Capitolo 4
Yin e Yang, come due
modi diversi di ascoltare.
«Hicchan! Ma allora è deciso? Domani andiamo a cena da Sanako?», le
chiese per l’ennesima volta il fratello, con occhioni luccicanti.
«Sì, Hana, te l’ho già detto!», rise lei, sulle sue spalle.
«E posso chiedere ad Harukina-cara di venire con noi?».
«Se Akagi te la lascia fai pure».
«Possiamo invitare anche lui», azzardò Yoehi, facendo scendere un
coccolone al rossino.
«Ma sei matto? Quello così mi stacca la testa a morsi!».
Hime saltò giù dalla schiena del fratello e si appese al collo
dell’amico, allegra. «Yo, mi hai appena dato un’idea
bellissima!».
Mito la guardò preoccupato. «Hime, ho paura delle tue bellissime idee».
«Perché non facciamo una bella cena con tutta la squadra?».
«Cena? Squadra? Che state progettando?», domandò Ryota, comparendo in
quel momento con le mani intrecciate sulla nuca.
«Esattamente quello che ho appena detto: cena con la squadra! Non è
un’idea fantastica?», fece gioiosa Hime, che andò incontro ad Ayako per avere
qualcuno dalla sua parte.
«Oh, per me va bene», annuì la prima manager, mentre la rossa
esclamava un “Aya-chan, ti adoro!”.
«Ok, vado a sbandierare ai quattro venti la mia geniale idea!», gridò Hime, saltellando verso le classi degli altri
componenti del club. Sarebbe stato fantastico, pensava la ragazza, contenta.
Amava quei pazzi e ogni occasione era buona pur di stare tutti insieme a fare
casino.
«Hanamichi, senza offesa ma tua sorella a volte è più spaventosa di te»,
commentò Ryota, mentre la guardava trotterellare come una bambina verso
l’edificio scolastico.
«Non è spaventosa, è geniale,
proprio come me! Ahaha!».
«Ma che ci parlo a fare con te».
Intanto la rossa passò prima di tutto da Kaede, che trovò come da
copione bello che addormentato sul banco, con tanto di bava che colava da un
lato della bocca direttamente sul suo braccio.
«Ehi, orsetto lavatore!». Lo scosse un po’, ma quello non diede segni
di cedimento.
Finché non gli gridò in un orecchio, chiaro.
«Sei coraggiosa a svegliarlo», commentò una ragazza, seduta qualche
banco più indietro. Aveva i capelli palesemente tinti di biondo e osservava
annoiata gli altri che schiamazzavano da mattina presto.
Hime la guardò con un sorriso. «So quello a cui vado incontro. Ma solo
perché so come difendermi».
Nel frattempo il Volpino si svegliò dal letargo con un ringhio
sommesso e fulminò con il solo sguardo la sua migliore amica. «Che vuoi, decerebrata?».
«Domani sera sei libero?», chiese lei, inchinandosi e poggiando gli
avambracci sul banco.
«Perché?».
«Uffa, non rispondermi sempre con un’altra domanda, è maleducazione!
Sei libero sì o no?».
«Hn, forse. Perché?», continuò imperterrito
lui.
«Perché domani sera si va a cena fuori e tu non puoi mancare», disse
Hime, puntandogli un dito contro per sottolineare meglio la sua decisione.
Senza neanche dargli il tempo di rispondere con qualche altro monosillabo per
cui era tanto famoso, gli agitò una mano in segno di saluto e strillò: «Ci
sentiamo più tardi per metterci d’accordo con l’orario, Ede!», tanto che le
ragazze presenti si avvolsero di fiamme dalla rabbia.
«Che bell’elemento», commentò quasi divertita Kiyo, mentre guardava
sparire quella furia umana di Hime Sakuragi. «È la tua ragazza?».
Per poco Kaede non si strozzò con la sua stessa saliva e la guardò con
un misto di perplessità e terrore, cosa che incredibilmente la fece scoppiare a
ridere.
Hime, intanto, aveva già ventilato l’idea a Hisashi, che trovò sempre
più torvo, ma che accettò ugualmente, per cambiare un po’ d’aria. Quando però
lo chiese ad Akagi la situazione fu un tantino più problematica, dato che il
Gorilla non aveva nessunissima intenzione di sorbirsi quei casinisti per
un’intera serata. Ma si sa, quando Hime si metteva qualcosa in testa
difficilmente cambiava linea d’onda. Fu con la sua forza persuasiva, ergo
insistenti “Ti prego, ti preeego!” che il Gorilla, e
a ruota anche Kogure, accettò. Ancora più problematico, e parecchio
imbarazzante, fu chiederlo a Masuhiro Araki che, appena la vide e sentì quello
che la sua bella aveva da dirgli, si alzò mezzo metro da terra dalla
contentezza, mugugnando qualcosa tipo “Un
appuntamento! Un appuntamento!”.
Eichiro e Kimi li trovò in corridoio, davanti alla loro classe, e,
gentili come sempre, accettarono di buon grado. Quei due si erano ambientati
subito nel gruppo squadra; erano socievoli e simpatici, un po’ casinisti a
volte, ma evidentemente doveva essere un buon requisito per far parte
integrante del club di basket.
«Sana è in classe con voi, vero?», chiese Hime, sbirciando dentro
l’aula per cercare la ragazza.
«Sì, ma ancora non è arrivata», le rispose Kimi. «È strano, di solito
è sempre puntuale».
«Va bene, quando arriva potete dirle che le devo chiedere un favore?».
Eichiro le sorrise, annuendo. «Ma certo!».
«Grazie, ragazzi! Buona giornata!», esclamò salutandoli e correndo
verso la sua classe.
I gemelli la guardarono zigzagare tra uno studente e l’altro, ridendo
e chiedendo scusa a tutti per la fretta.
«Quella ragazza è un terremoto», commentò Kimi.
«Beh, non sarebbe la sorella di Sakuragi».
Kimi guardò il gemello con aria schifata. «Cosa vuol dire? Io non sono
mica un casinista come te!».
«Ehi, non dirlo con quel tono!». Eichiro mise il broncio, in una
perfetta imitazione di Hanamichi quando si offendeva.
I fratelli si lanciarono qualche occhiata, per poi scoppiare a ridere
e abbracciarsi come se niente fosse accaduto.
Chi erano i pazzi, ora?
*
Kaede aprì assonnato la porta del terrazzo e vacillò un poco contro lo
stipite mentre sbadigliava come un leone. Era così abituato al suo perenne
sonno, ma a volte gli veniva da domandarsi se fosse normale o meno. Non che ci
volesse un genio per capirlo, probabilmente quando era ancora piccolo gli
avevano dato narcotici al posto del latte.
L’unica cosa che riuscì a svegliarlo almeno il tanto giusto per non
chiudere gli occhi fu la vista di una ragazza che piangeva, con il capo
nascosto tra le braccia, poggiate sulle ginocchia. La ragazza silenziosa. Rimase fermo sulla soglia, non sapendo bene
neanche lui che fare. Avrebbe potuto infischiarsene e mangiare il suo bento, per dedicarsi al suo sonnellino
pomeridiano, oppure poteva andarsene per non disturbarla. Tutto, tranne che
rimanere fermo come un pesce lesso in salamoia. L’unica cosa che gli venne in
mente di fare fu quella di far sbattere la porta dietro di sé, con la speranza
che lei si accorgesse di lui e la smettesse di frignare per darsi un contegno
davanti al ragazzo più ambito della scuola.
E infatti lei alzò di scatto la testa per vedere di chi si trattasse,
ma non si asciugò le lacrime frettolosamente con le maniche della giacchetta
grigia, né cercò di calmarsi, tutt’altro. Lo guardò per qualche secondo con la
vista appannata dalle lacrime, poi tornò a piangere, come se lui non fosse
appena comparso.
Quegli occhi… dove li aveva già visti?
Poi, come un flash, si ricordò dell’incontro-scontro della notte
precedente e, anche se la sua memoria fotografica non era delle più affidabili,
fu più che sicuro che si trattasse proprio di lei. Ma perché sembrava così
disperata?
Kaede prese posto come sempre dall’altro lato della terrazza ma, a
differenza delle altre volte, non le tolse gli occhi di dosso. I capelli lunghi
e liscissimi le ricadevano davanti, come una copertina calda che la proteggeva
dall’esterno. Le spalle, minute, si muovevano a scatti, scosse dai singhiozzi
che non accennavano a diminuire.
Sentendosi osservata, Sana alzò nuovamente lo sguardo e si sentì
andare a fuoco per l’imbarazzo quando incontrò quello del ragazzo. Che figura
idiota stava facendo!
Si passò i palmi delle mani sugli occhi arrossati, tirando su col
naso. «Sembro una stupida, vero?», chiese, in un sorriso amaro.
Kaede non pensava certo che gli avrebbe rivolto la parola, e si
destreggiò dall’impaccio con un suo consueto “Hn”,
indecifrabile.
Ovviamente la ragazza pensò che le avesse dato retta e si strinse
nelle spalle. «Lo so, effettivamente lo sono».
Stupida ragazzina, lui non l’aveva mai detto! «Perché piangi?». E tu perché fai domande idiote?
Lei lo guardò stralunata. «Non credo che lo voglia sapere veramente.
In ogni caso è una storia lunga».
Kaede si poggiò stancamente contro la ringhiera alle sue spalle, senza
smettere ancora di guardarla. «Ho tempo».
Sanako abbassò lo sguardo, torturandosi il tessuto della gonna e
poggiando il mento alle ginocchia. Il pianto isterico le era momentaneamente
passato, per fortuna. «Sono spaventata, tutto qui». Lui non disse niente,
aspettando che fosse lei a continuare. E lei, infatti, continuò. Quegli occhi,
per quanto freddi fossero, le davano uno strano senso di sicurezza, proprio
come quelli di Kiyo. «Ieri è tornato papà a casa. Erano sedici anni che non si
faceva vivo. E io ho avuto paura, perché non ero pronta ad affrontarlo».
Sì, perché appena l’aveva visto, con la barba un po’ lasciata andare e
quell’espressione in viso così simile alla sua, l’avevano scossa terribilmente.
Non pensava che l’avrebbe mai incontrato, non così di sorpresa. L’idea di
poterlo conoscere, finalmente, un sogno che faceva molto spesso durante le sue
notti agitate, era troppo per lei. Era scappata senza riflettere, con la sola
intenzione di respirare un po’ d’aria che in quei pochi istanti le era mancata.
Quando era tornata a casa, un’ora dopo, lui se n’era già andato. La madre le
aveva detto che alloggiava in un piccolo hotel in periferia e che sarebbe
passato l’indomani, se avessero voluto.
«Zia era furiosa, mentre mamma era sconvolta quanto me. Non se lo
aspettava e tutte le sue difese sono crollate, proprio come le mie. Non so cosa
fare, odio non saperlo». Si strinse le gambe al petto, mentre le lacrime
pizzicavano nuovamente per venir fuori.
Kaede continuò a rimanere in silenzio, consapevole che qualsiasi
parola sarebbe stata fuori luogo. Lui, poi, non poteva permettersi di consolare
nessuno, dato che neanche con Hime l’aveva mai fatto. Non ci riusciva proprio.
Ma non perché fosse un menefreghista completo, tutt’altro. Solo che non sapeva
mai cosa dire, come dirlo e quando.
«Non so perché sia qui, non so neanche se voglio saperlo. Ho una
tremenda voglia di conoscerlo, ma mi spaventa tantissimo! Come faccio a stare
tranquilla se ho davanti l’uomo che mi ha dato la vita e non so neanche chi sia
in realtà?». Sana si asciugò nuovamente gli occhi, scuotendo la testa. «Scusami,
non so perché ti sto annoiando con tutte queste cose tristi, non volevo…».
«Te l’ho chiesto io», le fece saggiamente notare il ragazzo, che piegò
una gamba verso il petto e vi ci poggiò sopra un braccio.
«Grazie», sussurrò Sanako, così piano che lui non la sentì.
«Hn?»
Sana gli sorrise, parlando con un tono più udibile. «Grazie. Non so
neanche come ti chiami, eppure mi hai ascoltata senza fiatare».
Il fatto che quella ragazzina ingenua non sapesse chi fosse lo lasciò
più sgomento della storia che gli aveva appena raccontato. Stava scherzando?
Esisteva veramente una ragazza in quella scuola che non sapesse chi fosse lui?
Non che la cosa lo facesse imbestialire, tutt’altro. Più che altro si chiedeva
dove avesse la testa, dato che tutta la popolazione femminile del liceo, con
suo sommo dispiacere, aveva sempre il suo nome in bocca.
«Kaede Rukawa».
Lei strabuzzò gli occhi, arrossendo fino alla punta dei capelli.
«Rukawa? Quel Rukawa?».
Kaede alzò un sopracciglio, perplesso. «A meno che non ce ne siano
altri».
Inspiegabilmente per lui, Sana gli sorrise solare, finché non scoppiò
proprio a ridere. E ora che le prendeva a quella lunatica?
«Scu-scusami, è che… Hanamichi racconta così
tante cose divertenti su di te!».
Quel do’aho. Avrebbe messo in conto anche
quello, la prossima volta. «Hn».
Il sorriso della ragazza si addolcì e si alzò, per andare a sedersi
vicino a lui. Gli tese la mano, presentandosi. «Sanako Tsukiyama, piacere di
fare la tua conoscenza, Rukawa».
Gli occhi blu del ragazzo fissarono la manina della giovane e ricambiò
il gesto con un veloce contatto che somigliò quasi a uno schiaffetto più che a
una stretta di mano. Lei comunque non si scompose, continuando a sorridergli,
finalmente senza lacrime, ma solo con gli occhi un po’ rossi.
Sanako… perché tutto di quella ragazzina continuava a dargli uno strano
senso di deja-vu? Dove l’aveva già sentita nominare?
La giovane si era già alzata, diretta verso la sua cartella per
pranzare. «Buon appetito!», gli disse, spiazzandolo ancora.
«Hn, altrettanto».
Mangiarono in silenzio come sempre, ma a differenza delle altre volte
Sana si fermò qualche volta a guardare il ragazzo. E chi l’avrebbe mai detto
che quello che vedeva praticamente tutti i giorni fosse il tanto adorato Kaede
Rukawa? Se le sue fans l’avessero saputo era certa che le avrebbero messo un
cappio al collo per farla fuori. Beh, non poteva negarlo, era veramente un bel
ragazzo. Un tantino freddo all’apparenza, con quegli occhi felini e blu e
l’espressione sempre seria, ma per quel poco che aveva potuto vedere non
sembrava così asociale. Non che si fosse dimostrato loquace, ma non era neanche
così menefreghista come lo descriveva Hanamichi.
Ecco, su una cosa il rossino non si sbagliava: era perennemente narcotizzato,
pensò divertita quando lo vide cercare la posizione più adatta per
addormentarsi.
*
«Ciao Nako!».
Sana si voltò di scatto, lasciando perdere per un attimo il tavolino
da finire di pulire. «Akira, che piacere vederti!».
Lui sorrise gentile, come sempre, mandandole in pappa il cervello. Come sempre. «Stai per staccare, vero?»,
le chiese, dandole una mano con alcuni bicchieri da mettere a lavare.
Lo ringraziò velocemente, annuendo imbarazzata. Quel ragazzo era
troppo sconvolgentemente dolce e carino per il suo povero cuore.
«Hai da fare, dopo?», continuò lui, poggiandosi con le braccia sul
bancone, mentre lo zio, dall’altra parte del locale, ridacchiava e scuoteva la
testa.
«No… cioè, devo andare a casa», bofonchiò, ormai rossa come un
peperone. Perché continuava a sorriderle così? Voleva vederla morta, per caso?
«Allora mi farebbe piacere poterti accompagnare». Akira si mordicchiò nervosamente
il labbro, sperando che Sana accettasse. Accidenti, si era fatto una corsa fino
alla metropolitana, dopo gli allenamenti, per andare a trovarla! Doveva essere
veramente impazzito, aveva ragione Hisashi.
Sana si lasciò andare a un sorriso e lui sospirò vittorioso. «Va bene,
dieci minuti e finisco».
L’espressione di pura felicità che gli si dipinse in volto la fece
arrossire ancora di più e incespicò sul gradino che conduceva alle cucine per
l’imbarazzo.
Quando, un quarto d’ora dopo, Sana gli si presentò senza il grembiule
e con i capelli sciolti dalla solita coda di cavallo che aveva per lavorare,
Akira non poté pensare ad altro se non adorabile.
«Andiamo?», le chiese, con un sorriso da orecchio a orecchio. Lei
annuì, timidamente, stringendosi la cinghia della borsa a tracolla tra le mani,
come se si trattasse di un anti-stress.
Uscirono dal locale in silenzio, un silenzio decisamente troppo
pesante per non sentirsi in soggezione.
«Allora, come va?», azzardò Akira, una mano in tasca, l’altra che
reggeva il borsone degli allenamenti sulla spalla.
Sana fece spallucce, rabbuiandosi un poco. «È successo un mezzo macello,
in realtà».
Il nuovo capitano del Ryonan corrugò la fronte, preoccupato. «Me ne
vuoi parlare?».
La ragazza gli raccontò dell’improvviso ritorno del padre, senza
nascondere le sue paure. Akira era un ragazzo dolce e comprensivo, che sapeva
darle sempre il consiglio migliore in qualsiasi circostanza. Le avrebbe fatto
bene sfogarsi anche con lui. «Secondo te come dovrei comportarmi?».
Akira guardò il mare alla sua sinistra, soppesando la risposta da
darle. «L’unica cosa che posso consigliarti è di non avere timori. Non sei tu
ad averlo abbandonato, Sana. È lui che deve aver paura della tua reazione».
La barista si strinse nelle spalle, abbassando lo sguardo verso terra.
«È che ho così tanta voglia di conoscerlo. Non riesco nemmeno io a capire se
sono arrabbiata con lui per non essersi mai fatto sentire o essere felice
perché ho l’opportunità di avere finalmente un padre. E se non dovessi
piacergli? E se dovesse andarsene ancora una volta?».
Sendoh si mordicchiò le labbra, posandole un braccio intorno alle
spalle, cosa che la fece sobbalzare e arrossire violentemente. La guardò
intensamente con i suoi sempre ridenti occhioni blu e l’ammonì con lo sguardo.
«Se ti sento dire nuovamente che potresti
non piacere giuro che ti uso come esca per la mia prossima battuta di pesca»,
le disse seriamente. «Sei una ragazza splendida e… credimi, non puoi non
piacere, soprattutto a tuo padre. Sarà orgoglioso di conoscere la persona che
sei».
Le guance imporporate della ragazza lo fecero sorridere nuovamente e
lei bofonchiò un grazie che a mala
pena riuscì a sentire.
«Sei troppo insicura, a volte», continuò Akira, ora guardando un punto
impreciso davanti a sé. «Dovresti credere in te stessa più spesso, Sanako». E
detto da uno che continuava ostinatamente a tenerle un braccio sulle spalle
sapendo bene l’effetto che comportava nella sicurezza della ragazza era il
colmo.
«Grazie, Akira. Sei sempre così gentile con me».
I due giunsero all’abitazione della barista e si fermarono davanti al
cancelletto d’ingresso che dava su un piccolo e delizioso giardino curato.
Akira si mise una mano in tasca, mentre l’altra sorreggeva la solita pesante
sacca di basket, e sorrise gioviale come sempre. «Non posso non esserlo con una
donzella graziosa come te».
Sana boccheggiò qualche frase sconclusionata, ottenendo la più sincera
e cristallina risata in risposta.
«Oh, quasi dimenticavo!», esclamò il giocatore di basket, battendosi
una mano sulla fronte. «Lunedì conoscerai un mio amico che lavorerà con te al
bar, se dovesse comportarsi male fammelo sapere e ci penserò io», la informò,
strizzandole un occhio ridente.
«Saprò a chi rivolgermi, allora», rispose Sana, sorridendo. «Ci
vediamo, Akira, e grazie per avermi accompagnata a casa!».
«È stato un piacere» Akira la guardò sparire dietro il portone di
ingresso e si lasciò scappare un sospiro. «Un piacere».
In casa Sanako non trovò né la zia né la madre, la prima probabilmente
ancora occupata a scuola, la seconda uscita un’ora prima per il turno in
ospedale, dove lavorava. Poggiò la cartella nella sua accogliente e adorata
camera al secondo piano e si cambiò velocemente con una tuta blu scuro, che
solitamente usava in casa da brava pantofolaia. Trotterellò in cucina con uno
strano sorriso sulle labbra e accese la televisione, puntuale per l’appuntamento
con il suo telefilm preferito. Dopo la chiacchierata con Akira si sentiva
decisamente meglio e pensò che avrebbe affrontato di petto la complicata
situazione di famiglia.
Aprì una delle ante dei pensili della cucina alla ricerca di qualcosa
da sgranocchiare nel frattempo che preparava la cena e trovò un pacchetto
aperto di pop-corn, che facevano esattamente al caso
suo. Guardò con estremo interesse la torta che la notte prima le aveva
preparato la zia, ma non ebbe il cuore di toccarla… altrimenti l’avrebbe finita
tutta.
Non fece in tempo ad aumentare di poco il volume della tv che qualcuno
suonò alla porta, facendola sobbalzare. Che le due sorelle si fossero
dimenticate le chiavi di casa?
Si avvicinò alla finestra che dava sul salotto e sbirciò da dietro la
tenda. La vista dell’uomo, quell’uomo,
che si stringeva nelle spalle, titubante, ebbe il potere di immobilizzarla sul
posto, senza neanche darle la possibilità di respirare.
Era lì, davanti all’ingresso, aspettando che qualcuno gli aprisse la
porta.
Ed era suo padre.
Riuscì a muovere qualche passo solo per la sua grande forza di volontà
e per le parole dell’amico Akira che le risuonavano in mente, ma non aprì
subito. Rimase ferma nel piccolo disimpegno che separava l’ingresso dal salotto
e cercò di regolarizzare la respirazione, praticamente assente.
Dovresti credere in te stessa
più spesso, Sanako.
Strinse i pugni e, sebbene fosse tradita dal tremolio delle sue mani,
aprì il portone e ci si appoggiò, per cercare sostegno quando i suoi occhi
incontrarono quelli stupiti e malinconici del padre.
«Sa-Sanako…».
La ragazza stritolò la maniglia in ottone che stringeva nella mano
sinistra e deglutì a fatica. «Mamma non è in casa».
L’uomo abbassò il capo, dondolandosi in segno di assenso. «Lo
immaginavo. Beh, ecco… posso entrare?».
Sana prese un bel respiro e si fece da parte, facendolo passare. Si
richiuse la porta alle spalle, guardando quel signore che le sarebbe sembrato
piuttosto anonimo se non avesse saputo chi fosse in realtà. «Posso… offrirle
qualcosa?».
Lui sussultò vistosamente nel sentirsi dare del “lei” da sua figlia e
la guardò con occhi lucidi, occhi che a stento riuscivano a cacciare via le
lacrime di una vita.
«Non… non darmi del lei, Sanako… Sono… sono tuo padre».
«E uno sconosciuto», aggiunse lei, più fredda di quanto avrebbe voluto
apparire.
Lui chinò nuovamente il capo, colpevole, e non aggiunse altro. «Un
bicchiere d’acqua andrà benissimo, grazie».
Sana sparì in cucina, incapace di dire o pensare qualcosa di vagamente
sensato. Quanto avrebbe voluto che ci fosse qualcuno con lei che l’aiutasse a
districarsi da quel momento così strano.
Il padre la seguì in cucina e si sedette in un angolino del tavolo,
guardando distrattamente la televisione che, allegra, mandava in onda un
telefilm comico. Prese il bicchiere che Sana gli stava porgendo con un grazie sommesso e bevette un solo sorso,
tanto per tenersi impegnato.
«Te ne andrai ancora?».
L’uomo alzò gli occhi neri, così simili ai suoi, su di lei, non
nascondendo un certo timore e imbarazzo per quella domanda. Sapeva che le
doveva delle risposte, sapeva di doverle dare delle spiegazioni plausibili, ma
ancora non si sentiva pronto. I sensi di colpa lo stringevano in una morsa
asfissiante e pregò tutti i Kami del cielo affinché gli dessero la forza necessaria
ad andare avanti. «Non lo so… dipende da voi».
Sana strabuzzò gli occhi. «Da noi? Noi?».
«A-aspetta, non fraintendermi!», si affrettò ad aggiungere lui,
agitando una mano nel disperato tentativo di zittirla prima che potesse capire
tutt’altro. «Nel senso– nel senso che dipende se voi mi vorrete».
«Perché dovremmo? Perché…» Sana esitò prima di continuare. «Perché te
ne sei andato? Non ci volevi più bene?».
Lui scosse la testa, affranto. «Bambina mia, io vi amo, l’ho sempre
fatto e sempre lo farò, qualsiasi cosa voi decidiate di fare».
La ragazza non riuscì più a trattenere le lacrime e dovette mordersi
con forza un labbro pur di non singhiozzare.
«È solo che… eravamo troppo giovani quando è iniziato tutto e… e ho
avuto paura», proseguì il padre, prendendo un bel respiro. «Non avevo un
lavoro, non una casa che potesse ospitarci tutti e tre… E mi son chiesto: come
posso offrire loro una vita degna di essere chiamata tale?».
«E hai pensato bene di scappare».
Il padre abbassò lo sguardo, prendendosi la testa tra le mani. «Sono
stato uno stupido e… un codardo.
Pensavo che se fossi sparito non avrei avuto più pensieri, né problemi. Ma mi
sbagliavo, oh, di grosso».
«Con che coraggio torni, ora? Cosa speri di trovare?», domandò Sana,
tra le lacrime. «Sai cosa abbia significato per la mamma crescermi da sola? Se
non fosse stato per zia a quest’ora chissà dove saremmo finite! E per me? Non
hai pensato a me? Tutti a scuola hanno un padre che va a vedere i propri figli
alle competizioni sportive, ai saggi di musica… Tutti, tranne me!», gridò,
sputandogli in faccia la rabbia e la delusione di una vita. «Ho sempre e solo
immaginato cosa potesse significare avere una figura maschile che mi
proteggesse, che mi desse consigli e che mi spronasse a fare quello che amo.
Per sedici anni ti ho aspettato, perché torni solo adesso?».
«Perché ho perso tutto», le confessò in un bisbiglio, stringendo con
forza i capelli lasciati crescere un po’ troppo da qualche mese. «Ho perso il
mio lavoro, ho perso la donna con cui vivevo, ho perso i miei amici e la mia
casa… ho perso tutto».
«E non troverai niente qui», fece una voce alle sue spalle. Masaki,
braccia conserte e lo sguardo più duro e severo che la nipote le avesse mai
visto in viso, lo guardò intensamente, avanzando verso di lui con passo sicuro
e diretto. «Lascia che ti dia un consiglio: stai lontano da Sanako e da mia
sorella. E ora vattene».
Sana si portò le mani alle guance, per poi coprirsi gli occhi bagnati
per le lacrime quando l’uomo le lanciò un’ultima occhiata mortificata, prima di
lasciare la loro abitazione in silenzio.
La zia la raggiunse velocemente e l’abbracciò, accarezzandole i
capelli dolcemente. «Mi dispiace che tu debba sopportare tutto questo, piccola
mia. Mi dispiace tanto».
Sanako si aggrappò alla donna e la strinse con forza, dando libero
sfogo al pianto.
Continua...
* * *
Dopo due settimane
infernali rieccomi qui!
Prima di passare alla
scheda della settimana vorrei dire a tutte/i coloro che seguono questa
storia che... Niente è come sembra! °_°/
...lol,
non spaventatevi, tranquille/i! Capirete strada facendo. :P
Inoltre ringrazio
infinitamente coloro che hanno aggiunto questa ennesima pazzia tra i
preferiti e le seguite, e in particolare chi ha commentato il capitolo
precedente:
Spieluhr: grazie mille, sia per
il coraggio di aver letto anche WB, sia per seguire anche questa! *_* Spero non
ti deluda!
lirinuccia: ma... ma... *_* Così
mi commuovo e mi monto la testa, sappilo! <3 Son contenta che ti piacciano sia
Sanako che Kiyo, ho sempre il terrore di creare dei mostri xD E sono ancor più contenta del fatto che ti piaccia
l'amicizia tra Hisashi e Akira - quei due, secondo me, son perfetti per essere
amici: uno è tenebroso, l'altro solarissimo! Un
po' come Kaede e Hanamichi. :) Comunque non metterti problemi per la
tua idea, non voglio che stravolga la tua trama, anzi! Sarebbe curioso vedere
come sviluppiamo la cosa entrambe! :D Un bacione e a presto,
aspetto un tuo aggiornamento! :*
Ci si legge al prossimo
capitolo! ;)
Marta.