Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |       
Autore: Jolene    01/09/2005    0 recensioni
“Stanotte c’era luna nuova. E’ difficile pescarla quando è così pesante. Ma quando è una falce.. dicono che sia facilissimo tirarla su” “Ma..” boccheggiò Iari sbigottita “Ma non si può pescare la luna” “Oh, si che si può, ragazza. E non dare giudizi su cose che non conosci” ringhiò il pescatore “Mi innervosisce l’aria da ragazzi onniscienti che avete al giorno d’oggi. Credi di sapere tutto?”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Uno, due, tre: ora! Ancora un piccolo sforzo, ci sei quasi e… ecco che tornava a poggiare la schiena per terra, esattamente come prima. Soltanto che ora si sosteneva sul fianco destro, quello che le faceva male. Provare a sollevarsi da terra era impossibile: la gamba destra era del tutto paralizzata da tempo; quanto alla sinistra, non avrebbe potuto reggere da sola tutto il peso del corpo.

Fece uno sforzo sulle braccia e finalmente riuscì a mantenersi sui gomiti, e tese il collo, attenta a cercare qualcuno che l’aiutasse a rimettersi in piedi. Alla sua destra, al di là della siepe fino all’edificio principale non c’era l’ombra di un cane: la campanella dell’intervallo era suonata da parecchio, e gli unici ad essersi attardati nel parco erano due novellini freschi di scuole medie che lentamente si avvicinavano all’ingresso.

La ragazza allungò il collo, le vene tese per lo sforzo.

“Ehi, voi!”.

Uno dei due si girò, ma era troppo lontano perché riuscisse a vederla. Disse qualcosa al compagno, poi sparirono entrambi inghiottiti dall’ombra dell’androne.

La ragazza non trattene un grido di rabbia.

“Fanculo!” ringhiò, colpendo con un pugno la gamba sana. Un dolore fitto e lancinante l’avvolse dal ginocchio fin sulla coscia. Socchiuse gli occhi e si piegò in due, le nocche premute con forza sullo stomaco. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Snocciolò ad alta voce, una dopo l’altra, tutte le ingiurie e gli insulti che conosceva. Detestava con ogni fibra del suo corpo quella situazione del cazzo! Le sue gambe avrebbero dovuto essere sane come quelle di una dannata persona normale, funzionare a dovere. Che le andassero a rifilare a qualcun altro quelle stronzate da videocassetta sul corpo umano, la macchina perfetta.

Iari Giusteni aveva compiuto diciassette anni il diciotto di aprile. Facevano cinque mesi che la sua gamba era in quello stato, e cinque mesi esatti che si era trasferita laggiù.

Il medico di famiglia l’aveva invitata a mettersi in contatto con il dottor Riunenti il più presto possibile, dopo l’incidente.

Quest’ultimo, un tempo primario del reparto ortopedico, godeva della massima stima da parte di tutta la città. Aveva prestato servizio per ben quarant’anni, guadagnandosi lodi e meriti durante tutto il corso della carriera. A Settantasei anni suonati, infine, aveva preso la saggia e contemplata decisione di ritirarsi dall’incarico per avviare un’attività privata. Il suo studio era perennemente colmo di pazienti: per fissare una visita Carla Giusteni aveva impiegato una settimana.

“Mi dica pure signora, in cosa consiste il problema?” aveva esordito durante il loro primo incontro, senza neppure dare il tempo a Carla di presentarsi.

La sua pelle era raggrinzita ed i capelli candidi, ne aveva ancora molti in testa. Gli occhi erano tanto sottili che era quasi impossibile capire se fosse sveglio o stesse dormendo, tanto più che era un tipo taciturno.

Li sormontavano due folte sopracciglia del medesimo colore dei capelli, e ciuffi di peli bianchi spuntavano sù dalle narici. Guardandosi intorno in quella stanza, ci si poteva facilmente accorgere che il ‘professore’ (così lo chiamavano tutti) era un appassionato di lingua greca. Dovunque ci si voltasse, s’andava a parare su titoli come ‘L’importanza di Grassman’ o ‘Rapporti tra la grammatica greca e le lingue indo-europee’.

Nonostante fosse tanto colto, non ostentava nessuna delle sue conoscenze. Piuttosto dicevano che fosse sempre in grado di mettere a proprio agio ogni suo interlocutore.

“C’è stato un trauma molto grave al nervo tibiale, ecco perché ha perso la sensibilità”

Aveva dichiarato con nettezza dopo avere esaminato con cura la gamba. “Avrà bisogno di un paio di stampelle.”.

Dopo aver detto questo aveva preso sua madre da parte e s’erano messi a discutere fitto fitto.

La sera Iari seppe che non avrebbe mai più mosso la gamba destra.

Mai più. C’era qualcosa di stranamente definitivo in quella breve sequenza di vocali e consonanti. Le parole più brevi dovrebbero essere le più semplici da interpretare, e invece è perfettamente il contrario. Contengono una moltitudine di significati, sono come matrioske. Solo lentamente si arriva al nocciolo. E’ come vedere il proprio pensiero in moviola, poi finalmente realizzare. E desiderare di non aver mai realizzato.

Ora, a Iari Giusteni non era mai capitato di cadere dalle stampelle. Era abbastanza abituata e attenta per rendersi conto di dove metteva i piedi. Qualcuno le aveva mollato uno spintone nel fianco mentre tornava in classe. Una stampella era volata due metri più in là, e Iari, cercando di aggrapparsi a quella rimasta, si era procurata un graffio sotto l’avambraccio mentre scivolava per terra. Non aveva fatto in tempo a notare chi fosse stato, ma aveva visto una figura maschile in t-shirt  che le era scivolata davanti di spalle. Non c’era alcun dubbio che l’avesse fatto volutamente.

Ed erano già passati circa tre minuti mentre lei era ancora lì stesa per terra, gli occhi colmi all’orlo di lacrime per la rabbia di non poter fare nulla.

“ Ehi, serve un aiuto?”

In mezzo ad una goccia di pianto intravide una figura tremolante che le tendeva una mano. Focalizzata l’immagine, un ragazzo stava in bilico sulle ginocchia e di fronte a lei. Indossava una maglietta nera,un pantalone color melanzana e delle scarpe da ginnastica vecchio modello.

Iari gli indicò con un cenno del capo una stampella che era volata via. “Puoi raccogliermela?”

Il ragazzo ritornò subito con la stampella in mano, prese quella più vicina da terra e le strinse entrambe sotto l’avambraccio. Poi si chinò, prese la ragazza da sotto le ascelle e fece in modo da rimetterla in piedi con un movimento molto abile.

Iari riprese possesso delle sue stampelle.

“Grazie”

“Figurati”.

Solo qualche secondo prima non aveva notato quanto fosse magro. Non si era nemmeno accorta che era più basso di lei di almeno tre centimetri. Si chiese come avesse fatto a sollevarla da terra, e con quale forza.

Aveva i capelli castani lunghi fin poco sopra il collo e mossi, legati in un codino.

Al suo viso puntato su di lui, il ragazzo abbassò la testa con un’espressione irritata in faccia.

Iari distolse subito lo sguardo, notando un fastidio.

“Stai entrando?”

“Sì”

“Anch’io”

Senza dire una parola si incamminarono insieme. Iari stette ad osservarlo per metà del tragitto, lui di contro continuò a camminare con lo sguardo piantato per terra e le mani infilate in tasca. Entrarono nell’ingresso e salirono velocemente le scale.

“Di che corso sei?”

“C. E tu?”

“F. sei nella sperimentale di informatica?”

“Sì”

“Genio del computer?”

“Al contrario” per la prima volta il ragazzo la guardò in faccia. Aveva gli zigomi pronunciati, labbra carnose e un paio di occhi sottili color senape. Sembravano gli occhi di un animale braccato. Ma forse era soltanto un’impressione. Nonostante raramente Iari abbassasse la testa di fronte a qualcuno, non fu capace di reggere quello sguardo per più a lungo di cinque secondi. Si voltò dall’altra parte.

“Ho scelto quel corso perché non volevo fare diritto”

“Dici sul serio? E’ una materia talmente interessante.. in genere capita il contrario”

“Che non si vuole fare informatica?”

“Tu sei un caso a parte”

“Pare”. Il ragazzo distolse di nuovo lo sguardo, aggrottando le sopracciglia. Sembrava quasi che stesse scacciando un ricordo spiacevole dalla testa. Arrivati al bivio che divideva le prime sezioni dalle seconde, il ragazzo puntò verso il corridoio di destra.

“Non mi hai detto come ti chiami”

“Iari”

“Ci vediamo, Iari” imboccò il corridoio e, senza voltarsi più s’infilò nella prima classe sulla sinistra.

 

Iari tornò a casa in ritardo con l’autobus delle quattro. Fare il rientro era stata una novità, ma tutto sommato era positivo, visto che una volta tornata a casa si era già levata di mezzo il grosso con la spiegazione degli insegnanti. Il liceo si trovava in città, anche se in una zona un po’ periferica. Casa invece era in campagna a venti chilometri dal centro. L’autobus era una vecchia carretta reduce dagli anni di guerra. Il suo proprietario, che ne era anche il centenario alla guida, era alto più o meno un metro e aveva un’insana passione per gli specchi. Cinque specchietti di piccole dimensioni pendevano dalla presa per l’aria sul soffitto, e ne conservava altri sotto il sedile, nel cruscotto; e qualcuno malignamente sussurrava: “perfino nel cofano!”.

Tonino (questo era il nome del centenario) sembrava avesse una predilezione per Iari, che ad ogni viaggio si sedeva sul sedile più prossimo al guidatore. Ascoltare le storie quotidiane di Tonino era divertente, ed il suo dialetto colorito la allontanava dal pensiero delle preoccupazioni.

Quel pomeriggio le aveva raccontato del modo in cui i suoi vicini di casa cercavano di rovinarlo.

Iari gli aveva dedicato delle parole di conforto, e lui le aveva ricambiato con il suo saluto abituale, prima che scendesse: “Ahi, Iari, se fossi più grande ti sposerei!”.

Il pulmino si fermava esattamente di fronte agli arbusti che delimitavano la piccola proprietà Giusteni.

Iari percorse il vialetto fino al cancello e sbirciò tra le sbarre verdi se ci fosse qualcuno nelle vicinanze. Sentiva la voce di sua madre venire da poco lontano, ma dato che non vedeva nessuno in giardino ipotizzò che provenisse dalla porta semi- socchiusa.

Allungando la mano, premette il dito sul campanello.

Sentì sua madre: “Aspetti, dev’essere Iari”

Quindi uscì di corsa, tutta affannata, attraversò il viale di ghiaietto e le aprì il portone.

“Iari! Non mi avevi avvisata del ritardo. Che fine hai fatto?”

Poi i suoi occhi caddero sulla gonna scura a fiori e sul grosso livido che si era fatta cadendo.

“Che hai fatto alla gamba?” domandò agitata.

“Sono scivolata scendendo le scale”

Sua madre sembrò soddisfatta dalla spiegazione. Non ci pensò su tanto tempo. Invece le diede un colpetto sulla schiena e la spinse verso l’ingresso.

Iari viveva con sua madre solamente. I suoi si erano separati molto tempo prima. Non era stato un brutto colpo per lei. Le loro discussioni si erano fatte talmente affilate e frequenti che vedersi sbattere sotto il naso i documenti per il divorzio era stato un sollievo per Guido e Iari Giusteni.

Iari era stata il frutto di una relazione fuori dal matrimonio tra due persone quasi sconosciute. Questo era forse il motivo del fallimento della vita insieme.

Adesso suo padre viveva lontano, in un paesino al confine metà italiano metà tedesco di cui nemmeno lei stessa ricordava il nome.

Nell’anticamera c’era padre Lucio, il vicario che operava nei dintorni della città, e che ormai conosceva quella casa bene come le sue tasche.

Iari alzò gli occhi al cielo.

“Rieccoci, Iari, la pecora smarrita”

Iari non rispose.

“Sono qui per comunicarti”

Iari sbuffò e lanciò un’occhiataccia alla madre, che stava in piedi davanti la porta con le mani incrociate sul petto e quell’aria pia davvero stomachevole.

“Padre, gliel’ho detto: è inutile. Che lei ci voglia credere, sono affari suoi. Ma non mi convincerà mai a farlo”

“Figliola, tu parli per partito preso”

“Se parlassi per partito preso non avrei tanti argomenti con cui abbattere la sua discussione”

Sua madre la interruppe. “ Ti prego, Iari. Prova almeno a comunicarti, fallo per me”

“Và bene” esclamò Iari, che sapeva bene come andavano a finire le liti con sua madre. L’aveva sempre vinta lei, in un modo nell’altro. Carla Giusteni era la donna senza macchia, quella che non sbagliava mai.

“Accomodatevi in cucina, padre”.

In casa non c’era un salotto o una sala da pranzo. Era un’abitazione modesta e composta da poche stanze arredate in modo frugale. Carla Giusteni aveva grande stima della religione cristiana, in cui riponeva la sua massima fiducia.

Padre Lucio aspettò che lei si sedesse. Poi si accomodò al suo fianco e le prese la mano sottile tra le sue.

“Confessa figliola, quali sono i tuoi peccati?”

Iari assunse un’aria dimessa e vergognosa.

“Sono rimasta incinta”.

Un silenzio di tomba riempì la stanza. L’unico rumore era il cinguettio di un fringuello fuori dalla finestra, e il ticchettio dell’orologio sulla mensola.

“Vedi figliola..”

“Sono rimasta incinta, ho bestemmiato, ho sposato un galeotto di nascosto, mi sono riscoperta omosessuale e ho premeditato il suicidio”

“Mi prendi ancora in giro, Iari?”

“No, l’ultima cosa l’ho fatta sul serio”

Padre Lucio si alzò indignato e se ne andò senza nemmeno salutare.

Prima che sua madre potesse raggiungerla e tediarla con la sua ramanzina, Iari sgattaiolò in camera (per quanto le sue stampelle glielo permettessero) e chiuse la porta.

Quando finalmente si potè stendere tirò un sospiro di sollievo. Era stata tutto il giorno in piedi o seduta. Quello era il guaio con i rientri. Aveva appoggiato le stampelle alla sponda del letto.

Si addormentò senza quasi accorgersene. Alle sette e mezza di sera sua madre entrò in camera, piano, cercando di fare poco rumore. Iari non faticò a sentire i suoi passi resi pesanti dagli zoccoli: il suo sonno era leggero.

“Mamma”

Carla Giusteni s’immobilizzò vicino alla scrivania.

“Mamma, che fai?” chiese Iari con la voce impastata dal sonno.

La madre si avvicinò al letto “Sei sveglia?”

“Sì”

Carla Giusteni si sedette al bordo del letto, e con una mano carezzò i capelli a sua figlia. Non si rendeva ancora conto di quanto fosse cresciuta ed in così poco tempo. Per lei il tempo sembrava andare a rilento. Con Iari invece intratteneva un rapporto di brevità vorticosa.

“Ho raccolto la biancheria stesa”

“Mamma..”

“Che c’è?”

“Niente”

“Dormi, Iari” disse, prima di andare via silenziosa com’era entrata.

Ma Iari non aveva nessuna voglia di continuare a dormire. Non era una cosa a cui era abituata.

Prima che succedesse quello alla sua gamba non aveva mai dormito se non di notte.

Accese la luce e appoggiò il corpo sui gomiti. Riusciva a guardarsi nello specchio. I suoi capelli erano sporchi, e tanto più lo sembravano alla luce della lampada. Li portava in un carré corvino. Il suo viso era sottile e semplice, il naso prominente. Non c’era niente in lei che fosse perfetto. Aveva un corpo slanciato, ma forme appena accennate. L’unicità della sua persona le valeva come compensativo di tutte le mancanze.

Mentre osservava la sua immagine allo specchio, ebbe la visione fulminea di una donna girata di tre quarti verso di lei.

Si rimise faticosamente in piedi sulle stampelle e prese tra le dita un carboncino. Sullo specchio, sopra la sua figura riflessa, iniziò col tracciare un mantello morbido che terminava con uno strascico.

Quindi ricopiò il suo profilo, con occhi che sprizzavano scintille e un cappuccio ad avvolgerle il capo.

Poi Iari si guardò intorno. Sulla parete opposta erano appoggiati tutti i suoi dipinti, che fossero di carta o sulla tela, piccoli o grandi.

In un angolo aveva impilato invece le tavole bianche, tra cui un bellissimo telo alto e lungo avuto in regalo da un’amica milanese di sua madre. Decise che quella sera l’avrebbe utilizzato.

Si avvicinò alla scatola dei colori a olio. Rimaneva un tubetto di porpora, uno nero, metà di turchese e metà di grigio scuro.

Infilò tutto in una busta e la mise in borsa assieme ai pennelli e una bottiglietta d’acqua. Poi legò il telo ad una cinghia e la fissò tra l’avambraccio e la spalla.

“Vado a dipingere al lago!” disse alla madre prima di uscire.

“Torna prima delle nove” rispose Carla dalla cucina.

Casa Giusteni stava assieme ad un piccolo complesso di villette proprio di fronte al lago. La porta sul retro ne era distanziata da più o meno duecento metri.

Non si trattava davvero di uno di quei grandi laghi di cui non si vedono le estremità. Quello aveva le sponde ben visibili e traversabili con dieci minuti di andatura moderata. Tutt’intorno non c’era che l’erba e una serie di alberi di contorno, molto utili a fare ombra nei giorni d’estate.

L’acqua era melmosa: raramente qualcuno decideva di tuffarsi, e sempre e solo in preda alla calura estiva. In autunno era quasi sempre deserto. Il solo rumore che lo caratterizzava, indipendentemente dalla stagione, era il canto dell’upupa, che a differenza di tutti gli altri uccelli, aveva un suono basso e gutturale.

Di quella stagione c’erano molte upupe. Si era agli inizi di settembre, l’aria era mite ed il sole cominciava a tramontare alle sette della sera.

Iari andò a sistemarsi in un posto tranquillo, sotto l’ombra di un faggio. Quello lì era il suo posto, tanto che ci aveva messo perfino una vecchia sedia di ferro battuto. Nessuno l’aveva mai toccata, tutti sapevano che quello era il posto di Iari Giusteni. Posizionò la tela con uno spigolo per terra e l’altro sul tronco dell’albero, fino a raggiungere una certa stabilità.

Poi appoggiò le stampelle alla sedia con i manici infilati in un bracciolo.

Prese in mano la matita e principiò col tracciare la linea del viso, gli zigomi morbidi, il mento ovale, la forma degli occhi. Quindi la forma del collo ed il panneggio del mantello che incorniciava il viso e avvolgeva il resto del corpo in una forma sinuosa.

Posò la matita sulla borsa e prese il pennello più appuntito, un tubetto con rimanenze di color carne ed il porpora.

Una volta sfinita per essere rimasta a sedere per tanto tempo, Iari decise di continuare il lavoro il giorno successivo. Stette per un pezzo ad ammirare la tela. Aveva impiegato molto tempo per i dettagli del viso ed i chiaroscuri, ma poteva affermare con soddisfazione che ce l’aveva messa tutta. Il volto della donna era morbido e sulle guance si diffondeva un rossore acceso contro il pallore del contorno. Gli occhi, ottenuti dal paziente miscuglio di nero e turchese, contenevano una varietà di ombre tanto da sembrare vivi. Una lama di luce illuminava l’occhio e la guancia sinistra.

Iari si ripromesse di terminare il mantello e lo sfondo l’indomani.

Cacciò la lacca dalla borsa e ne spruzzò uno strato sottile sulla parte dipinta. Aspettò un paio di minuti e ripeté l’operazione due volte. Una volta assicurata che fosse completamente asciutto, Lo riavvolse nella cinghia e, come aveva fatto prima, si rimise sulle stampelle.

Guardando il cielo, a occhio e croce avrebbe potuto dire che fossero le otto e mezza. Era comparsa qualche stella, e una luna scarlatta troneggiava regina sopra la linea dell’orizzonte. Era incredibilmente grande.

Stava per voltare le spalle ed incamminarsi verso casa, quando si accorse di una presenza a cui prima non aveva fatto caso. Un uomo era in piedi, chino sul lago con una canna da pesca, i muscoli del viso tesi per lo sforzo, e ruotava febbrilmente la manovella della canna. A quanto sembrava, gli aveva abboccato un pesce davvero grosso. L’acqua tutt’attorno alla canna schiumava.

L’uomo faceva un gran trambusto, sarebbe stato impossibile non notarlo. Sbatteva i piedi per terra e si lasciava andare prima ad esplosioni di giubilo come “Ce l’ho fatta!”, per poi smentirsi cinque secondi dopo con un “Porca vacca ladra!”.

Per un momento l’uomo si fermò, sopraffatto dalla stanchezza. La manovella era diventata troppo dura da smuovere anche per uno come lui. La lasciò andare, e quella srotolò tutta la lenza ad una velocità spaventosa. Era come se un macigno la stesse trascinando giù. Iari si chiese se davvero mai esistessero pesci tanto grandi in un lago così insignificante. All’improvviso la manovella si bloccò. Il pesce era fuggito.

L’uomo la ritirò su, questa volta senza alcuno sforzo.

Era tarchiato e di media statura, sulla cinquantina, con la schiena nuda ed un tatuaggio in bella vista che si arrampicava sul bicipite. Tirando a indovinare, Iari avrebbe scommesso che fosse un serpente d’acqua. Portava una maglietta legata in vita ed un pantalone lungo di stoffa leggera. Una catenina d’oro gli avvolgeva il collo.

Non appena si accorse di aver perso il pesce, si sedette sull’erba a gambe incrociate. Invece di darsi per vinto rigettò amo e lenza nel lago ed assunse immobile un’espressione di paziente attesa.

Iari si avvicinò a quel singolare personaggio. L’uomo sollevò la testa e sibilò al suo indirizzo:

“Shh…Cammina piano!”

 Iari modulò la sua andatura, per quanto le stampelle scricchiolassero a contatto con il terreno.

Quando fu arrivata al suo fianco, l’uomo le sorrise misteriosamente.

“Bella serata, vero?”

“Sì”

A queste parole seguì un breve silenzio. Iari lo riempì con la sua curiosità.

“Come è andata la pesca stasera?”

L’uomo fissò l’orizzonte.

“Eh, male”

“Di dove siete? Non vi ho mai visto da queste parti, non vi ho mai visto pescare qui”

L’uomo si lasciò andare ad una risata aperta e cordiale.

“E’ normale, ragazza, noi veniamo da molto lontano”

Iari si sporse verso di lui. “Noi?”

“Sì” fece l’uomo “Noi” disse accennando con la testa ad un gruppo di uomini seduti sulla riva opposta, anche loro con le canne da pesca in mano. Erano vecchi, giovani, bambini. Iari sussultò. Com’era possibile che non li avesse notati prima? Al cenno dell’uomo diversi tra loro sollevarono la mano in saluto.

Lentamente sulle loro teste scendeva una fitta tenda di nebbia. In cielo non c’era più alcuna stella. Il punto più vicino che Iari riuscisse a vedere era il suo faggio, pochi metri più in là della riva.

“ Mi permette una domanda, signore?”

“Sicuro”

“Prima.. prima ho visto che aveva abboccato un grosso pesce. Mi chiedevo se..”

L’uomo ricacciò la testa indietro e scoppiò a ridere per la seconda volta. Iari pensò a cosa ci fosse di divertente in quello che aveva appena detto.

“Un pesce?! Oh, no, non sono un pescivendolo, se è questo che intendi, ragazza”. L’uomo avvicinò in tal modo la sua faccia a quella di Iari, che ne potè osservare ogni singola ruga. Le puntò le pupille nelle sue, e Iari ebbe l’impressione che stesse scrutando molto più a fondo degli occhi.

“Noi siamo pescatori di lune”

Con il dito indicò la luna, grande e rossa, che si stagliava contro di blu pervinca del cielo.

“Stanotte c’era luna nuova. E’ difficile pescarla quando è così pesante. Ma quando è una falce.. dicono che sia facilissimo tirarla su”

“Ma..” boccheggiò Iari sbigottita “Ma non si può pescare la luna”

“Oh, si che si può, ragazza. E non dare giudizi su cose che non conosci” ringhiò il pescatore “Mi innervosisce l’aria da ragazzi moderni che avete al giorno d’oggi. Credi di sapere tutto?”

“No”

“Bene”

“Soltanto non capisco..”

“Cosa?”

“Come fa la luna a stare in un lago?”

“ Ah, ma bè.. se proprio ci tieni” accennò alla luna alta nel cielo senza staccare le mani dalla canna da pesca “Quello che vedi lassù è un riflesso. La luna, quella vera, è in fondo al lago. L’hai visto con i tuoi stessi occhi, prima”

Iari osservò la luna dipinta sulla superficie del lago. Che fosse davvero come diceva il vecchio? Che davvero la luna stesse laggiù, sepolta tra le alghe da secoli indefinibili, ridotta ad un relitto. Che davvero i pesci le ballassero intorno, nella più nera delle acque?

L’interrogativo si fece pressante.

“ Fino a che ora rimanete quaggiù?”

Il pescatore sollevò le spalle.

“Tutta la notte, credo” “Andremo via l’altro domani.. ma forse l’altro domani ancora” aggiunse prevedendo la domanda.

Iari si riscosse dal torpore che l’aveva presa fino a quel momento, e si accorse che ormai dovevano essersi fatte le nove e mezza. Sua madre l’aspettava da mezz’ora a cena.

“Arrivederci” mormorò al pescatore, che si limitò ad emettere un verso a metà tra ciao e addio.

La ragazza girò i tacchi diretta verso casa.

La nebbia si era fatta ancora più grave. La cortina umida era tanto pressante che Iari sentì i suoi vestiti infradiciati dalla pioggerellina leggera.

Non appena guardò se stessa nello specchio all’ingresso si accorse di avere i capelli bagnati alla radice. Sistemò il quadro in camera con molta cura e scese in cucina.

Carla Giusteni stava guardando il telegiornale. Seguiva il caso mafioso Raimondi con tanta passione che Iari si chiedeva cosa ci trovasse di talmente interessante.

Si accorse subito della figlia che entrava, mentre partiva la sigla di chiusura del tg serale. “Iari, ti prenderai un accidente! Sai quanti gradi ci sono fuori? È il settembre più freddo che abbiamo mai avuto, ho appena sentito il meteo. Nei prossimi giorni sarà anche peggio.. dieci gradi, è incredibile. Ti ho acceso il camino di là” aggiunse spiccia “Io sono davvero troppo stanca, me ne vado a letto”

Prima di trascinarsi stancamente su per le scale, le ricordò che aveva lasciato la sua cena sul tavolo.

Iari sollevò il piatto di copertura. Due fette di crudo, del formaggio, un po’ di zucchine.

Mandò giù tutto piuttosto di fretta. Non mangiava niente dal pomeriggio, e la pittura la stancava sempre. Ripensò a quando si esercitava con il moleskine che le aveva regalato sua zia, prima che i suoi si fossero separati.

Il ricordo la riportò alle sere d’estate nel giardino, a casa di suo nonno che in fondo era anche casa loro. Ripensò a sua zia e al suo carattere dolce, ai suoi zii alti e bellissimi, a suo nonno e ai suoi occhi mare, ripensò a quella famiglia che aveva amato come solo i bambini possono amare.

Ripensò a tutti i loro capelli che si erano fatti grigi, ai figli, al lavoro alle malattie e ai litigi, alla morte. Ripensò alla scritta vendesi contro il bianco del muretto di quella casa, la sua casa maledizione! Ripensò a come erano diventati estranei con il tempo. Le mancavano in un modo che le si stringeva un laccio attorno alla gola quando ci pensava. Lei, nel deserto, mentre tutti le voltavano le spalle. Solitudine.

Sì, aveva imparato a reggerla bene. Però, però adesso aveva bisogno di un po’ di vino per sfumare un po’ la sensazione cruda.

Aprì il frigorifero. C’era solo una lattina di birra. ‘Merda’ pensò ‘Questa è acqua ’

Scivolò in salotto. Sua madre dormiva già della grossa, e poi la conosceva abbastanza per sapere che non sarebbe scesa giù fino alla mattina dopo.

Aprì lo sportello degli alcolici per le occasioni importanti (che in realtà non accadevano mai, visto che Carla Giusteni aveva pochissimi amici). C’erano diverse bottiglie di Gin muffito, un paio di Martini e una bottiglia da mezzo litro di porto.

Iari la prese con fare circospetto e richiuse l’anta. Era una di quelle bottigliette che vendevano al supermercato vicino scuola, le aveva già viste. La mattina dopo ne avrebbe semplicemente comprata una uguale, e naturalmente sua madre non si sarebbe accorta di nulla.

Era da diverso tempo che lo faceva. Prendere qualcosa di forte la sera, di nascosto. All’inizio beveva una mezza bottiglia e se ne andava letteralmente di testa. Poi aveva cominciato con una bottiglia intera. Le ci era voluto tempo per abituarsi. Adesso buttava giù mezzo litro di Porto e restava semplicemente brilla. Senza non si sentiva bene. Aveva bisogno di circuire le emozioni negative, i ricordi e poi mandarli giù insieme al porto, nello stomaco.

Iari andò a sedersi proprio di fronte al camino, lasciandosi al fianco le stampelle. Si allungò sul divano e ingollò un sorso di vino. ‘Non male ’ in realtà le faceva schifo. Ma era un ottimo modo per distrarsi. Dopo tre sorsate iniziò a fare effetto. La vista le si annebbiò, la nebbia ridiscese, piano, calda e leggera.

 

“Giusteni”

“Giusteni! Ma mi senti o no? E’ con te che stò parlando”

Iari sollevò la testa dal banco. Aveva la guancia schiacciata per metà. Le lezioni della professoressa Marelli erano di una noia incredibile. In più la matematica non era mai stata il suo forte. L’insegnante aveva sempre fatto in modo da metterle i voti peggiori. Per quanto provasse ad applicarsi.

Sentiva un certo astio da parte di quella donna. Ogni volta che entrava in classe la squadrava da capo a piedi senza un preciso motivo. Una volta aveva raccontato con fastidio questa cosa a sua madre.

“Bè, ma è ovvio, se vai in giro vestita come una zingara” aveva replicato Carla Giusteni con uno sbuffo di impazienza.

Iari si guardò. Quella mattina aveva un dolcevita grigio, una gonna nera a fiori e gli stivaletti scuri. Che giustificazione aveva stavolta per tormentarla?

“Giusteni, se sei ancora con noi,  mi serve il tuo certificato di idoneità per andare in piscina la settimana prossima”

Iari prese il foglietto per metà stropicciato dalla tasca anteriore della sua borsa e glielo porse. La Marelli lo infilò tra un pacchetto di carte nel suo fascicolo.

“Arrivederci, ragazzi” Disse mentre la campanella dell’intervallo suonava.

Iari mise la sua roba in borsa e lasciò i libri per le ore successive sotto il banco.

Si fermò in cortile. Mentre si sedeva su di una panchina e ci appoggiava sopra le stampelle, si avvicinarono Michele Cervi e Paolo Battistino.

Michele era un suo compagno di classe. Portava i capelli bruni in un taglio all’ultima moda, una maglietta all’ultima moda, dei vecchi pantaloni all’ultima moda e degli occhiali, immancabilmente all’ultima moda. Considerato che il cielo era cupo e carico di nuvole, Iari restò perplessa riguardo l’utilità di questi ultimi.

Paolo, il suo fido segugio (anche lui caratterizzato dagli accessori sopraccitati), si differenziava dall’amico per l’aspetto fisico. Michele era alto, bruno e con gli occhi chiarissimi. Paolo invece era di media altezza, capelli chiari e occhi scuri. Entrambi ostentavano un portamento superiore.

In che cosa consistesse poi questa superiorità Iari non lo capiva. Ma tutto sommato non gliene poteva fregare di meno. Vivi e lascia vivere. Anche se era sicura che il giorno prima fosse stato lui a farla cadere.

Cacciò dalla borsa il panino al salame e stava per addentare un morso quando appunto Paolo si sedette accanto a lei. Michele le si piantò di fronte con un sorriso beota e gli occhiali calati sul viso.

“Giusteni, domani andiamo in piscina insieme! Non sei contenta?” esclamò con una voce in falsetto. Iari lo guardò con scarso interesse.

“Non mi cambia la vita”

Michele si rivolse all’amico. “Io ho il costume rotto qui davanti. Tu ce l’hai uno da prestare, Paolo?”

Paolo scosse la testa.

“Ah.. allora le ragazze devono stare attente” disse, fissando Iari.

“Giusteni, mi presti il tuo tema di storia dell’arte? Io non ho ancora finito il mio”

“Non so che farti”

Paolo la guardò con disprezzo.

“Puttana” mormorò tra i denti dopo aver girato la testa.

“Cos’hai detto?”. Iari si sentì ferita. Peggio, disgustata. Paolo non rispose.

 “Cos’hai detto?”

“ Ho detto che volevo il tuo compito”

“No, quello che hai detto dopo”

“Ho detto che volevo il tuo compito”

“No, non è vero”

“Che succede qui?”. Una voce bassa alle loro spalle interruppe la discussione. Iari riconobbe in quel tono Enrico De Mara, un ragazzo che frequentava la sua stessa classe a cui voleva molto bene. Era stato la prima persona cordiale, se non l’unica, che aveva conosciuto durante quei quattro mesi di scuola.

Enrico era amico di tutti, per naturale ironia della sorte o per spiccato istinto d’adattamento.

“Mah, nulla” rispose Paolo.

Michele continuò a fissare Iari.

“ Giusteni non vede l’ora di vedere il mio costume” disse scoppiando in una risata beota insieme all’amico.

“Taci, per piacere, idiota”

“ Sarò idiota come dici tu, ma io al contrario di te, Giusteni, almeno una ragazza ce l’ho”.

Iari rimase con il suo panino a mezz’aria senza replicare. Le salirono le lacrime agli occhi, ma non avrebbe pianto lì davanti per tutto l’oro del mondo. Senza una parola raccolse la borsa, si rimise sulle stampelle e se ne andò facendo forza sulle braccia per camminare il più veloce possibile.

Le tornarono in mente delle sequenze veloci, come spezzoni. E quella sera in macchina.

Mentre addentava rabbiosamente il panino non poteva fare a meno di pensarci. Ormai il suo cervello lavorava da solo.

E da solo ritornò  a quella sera che non poteva, non poteva dimenticare.

Aveva finito di studiare, era appena scesa di casa con Giovanna. Erano amiche da quanto? Da una vita, incalcolabile. E le voleva un bene dell’anima perché Giovanna la accettava così com’era, con tutte le sue manie, i difetti, le esagerazioni che erano parte integrante della sua natura.

La sua Giovi. Da quando se ne era andata l’aveva sentita sì o no due volte. Ed erano passati quasi cinque mesi.

Avevano fatto due passi in centro, poi erano andate a stare al consorzio per un pò. Era lì che stavano tutti, la sera. E poi era arrivato Mirko, con una sgommata, con la sua ford vecchio modello.

Era sceso dalla macchina e l’aveva strattonata. Era ubriaco.

“Tu vieni con me adesso!” aveva urlato, senza un motivo, senza un motivo.

Non era volata una mosca. Tutti vedevano che Mirko era impazzito e nessuno sapeva cosa fare. E poi, così all’improvviso lui aveva abbandonato quell’aria da cane rabbioso e l’aveva abbracciata. “Iari, Iari, io non so cosa devo fare. Tu mi vuoi abbandonare, Iari” aveva pianto tanto disperatamente… Iari non capiva che cosa gli fosse successo. Solo fino a ieri avevano riso insieme.

L’aveva seguito in macchina. Avrebbe guidato lei fino a casa, tanto la patente l’aveva quasi presa. E poi non li avrebbe fermati nessuno. Non poteva lasciare che ritornasse a casa da solo. Aveva paura che gli succedesse qualcosa.

L’aveva fatto sedere sul sedile accanto, e lei al volante. Ma a metà strada lui aveva perso di nuovo la ragione con la stessa immediatezza di prima. Le urlava di fermarsi, e lei gridava che non poteva fermarsi in mezzo alla strada. Aveva parcheggiato alla prima piazzola.

“Fammi guidare” aveva detto lui, con gli occhi infuocati

“No, tu..”

“Fammi guidare!”

Era sceso dalla macchina, aveva aperto il suo portello e l’aveva trascinata fuori per i capelli.

“Fammi guidare!” aveva gridato mentre la colpiva sulle braccia.

“Fammi” dandole una gomitata nello stomaco.

“Guidare!” Le aveva colpito il viso.

Poi si era seduto al posto di guida. “Entra”

Iari non aveva potuto fare altro. Senza una parola era rientrata e aveva chiuso il portello. Aveva paura e si sentiva umiliata. Con il dorso della mano si era asciugata il sangue che le colava dalla fronte. Le aveva fatto male e l’aveva umiliata. Lo aveva osservato mentre guidava con lo sguardo fisso sulla strada, e quella paura si era trasformata in una fottuta rabbia. Sul cruscotto c’era il suo lettore CD, quello che doveva rottamare. Lo aveva scagliato contro di lui con un grido disumano. Lui aveva annaspato.

Allora Iari aveva avuto paura che potesse davvero ammazzarla. Gli aveva tirato addosso dei dischi, alla cieca, ed uno di questi lo aveva preso in faccia.

Mirko aveva battuto la testa contro il volante. La macchina contro il Guardrail. Iari aveva trovato appena il tempo di pensare che tutto quello, tutto quello era successo senza un motivo.

Poi, il buio.

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Jolene