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Autore: shining leviathan    01/06/2010    3 recensioni
" Devi capire, Reis" ringhiò " che la bellezza è tutto" da allora sarà la sua ossessione e la sua maledizione. Amerà un unico uomo tra tanti. Colui che venne chiamato in seguito, il Tiranno. il primo capitolo è un pò corto ma sono a buon punto del secondo!
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aster, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Pain of a woman'
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Da allora la mia vita cambiò drasticamente…..

 

 

 

Mi pettinai i capelli, con gesti pigri e lenti, soffermandomi ad ammirare la sfumatura aranciata che la luce del sole risaltava entrando dalla finestra aperta sul giardino. Il vento gonfiava le tendine di garza, come ali immateriali, travolgendo ogni cosa, facendo tintinnare gli amuleti appesi al baldacchino del letto. Rinfrescando il fuoco che avevo dentro.

I miei stessi occhi  mi fissavano con smarrimento sulla superficie traslucida dello specchio, chiedendo conferma di un piacere che incendiava la pelle, ancora fremente nei punti in cui dita maschili mi avevano toccato.

Quella volta ero proprio andata troppo in la.

Da quando mia madre, pace all’anima sua, era tornata nei cieli io non avevo fatto altro che prendere il suo posto ,emulandola in tutto ciò che lei mi aveva raccontato. Per anni ero stata un’attenta osservatrice della vita a corte, seguivo con lo sguardo ogni potenziale peccatore, scoprendo per la prima volta i segreti che si celavano dietro una persona.

Adoravo spogliarli uno a uno delle loro difese, leggere fra le righe cose che non mi sarei mai immaginata. Godere del peso stupidamente vanificato di un segreto.

Ma da semplice spettatrice divenni protagonista, con risultati che alla luce del sole sarebbero diventati catastrofici per il buon nome della mia famiglia.

Dopo la morte di Avel, mio padre riversò su di me le sue frustrazioni, tanto che l’essere femmina e gnoma cominciò a pesarmi come un macigno. E allora, solo allora, capii cosa intendesse mia madre quando diceva che per la nostra razza non c’era posto fra gli uomini.

Divenne un’ossessione. Tutte le critiche che mi muoveva contro si infrangevano come un’onda su uno scoglio, incassate senza dire una parola. Nella stupida convinzione che fosse solo il frutto di un dolore che non potevo capire fino in fondo, lacerante nei suoi artigli di alabastro. Lo stesso albastro su cui avrei perso la verginità, con l’unico uomo che poteva capire cosa si celasse sotto la scorza dura e volitiva della me d’allora. Ma devo andare per ordine, non ho molto tempo e c’è ancora così tanto da raccontare.

Le avvelenate critiche di mio padre cominciarono a incrinare la barriera che mi ero costruita all’età di dodici anni. L’età giusta per cominciare a pensare seriamente ad un alleanza matrimoniale.

Una figlia che non aveva nessuna utilità poteva risultare ottima merce di scambio per qualche matrimonio con i nobili delle terre più ricche. E lui non perse tempo.

Cercò contatti con i più facoltosi partiti del tempo, grato di avere tanta scelta nelle sue mani. Pregustava già la meritata vittoria, e io mi deprimevo.

Piangevo per ore chiusa in camera mia, confortata solo dal suono di un clarinetto immaginario, strumento che era appartenuto a mio fratello e che nessuno aveva mai più suonato dalla sua scomparsa. Eppure io lo sentivo, sentivo le note vellutate fluttuare sopra la mia testa come variopinte farfalle. La carezza di quella nenia che sostituiva la mano affusolata di Avel è sempre rimasta lì, fino alla mia adolescenza. Come se non mi avesse mai abbandonato veramente, che fosse solo partito per tornare quando tutto questo sarebbe finito. E sarebbe finito in un modo alquanto doloroso, per me.

Mia madre delle volte bussava, altre entrava come un mare in tempesta e mi prendeva per le ascelle, stampandomi un bacio profumato sulle guancie rigate dal sale. Mi cullava per ore, finchè gli spasmi non scivolavano dal mio corpo in soffocati singhiozzi assorbiti dal suo florido petto.

In quelle occasioni mi insegnò a pettinarmi, fino a farmi rilucere i capelli. Legava i fiori alle ciocche dorate, intrecciandomele mentre intonava una canzone vecchia quanto gli gnomi stessi.

Confidò, mentre puliva le mie unghie nere, che prima di sposarsi era fiera delle proprie origini, innamorata delle tradizioni quanto di uno gnomo suo coetaneo.

“ Era bello” sussurrava evidentemente emozionata dal ricordo “ E molto gentile. Ci incontravamo spesso nel bosco vicino al villaggio, ma lui era un servo, io la figlia del nobile locale” sospirò, spenta all’improvviso dell’entusiasmo di poco prima “ Non poteva funzionare” concluse secca, piantandomi la spatolina nella pelle sotto la mezzaluna bianca.

Sapevo che dopo il suo sposalizio si era sentita rifiutata da tutti, incluso suo marito, e forse fu proprio per questo rifiuto che cominciò ad odiare se stessa quasi quanto odiava gli altri. Un circolo vizioso che inconsciamente comprendeva anche me.

Lei si rivedeva nella mia figura, rivedeva ciò che non sarebbe mai più stata, infanzia pianta nelle lunghe notti di veglia. E non esitava a rendermi la vita difficile con la stessa costanza con cui mi iniziava ai segreti del bello. Non sosteneva appieno le mie scelte, non mi cercava nemmeno per il più futile motivo di una carezza, gesto istintivo per qualsiasi madre ma non per lei. Ero una bambolina da tenere sotto chiave, mi ammirava solo quando era sicura di non avere altri pretesti se non quello di vezzeggiare se stessa.

Se vezzeggiava me era solo per ostacolare mio padre, allora a quel punto diventava una lotta aperta. Io ero solo il capo espiatorio per le loro dispute sommerse, coccolata solo per avere una consolazione alla fine. Alla fine era sempre lei a venire da me per aizzarmi contro mio padre, ma io non volevo essere una pedina, men che meno per i loro affari.

Ma grazie al fatto di essere la consolazione preferita di mia madre, ho imparato molto di ciò che averi fatto fruttare più tardi.

Crescendo divenni sempre più bella. Tanto che mio padre mi proibì di sposarmi in attesa di un nobile che avrebbe sborsato parecchio per la mia mano. Accettai con intima esultanza, mentre mia madre si spegneva in una delle stanze della residenza invernale.

Non la piansi. Ma la ricordai, e la ricordo ancora, con quell’aroma di vaniglia e fieno greco. Un ricordo sia amaro che dolce, che ancora permea nella mia mente stanca.

Ma il tempo vola, e io ricordo sempre meno ogni giorno che passa.

Un anno dopo, l’esultanza del mio nubilato forzato cominciò ad angosciarmi. Gli uomini, che prima pensavo fossero mucchi di carne, diventarono ai miei occhi  più interessanti. Desideravo avvicinarmi, più della censura di mio padre, forte di quella curiosità infantile nel chiedersi perché lui abbia questo e io no. La vergogna mi assaliva solo di notte, quando sognavo un incontro molto diverso da come era andata in realtà.

La mia prima cotta fu per un giovane scudiero, niente di che, eppure a ripensare a quelle mani dalle dita lunghe che accarezzavano il pelo raso dello stallone di mio padre non potevo fare a meno di immaginare la mia pelle al contatto con le falangi ruvide del giovane, desiderosa di dare e di ricevere. Mi svegliavo con la vestaglia fradicia di sudore, affannata come al termine di una corsa. Nulla di tutto ciò che bramavo raggiunse la realtà, anche perché le prime cotte sono sempre le più effimere.

Questa esperienza mi aiutò a maturare. In peggio, penso adesso con la lungimiranza della vecchiaia.

Iniziai a cercare la compagnia maschile. Prima nel palazzo, poi dagli sconosciuti di qualche terra lontana. Mutai in spregiudicata, perché se avevo imparato qualcosa era che l’uomo non apprezzava  la donna remissiva. Scambiai vaghe promesse d’amore con chi si mostrava poco sincero nel sorriso da lupo predatore, e lo abbandonavo con la stessa facilità con cui cambiavo l’abito. La fama della  donna bellissima e crudele si sparse per tutto il Mondo Emerso, rimanendo però sotto lo strato della servitù e  lontano delle orecchie di mio padre, famoso per le sue ire e vendette altrettanto terribili.

Gli sarebbe esploso il cuore dalla rabbia se avesse saputo che facevo entrare estranei in camera mia. Passavo la notte tra baci umidi, sentori afrodisiaci di quel sentimento che non era amore, ma una sorta di appagamento che riempiva le crepe affettive della mia vita.  Nonostante tutto non mi sono mai concessa a nessuno. Non mi sono spinta mai al di là di effusioni.

Sapevo che doveva essere una cosa speciale, con una persona speciale.

Tutti quelli che incontravo si mostravano rudi, interessati più alla collana di smeraldi che alla mia scollatura. Erano poveracci, ma anche alcuni facoltosi non si comportavano diversamente.

Con una scusa e una promessa che non avrei mai mantenuto li congedavo, per non ammetterli mai più nel mio spazio personale.

Provavo un piccolo piacere perverso nel sentirmi padrona dei loro sentimenti. Non esitavo a calpestarli. Come una vendetta lungamente attesa sia per me che per mia madre. Pensavo che nessun uomo sarebbe mai stato abbastanza, ma contro ogni probabilità uno di loro si inserì inevitabilmente nel mio cuore.

Anche se non era propriamente un uomo.

 

 

 

 

 

 

“ Madamigella Reis? Dobbiamo andare”

Quel giorno saremmo partiti per andare al palazzo della terra dell’Acqua, il luogo dove si sarebbe riunito l’ennesimo Consiglio. Mio padre era in contatti molto intimi col re e la graziosa consorte, una giovane ninfa che contro ogni convenzione aveva sposato un umano. Un gesto lodevole che avevo sempre ammirato senza, tuttavia, fare supposizioni in proposito. Mio padre era un mago di mondo, ma non tollerante, e certi argomenti, sapevo, dovevo tenerli per me.

Mi preparai, scegliendo il vestito da viaggio migliore e acconciandomi i capelli in una treccia spessa. Mi diressi verso la carrozza, schivando i domestici che uscivano di casa carichi di bagagli, gabbie, libri e mi accomodai sulla carrozza elegante schizzata di fango secco. Guardai a lungo l’erba della terra del Vento muoversi sinuosa finchè, vinta, mi addormentai all’ipnotico ritmo dei ciuffi smeraldini.

 

 

 

 

Arrivammo dopo due giorni, stanchi e affamati. Le prime guglie del palazzo svettavano tra le scroscianti  cascate, che rinfrescavano l’immensa cupola di vetro in un’eterna foschia.

Ricordo con precisione il caos di quella mattina. I servi che scaricavano i bauli, il fragore dell’acqua e i colpi di tosse di qualche mago anziano. Io stavo vicino a mio padre, annoiata più che intimorita, aspettando l’arrivo del suo paggio personale. Non tardò molto, scese le gradinate umide quasi di corsa, arrivando rumorosamente fino a noi, rischiando di rovesciare le gabbiette con i canarini mezzi morti dopo quel viaggio snervante.

“ Benvenuto a Laodamea, signore” aveva le guancie rosse, il fiato usciva dalla sua bocca in sonori sbuffi, ma mio padre era troppo impegnato a fissare qualcosa oltre le sue spalle per potersi accorgere del  suo goffo benvenuto.

“ Aras” disse freddo “ Sono già arrivati i rappresentanti delle Terre?”

“ Non tutti,signore. Il consigliere Doruk  è stato colpito da un ictus l’altro giorno, penso che abbiano mandato un sostituto.”

“ Lo vedo”

A quel punto anch’io dondolai sui talloni per vedere l’oggetto dell’interesse di mio padre. E ciò che vidi ,inizialmente, mi lasciò perplessa.

Un ragazzo che doveva avere più o meno la mia età affiancava un vecchio mago rugoso nel scendere le scale. Le ragnatele intorno agli occhi parevano accartocciarsi fra loro  quando apriva la bocca sdentata per parlare, un apoteosi rispetto al  giovane che sembrava fluttuare sugli scalini di marmo.

Il viso liscio e ovale ,incorniciato da una folta chioma blu, sembrava scolpito nel marmo, così trasparente da sembrare carta velina. Le vene azzurre intorno alle palpebre abbassate sembravano un rilievo plagiato dalla mano esperta dello scultore,  una bellezza così fragile da sembrare malata.

La veste che fasciava il suo corpo creava una netta contrapposizione tra la luce del suo viso e l’ambiente circostante. Come se avessero infilato ad un bambino l’abito di un ‘adulto.

“ E’ quello?” chiese mio padre indicandolo con un cenno della testa e Aras annuì, con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra.

“ Sì è lui. Il suo nome è Aster, è un bastardo. Figlio di un uomo e di una mezzelfo, però le sue doti magiche sono di gran lunga superiori alla media, anche il consigliere Erdal  ha espresso un giudizio favorevole su di lui.”

Mio padre non sembrò affatto contento, potevo capirlo dal modo in cui corrugava le sopracciglia. Penso che gli sia mai andato giù il fatto di aver accolto un mezzelfo nel Consiglio, per di più così giovane. Dopotutto chi poteva assicurarsi che non fossero solo doti passeggere?

“ Può esprimere tutti i giudizi che vuole, ma sta al Consiglio decidere se è davvero dotato”

Distolsi lo sguardo dal giovane mezzelfo, accorgendomi che qualcuno mi fissava a sua volta.

Non era un mistero che Aras avesse un debole per me. Quella non era la prima volta che lo sorprendevo a fissarmi intensamente, ma differenza di altri io non gli avevo mai dato l’opportunità di avvicinarsi. C’era qualcosa nei suoi atteggiamenti che mi innervosiva parecchio. E godere nel portare cattive notizie era uno di quelli.

Le dedicai una breve occhiata prima di sollevare il mento sdegnosa.

“ La prima seduta è fissata per domani mattina” disse inacidendosi del mio ennesimo rifiuto e si congedò camminando all’indietro come un gambero, staccando gli occhi irati da me solo dopo qualche metro, quando sparì tra la folla.

Feci roteare le orbite, irritata, e mio padre si allontanò senza una parola lasciandomi sola nello spiazzo battuto dal sole. Uno spostamento d’aria leggero mi fece voltare, giusto in tempo per vedere il mezzelfo e il vecchio passare di fianco a me. Le palpebre del ragazzo erano ancora socchiuse, e sentivo la voce flebile e roca dell’altro passarmi nelle orecchie. Poi, come se mi avesse letto nel pensiero, aprì lentamente gli occhi, lasciando che i raggi dorati gli illuminassero due sfavillanti smeraldi, che si mossero un attimo per osservarmi. Ma fu un attimo appunto, tornò alla conversazione senza dedicarmene un secondo. Spiazzata, lo fissai andarsene verso i giardini, formulando mille domande senza perché. L’effetto che solitamente sortivo su tutti i giovani uomini su di lui parevano non avere conseguenze. Mi aveva dedicato la stessa sfuggente attenzione che si dedica ad un oggetto inanimato, comune.

Una rabbia strana mi invase il petto. Strinsi i pugni fino a piantarmi le unghie nella carne. Come aveva osato mettermi alla stregua di una semplice donna? Io non ero semplice, ero perfetta. E lui, mezzelfo bastardo, aveva avuto il coraggio di non notare la mia bellezza?

Allora, forse, non potevo avere ai piedi chiunque.

No.

Ero perfetta. Lui sbagliato, e non dovevo perdere tempo con un misero blasfemo.

Un poco rinfrancata, con l’ombra dell’inquietudine a disegnare linee sulla mia fronte, chiamai Kuntal ed entrai nella reggia, buttandomi sul letto della stanza a me assegnata con un sospiro di piacere.

 

 

 

Per diversi giorni non feci altro che vagare come un fantasma per il palazzo. Alla lunga, anche quella deliziosa reggia mi stufò, e non potevo svagarmi in altro modo se non camminando per i corridoi o facendo passeggiate fin dove mi era consentito. Non descrivo la noia e la desolazione di quelle giornate, segante dall’amarezza dell’inerzia, ma arriverò direttamente ad uno degli episodi salienti della mia vita.

Kuntal mi accompagnava nelle mie fughe, ma quel giorno decisi di congedarla prima del previsto e continuare la mia passeggiata da sola. Il caldo era insopportabile nonostante la frescura delle cascate, e preferivo l’ombra del portico alla terrazza sulla torre in quelle circostanze.

L’abito chiaro e il velo di garza calato sul viso mi difendevano in parte dalle zanzare e dall’afa, scivolando dolcemente lungo i miei fianchi ad ogni passo lento e cadenzato. Tenevo gli occhi bassi, guardando l’intreccio di disegni sull’alabastro lucido, e avanzavo con calma quando una voce maschile con una nota d’infantilità mi fermò.

“ Damigella?” mi voltai, poco propensa a fare quattro chiacchere, ma con sorpresa mi accorsi che, attraverso il velo, la sagoma che mi si stava avvicinando aveva un’aria piuttosto famigliare.

Schiusi le labbra, sentendo l’ombra di un’intima vittoria risalirmi su per la spina dorsale.

Alla fine avevo ragione.

“ Aster?” finsi di pronunciare il suo nome con titubanza mentre questo si accostava a me allungando un braccio. Stretto nella mano teneva un fazzoletto, un mio fazzoletto.

Spalancai gli occhi.

“ Vi è caduto mentre scendevate le scale”

Abbassai gli occhi sul quadrato di stoffa, senza prenderlo. La delusione era diventata insopportabile, mi impediva quasi di respirare. Volevo ucciderlo, vederlo implorare una mia carezza.

Volevo l’attenzione sua come di qualsiasi altro uomo. Per calpestarla all’ultimo stadio di un amore perduto.

Presi il mio possesso con esitazione, dopo aver passato un minuto buono ad osservare la sua mano bianca. Sfiorai inavvertitamente la pelle, avvertendo un  brivido scendermi tra le dita e lo ringraziai flebile.

Delusione, semplice delusione.

Mi voltai, incredula e furiosa, per andarmene da lui, ma la sua voce mi bloccò ancora una volta.

“ Siete sola, damigella?”

Sbuffai, sollevando lentamente la garza sulla mia testa, e lo affrontai  di nuovo a viso aperto, stavolta leggermente stizzita.

“ Ciò che faccio non è affare vostro, consigliere. La ringrazio davvero molto per il favore ma ora, se permettete..”

Aster sorrise, ma non in maniera ironica. Pareva più comprensivo, e mi scoprii a pensare che la sua fossetta sul mento fosse deliziosa.

“ Non intendevo arrecarle disturbo. La mia era semplice curiosità. È già da qualche giorno che la vedo passare per questi luoghi, pensavo si annoiasse”

Rimasi colpita dalla sua cordialità, che accostata a quel viso ancora puerile e  pallido pareva fuori luogo, e allentai per un attimo il nodo di risentimento che provavo nei suoi confronti.

“ Effettivamente sì. Ma in questo posto non c’è quasi nulla da fare”

“ Allora non è ancora stata nei giardini nel lato sud”

“ No, sinceramente no”

Si avvicinò a me, tendendo un palmo aperto nella mia direzione. Un gesto così semplice che tuttavia mi fece sobbalzare. Sopratutto per quel sorriso genuino che ancora mi dedicava.

I suoi capelli di mare danzavano nella brezza.

“ Allora venga con me” 

Penso che se avessi rifiutato la mia vita sarebbe stata diversa, migliore in un certo senso. Ma davanti a quello sguardo che sapeva di purezza non ebbi il cuore di declinare l’invito. Anche se mi infastidiva la sua ingenuità difficilmente plagiabile sentivo come un senso di affinità che stava stringendo i nodi delle nostre vite per legarci indissolubilmente.  E quel nodo non si sarebbe mai più sciolto.

Cominciò tutto così.

Quando gli strinsi la mano che mi offriva ricambiando il suo sorriso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Reis e aster si sono incontrati, ma ancora delle cose devono succedere. Scusate se rimando il finale al prossimo capitolo ma veniva davvero troppo lungo se inserivo tutto adesso. Se sembra che ci siano delle cose affrettate l’ho fatto per non perdermi troppo in dettagli, volevo arrivare all’incontro fatidico.

Mony Purpa

 

Eh sì la serie è proprio finita! Ma tornerò presto a scrivere sul mondo emerso, ci sono alcuni personaggi che mi ispirano parecchio. Grazie per avermi seguita, lo apprezzo molto!

E, fra parentesi, anch’io parteggio per gli gnomi e il povero Avel. Tesoro che brutta fine che hai fatto T_T  ( Colpa tua… nda Avel)

 

Tawara

Davvero?? Sono felicissima che ti piaccia ^^ comunque anche per me Reis non è mai stato un personaggio da odiare. Non mi stava simpatica però nemmeno la odiavo, semmai un pochino di compassione. Il padre come vedi ho cercato di renderlo il più simile possibile a quello descritto nel libro, e lui sì che lo odio!

Spero che questo ti sia piaciuto, ciao un bacione e grazie ancora!!

Nihal Darko

Nuooooooo  povera Reis non è proprio tutta colpa sua! Prendiamocela col padre se vogliamo ( e giù randellate) per quanto riguarda Aster ih, ih lui e Reis nel prossimo capitolo Cough, cough!! Bhè si è capito..

Grazie del tuo sostegno!!

Ciaooooo!!!!!

 

 

 

  
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