. Silenzio. Spostò la tenda con cautela. Silenzio. Buio fitto. La curiosità la rodeva: chi era la ragazza che voleva fuggire col domatore? La vivace figlia del mercante o la seducente ballerina? Doveva trovare un posto da dove poter vedere chiaramente la porta della locanda. Il sottoscala. I gradini avevano ampie fessure dalle quali osservare cosa accadeva nella sala e la scala arrivava fin quasi alla porta. Sarebbe stata abbastanza vicina da poter riconoscere quantomeno il colore dei capelli. La bionda o la rossa? Si mosse in silenzio in quell’ambiente che conosceva alla perfezione e raggiunse la porticina che conduceva allo sgabuzzino ricavato sotto la scala di legno. Entrò e attese.



[1] Dea delle campagne e dei focolari

[2] Popolazione barbarica nomade delle terre occidentali

[3] Capitale della Repubblica di Elos e uno dei principali porti di Ainamar

[4] Ricco regno ai confini settentrionali della Repubblica

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Avventura / Vai alla pagina dell'autore: cabol