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Autore: pizia    13/06/2010    3 recensioni
Sauron ha di nuovo l'Anello, ma qualcosa gli impedisce ancora di sferrare il suo attacco definitivo alla Terra di Mezzo
Genere: Drammatico, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Capitolo 10 -

La riconquista di Minas Tirith

Eomer passava in rassegna gli uomini che aveva reclutato: era un esercito ben assortito anche se non numerosissimo. La battaglia al Fosso di Helm aveva lasciato il segno, ma questa volta almeno non ci sarebbe stato bisogno di reclutare gente troppo giovane o troppo vecchia. Erano duemila Rohirrim ben equipaggiati e istruiti, e altri duemila soldati a piedi erano stati richiamati dai confini del regno e dai territori circostanti. Sarebbe stata una marcia serrata e piuttosto lunga: se ci fosse stata solo la cavalleria avrebbero potuto coprire la distanza che divideva Edoras da Minas Tirith anche in una sola settimana, o poco più, ma i fanti non potevano certo sostenere lo stesso ritmo degli uomini a cavallo.
Aveva discusso a lungo con suo zio sull’opportunità di spezzare l’esercito in due tronconi, mandando avanti la cavalleria, ma poi avevano deciso che sarebbe stato meglio evitare una cosa del genere: se l’attacco fosse cominciato prima dell’arrivo dei fanti nella capitale di Gondor non ci sarebbero state speranze, e la stessa fanteria non avrebbe avuto alcuna possibilità giungendo all’ombra della torre di Ecthelion quando il grosso del resto degli eserciti di Rohan e Gondor fosse stato sconfitto. In quella maniera ci sarebbero volute come minimo due settimane, costringendo gli uomini ad una marcia molto serrata, ma nessuno si era lamentato di fronte a quella prospettiva, e dunque era quella la decisione che era stata presa.

Eowyn osservava tutto dal balcone della sua stanza: nascosta nell’armadio aveva pronta un armatura e una buona spada. Era una semplice armatura di piastre che non l’avrebbe distinta dal resto dei Rohirrim; aveva tuttavia dovuto eliminarne alcune parti meno essenziali per poterla indossare senza che il peso la inchiodasse al terreno. La spada non era certo Anduril, ma era di sicuro meglio del manico di scopa con cui si era allenata per tanti anni.
Il ripensare alla spada fece correre velocemente ed inevitabilmente la mente della ragazza ad Aragorn: sentì ancora le lacrime pungerle dispettosamente gli occhi, e per la prima volta maledisse consapevolmente Merry per aver interrotto quello che avrebbe forse potuto essere l’unico momento in cui lui era sembrato essere suo.
Sentì le gote arrossarsi violentemente al solo ripensare al momento in cui le loro labbra si erano sfiorate, un attimo prima che l’hobbit li interrompesse: non sapeva nemmeno immaginare cosa sarebbe stata capace di fare o di pagare perché un momento del genere potesse tornare…
Eowyn scosse la testa in maniera brusca: non era quello il momento di pensare ad Aragorn, soprattutto visto che al solo pensiero del ramingo sentiva il suo corpo illanguidirsi mentre la sua mente cominciava a sognare ad occhi aperti.
Erano pensieri che non avrebbe più potuto permettersi da quel momento in avanti: stava partendo per una guerra, o più probabilmente per un suicidio, e se si fosse concessa di distrarsi anche solo un istante sarebbe probabilmente stata la sua fine.
Ricacciò l’immagine di Aragorn da dove veniva, in fondo al suo cuore, e la chiuse lì dentro custodendola gelosamente.

Quando tornò a concentrare la sua attenzione sull’esercito schierato nella piazza sotto di lei e sulla figura bionda e atletica di suo fratello notò che anche suo zio lo aveva raggiunto insieme ad un altro uomo, più biondo persino di Eomer. L’espressione del re era preoccupata, e una stretta allo stomaco colse all’improvviso Eowyn: l’uomo biondo aveva qualcosa di familiare, e aguzzando la vista, la ragazza si rese conto che lo straniero non era affatto un uomo, ma un elfo.

Legolas… Ma cosa ci fai tu qui?” si chiese Eowyn perplessa.

Decise quindi di raggiungere gli altri nella piazza sottostante per comprendere cosa stesse succedendo.

Quando dopo pochi minuti giunse nella piazza, la ragazza poté constatare subito che i suoi occhi l’avevano ingannata: l’ospite era sì un elfo, ma non si trattava dell’arciere della compagnia.

Si diede mentalmente della stupida per aver creduto che si trattasse del principe di Bosco Atro solo perché era un elfo, come se Legolas fosse stato l’unico elfo della Terra di Mezzo, ma le parole che udì la strapparono alle sue riflessioni, facendole comprendere il motivo della preoccupazione che albergava negli occhi dello straniero, di suo zio ed ora anche di suo fratello.

“Come Gondor è perduto!?!” chiese Eomer ad alta voce, con tono incredulo. “Ma non è possibile!”

“Purtroppo quando il Capitano Faramir è tornato a Minas Tirith per riferire delle decisioni prese al consiglio di Gran Burrone, ha trovato che suo padre era completamente impazzito: è stato rinchiuso nelle segrete e condannato a morte per tradimento” disse l’elfo.

Ad Eowyn tornò immediatamente in mente il volto bello ma triste e malinconico del figlio minore del Sovrintendente di Gondor: ricordava con piacere la serata passata a chiacchierare con lui nei giardini di Imladris, e il pensarlo rinchiuso e condannato le strinse il cuore.

Al di là poi della pena che provava per la persona di Faramir, la ragazza non poté poi certo evitare di valutare le conseguenze che tutta quella situazione assurda avrebbe avuto anche su di loro: se Gondor era perso il regno di Rohan si sarebbe trovato a dover affrontare da solo le forze di Sauron e forse di Minas Tirith stessa nell’attacco da occidente. Già potendo contare sull’alleanza con Gondor la loro missione era disperata, ora era letteralmente impossibile!

“Ma come fate a sapere tutto ciò?” chiese ancora Eomer scoraggiato, nella speranza che la risposta dell’elfo potesse dargli qualche possibilità: magari la fonte di quelle informazioni non era attendibile, o forse chi aveva diffuso quelle voci era proprio un complice di Sauron, e lo aveva fatto per scoraggiare i nemici dell’Oscuro Signore.

“La mia regina, Dama Galadriel, e Gandalf il Bianco stessi lo hanno scoperto guardando in un Palanthir” rispose l’elfo che giungeva da Lorien.

“E da quando a Gran Burrone hanno una Pietra Veggente?” chiese questa volta Theoden, che ne custodiva una nel Trombatorrione del Fosso di Helm.

“E’ il Palanthir di Isengard che Pipino aveva portato con sé dopo la distruzione di Orthanc ignorando cosa fosse in realtà: Aragorn stesso si è servito di quella pietra, anche se involontariamente, riuscendo così a liberare Frodo, il portatore dell’anello” disse Eowyn attirando su di sé l’attenzione.

“Dunque non c’è motivo di dubitare di queste tetre informazioni” rifletté ad alta voce Eomer.

“L’erede di Isildur è per caso ancora qui?” chiese l’elfo sentendo nominare il ramingo.

“No, è partito tre giorni fa per i Sentieri Morti. Perché lo cerchi?” chiese ancora il re.

“Anche lui è in grave pericolo” cominciò a spiegare il messaggero, e alle sue parole Eowyn sentì mancarle il fiato e il cuore perdere un battito. “Non sappiamo per quale motivo, ma Sauron lo vuole a tutti costi: ha mandato i Nazgul a catturarlo all’uscita dei Sentieri Morti. Speravo di poter avvertire anche lui, ma se è partito tre giorni fa potrebbe già essere nelle mani dell’Oscuro Signore…” concluse amaramente lo straniero.

“Oppure potrebbe non essere mai uscito da quei maledetti sentieri…” disse trucemente Eomer.

“Oppure potrebbe essere uscito vivo dai Sentieri Morti, aver sconfitto i Nazgul ed essere ora in viaggio verso Minas Tirith con gli spettri dei traditori al suo seguito e pronti a servirlo in qualsiasi cosa chieda loro!” esclamò decisa Eowyn, profondamente irritata dalla totale mancanza di fiducia in Aragorn che gli uomini che la circondavano dimostravano in quel momento.

“Qualunque sia stato il destino di Aragorn non è qualcosa che possiamo cambiare, e quindi è inutile preoccuparcene e ancora più inutile è discuterne. Possiamo solo pregare i Valar che sia tu, Eowyn, ad aver ragione, anche perché senza l’appoggio di Gondor avremo veramente bisogno dell’aiuto di tutti quelli che potranno darcelo, e gli spettri dei Sentieri Morti sono tra coloro che possono!” esclamò Theoden che aveva notato il risentimento della nipote e che voleva troncare sul nascere quella inutile discussione.

“Cosa facciamo ora?” chiese Eomer al re del Mark.

Theoden non rispose subito, riflettendo sulla situazione.

“Se al Fosso di Helm Rohan ha potuto resistere fino al vostro arrivo è stato grazie al futuro re di Gondor e grazie all’aiuto degli elfi di Lothlorien: tocca a noi ora aiutare Gondor e tutti gli Elfi della Terra di Mezzo. I piani non cambiano: domani all’alba partiremo per Minas Tirith. Libereremo Gondor e insieme combatteremo contro Mordor, o moriremo almeno nel tentativo di fare tutto ciò” decise infine l’erede di Eorl.

Eomer sorrise: sebbene sapesse che era una follia quella che stavano facendo, era contento che quella fosse stata la decisione di suo zio.

 

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“Ho bisogno del tuo aiuto Morgan” disse Faramir rivolgendosi al giovane soldato. “Devi muoverti verso ovest, in direzione di Edoras ed andare incontro al signore dei cavalli: re Theoden sta venendo verso Minas Tirith convinto che troverà Gondor pronto ad schierarsi a suo fianco. Non ho ancora perso del tutto le speranze che questo possa avvenire sul serio, ma devono sapere qual è la vera situazione e quindi qualcuno deve avvisarli. Vorrei che fossi tu a farlo”.

“Ma Capitano Faramir, io credevo che…” fece per protestare il giovane.

“Morgan raggiungerai comunque il campo di battaglia insieme ai Rohirrim, e devi avvisarli anche del fatto che tenteremo di riconquistare Minas Tirith. Ti prego di accettare il compito che ti affido: ci andrei io stesso, ma se riusciremo a destituire il Sovrintendente io dovrò essere qui a prendere il suo posto” disse Faramir, cercando di essere il più freddo e distante possibile nel pronunciare in particolare quelle ultime parole.

In realtà si sentiva morto dentro: sapeva che quella che avrebbe condotto non sarebbe stata solo una lotta contro la sua città, ma una battaglia contro il suo stesso padre.
Il solo pensiero lo faceva star male.
Suo padre non lo aveva mai amato, ritenendolo indegno di suo fratello Boromir; suo padre lo aveva condannato a morte e chiuso a marcire nelle segrete della città in attesa dell’esecuzione; suo padre aveva venduto il regno a Sauron, aveva tradito tutto quello per cui lui e tante altre persone nella Terra di Mezzo stavano combattendo.
Suo padre era ormai un nemico, e meritava di essere punito…

Ma è mio padre…Non posso non amarlo, non posso pensare che per lui non ci sia una speranza…Non posso essere proprio io a dargli il colpo di grazia…” continuava a ripensare Faramir, torturandosi nella decisione più difficile della sua vita. “Se almeno Boromir fosse qui lui saprebbe senz’altro agire per il meglio: io so quello che devo fare e so anche che è giusto farlo, ma non ho il coraggio di fare una cosa del genere a nostro padre. Boromir, aiutami!” Faramir si spaventò a quel pensiero e scosse violentemente la testa, come se così potesse scacciarlo: “Forse sto veramente impazzendo anche io…”.

Morgan lo guardava preoccupato: poteva immaginare il turbamento che attraversava l’animo del suo comandante, e per questo motivo decise che, sebbene non era quello che sperava di dover fare, avrebbe ubbidito al suo ordine senza discutere ulteriormente, per non dargli altri motivi di preoccupazione: “Partirò oggi stesso Capitano e state pur certo che, se anche dovessi rastrellare ogni metro della piana che ci separa da Edoras, troverò re Theoden e gli riferirò il vostro messaggio”.

Faramir gli sorrise riconoscente: “Scegli tu stesso un compagno con cui affrontare questa missione: non posso concedertene più di uno purtroppo, ma viaggiare da solo è troppo pericoloso. Poi ripassa da me e ti consegnerò un missiva per il re del Mark: basteranno certo le tue parole, ma è meglio essere prudenti”.

“Certo Capitano. Porterò con me Tarnat se sia voi che lui sarete d’accordo”.

“Io non ho alcuna obiezione da fare: vai a parlargli e poi torna da me” disse Faramir congedandolo.

Due ore dopo i due giovani soldati di Gondor lasciarono il loro rifugio nella boscaglia che circondava Minas Tirith dirigendo i loro cavalli verso ovest.

Faramir, Telemnar ed Aldamir li seguirono con lo sguardo fino a quando la distanza e gli alberi fra loro non li sottrassero alle loro viste.

“Questa è fatta Faramir: ora dobbiamo studiare un piano per rientrare in città e raggiungere il palazzo” disse Aldamir, severo.

L’uomo si rendeva perfettamente conto di star chiedendo molto al figlio del Sovrintendente, e temeva che alla fine Faramir non avesse il coraggio di fare quello che andava fatto.

“Rientreremo da dove siamo venuti. Esiste un’altra galleria di cui non è riportata traccia nemmeno sulle mappe che abbiamo con noi” disse secco Faramir, sorprendendo i suoi due amici sia per la rivelazione che per la risolutezza del suo tono.

“Di che galleria stai parlando Faramir?” chiese Telemnar.

“La scoprimmo per caso io e mio fratello Boromir quando lui aveva dieci anni ed io cinque: ne avevamo combinata una delle nostre e mentre cercavamo un posto in cui nasconderci la trovammo. La galleria parte esattamente dalle cantine del palazzo per poi congiungersi, con una porta segreta alla galleria principale. Non so dirvi però se mio padre sia a conoscenza di quella galleria: io e Boromir non gliene abbiamo mai parlato perché era la nostra…via di fuga…e visto lo stato in cui era la prima volta che ci siamo passati devo pensare che nessuno l’avesse usata da secoli almeno, ma questo non vuol dire che se ne ignori completamente l’esistenza. Dovremo dunque stare molto attenti. Accetto proposte su come agire una volta che saremo all’interno del palazzo…”.

Aldamir sorrise, scusandosi mentalmente con il suo Capitano: non era certo facile per lui tutta quella situazione, ma non sembrava disposto a farsi vincere dalle emozioni. Conosceva il proprio compito e, volente o nolente, lo avrebbe portato a termine.

 

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Eowyn era seduta nella sua stanza, di fronte ad un grande specchio che le restituiva l’immagine di una giovane donna dal colorito pallido, l’espressione stravolta dalla preoccupazione e due occhi tristi ma risoluti.

Stringeva in mano un pugnale e ne faceva scorrere la punta tra le pregiate venature del legno di cui era fatto il mobile su cui era appoggiato lo specchio. La appoggiò anche un polpastrello, come per verificarne l’affilatura, ferendosi così leggermente un dito.

Poi, d’improvviso, con la mano con cui non reggeva l’arma raccolse i lunghi capelli biondi e con un movimento rapido, come per non concedersi il tempo di pensare a ciò che stava facendo, li tagliò di netto con il pugnale, all’altezza delle spalle. Fissò per qualche istante la lunga ciocca bionda che stringeva ancora in mano, quasi senza vederla, quindi si alzò e la gettò con disprezzo nel fuoco acceso: i capelli crepitarono per qualche istante nella fiamma, facendola avvampare, e poi scomparvero in cenere, mentre Eowyn inghiottiva con rabbia le lacrime che le pungevano gli occhi.

Si dava della stupida per quelle lacrime: “Finiscila Eowyn! Vuoi partire per la guerra e piangi perché hai dovuto tagliarti i capelli! Se non lo avessi fatto tuo fratello e tuo zio ti avrebbero riconosciuta subito e rispedita a casa in men che non si dica e, anche se non se ne fossero mai accorti, sarebbero stati un appiglio troppo facile per qualsiasi nemico!”.

Tornò a guardarsi nello specchio e quasi non si riconobbe.

Si diresse verso l’armadio e ne estrasse l’elmo decorato con le due teste di cavallo simbolo di Rohan; tornò di fronte allo specchio e lo indossò: “Ora Eowyn di Rohan non esiste più: d’ora in poi, fino alla fine di questa guerra, il mio nome sarà Dernhelm, cavaliere di Rohan!”.

 

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Quando Celeborn ed Elrond videro giungere in lontananza gli eserciti di Reame Boscoso e della Montagna Solitaria il loro cuore gioì: erano almeno settemila soldati ben armati ed addestrati che si andavano ad aggiungere al migliaio scarso di elfi che erano sopravvissuti alla battaglia del Fosso di Helm.

In tutto circa un esercito di ottomila unità pronto ad attaccare Mordor: settemila avrebbero ingaggiato battaglia di fronte al Nero Cancello, mentre un altro miglio avrebbe tentato di penetrare direttamente nel cuore di Mordor per attaccare la fortezza di Barad-dur. Nessuno di quei mille si sarebbe probabilmente mai salvato, me se fossero riusciti ad eliminare almeno Saruman la loro missione sarebbe già stata un successo che sarebbe stato cantato per il resto delle ere.

Quando giunse mezzogiorno gli eserciti guidati da Thranduil e Thorin, re dei Nani di Erebor, giunsero infine nelle Terre Brune, a nord delle montagne dell’Emyn Muil e poco ad est del corso dell’Anduin, dove li attendevano da due giorni gli Elfi di Lorien.

Sia Elrond che Celeborn furono non poco sorpresi di vedere Thranduil a capo dell’esercito, anche se tentarono di non darlo a vedere.

“Perdonate il nostro ritardo” disse Thranduil rivolgendosi agli altri due re dei regni elfici della Terra di Mezzo. “Abbiamo avuto un piccolo problema con una banda di orchetti ed Uruk-hai che ci ha rallentato”.

“Spero non abbiate subito gravi perdite” disse Elrond.

“Più ingenti di quanto fosse lecito attendersi per la verità, ma era il prezzo da pagare a millenni di diffidenza tra Nani ed Elfi…” rispose il re di Bosco Atro alludendo sottilmente alla decisione alquanto improbabile di Elrond di far collaborare i due popoli, “… ma credo che sia almeno servita a far comprendere a tutti quanti che non sarà sufficiente tollerarsi l’un l’altro per combattere questa guerra”.

Nemmeno il più ottuso dei nani poté rimanere indifferente alla maestosità e all’imponenza delle figure dei tre re elfici, le cui armature brillavano lucenti riflettendo la luce del sole che si trovava in quel momento nel punto più alto de suo cammino nel cielo.

Sembravano il frutto di qualche incredibile magia, e in quel preciso istante sembravano più antichi di Arda stessa e non meno saggi dei Valar che li avevano creati.

Thorin, accompagnato da Gimli e Legolas, si avvicinò a loro e Thranduil lo presentò immediatamente con tutti gli onori e i titoli del caso a Celeborn ed Elrond, che pure già conosceva il re dei Nani.

“E’ con grande piacere che rivedo Elrond di Gran Burrone e conosco Celeborn di Lothlorien: Gimli non ha fatto altro che parlarmi per tutto il viaggio della bellezza della Dama di Lorien e spero un giorno, quando questo incubo sarà finito, di poter venire io stesso, come amico, a constatare se il figlio di Gloin vaneggia o se ha ragione” disse il re de Nani.

“Possano i Valar concederci di vivere un simile giorno: se questo accadrà tu e i tuoi sudditi sarete i benvenuti a Caras Galadhon” rispose cortesemente Celeborn.

Elrond si scostò di poco, prendendo in disparte Legolas: “Confesso che non credevo che avrei visto arrivare tuo padre alla testa dell’esercito”.

“Ha sorpreso anche noi quando ci ha comunicato che sarebbe venuto anche lui: in fondo non aveva mai fatto mistero di non stimare particolarmente i Nani, e convincerlo a dare il suo assenso non è stata una passeggiata. Comunque la ritengo una cosa positiva, anche se in questo modo la mia gente rischia di rimanere senza una guida. Avremmo dovuto essere previdenti come te e spedire i nostri sudditi al di là del mare quando ancora ne’avevamo l’opportunità”.

“Previdenza…” disse con un sorriso amaro sulle labbra. “Peccato che questa previdenza mi abbia fatto perdere l’amore di una figlia e di colui che ho cresciuto come se fosse un figlio…”

“Non credo che Arwen possa mai smetterei amarti, e quanto ad Aragorn, sa che hai fatto la cosa giusta, e questo per lui è più importante di tutto il dolore che possa aver provato, anche se certo non è stato poco…”

“Mi auguro solo che qualcuno possa presto alleviare il suo dolore” disse Elrond con un tono talmente sincero e dispiaciuto da lasciare quasi sbalordito Legolas: aveva sempre visto il signore di Gran Burrone come esempio della più totale imperturbabilità elfica, ed ora gli stava rivelando i suoi più intimi tormenti di genitore, mettendo a nudo un pezzetto della sua anima e del suo cuore che aveva sempre tenuto nascosti.

“Ora va’ un po’ a riposarti: hai l’aria di non aver dormito molto nelle ultime notti. Stasera a cena vi aggiorneremo sulle nuove notizie che purtroppo non sono buone, e poi avremo due settimane per concertare un piano d’attacco e per scegliere coloro che attaccheranno direttamente la Torre Oscura” gli disse Elrond, riacquistando la solita impenetrabile espressione.

“Come puoi pretendere che io possa riposare dopo quello che mi ha appena detto! Quali sono queste brutte notizie di cui parli?” chiese Legolas preoccupato.

“Ti prego di non costringermi a raccontarti tutto per poi ripeterlo una seconda volta a cena di fronte a tutti: hai ragione, avrei fatto molto meglio a tacere e permetterti di riposare sereno, ma non è nulla a cui tu possa porre rimedio, quindi metti in pace il tuo cuore e lascia che il tuo corpo e la tua mente riposino, altrimenti quando ci sarà veramente bisogno di te rischierai di non avere le forze necessarie per fare quello che ti verrà richiesto” rispose il signore di Imladris.

“Così sia, re Elrond di Gran Burrone…” disse rassegnato Legolas, “… ma non credo che potrò riposare troppo dopo le tue parole” concluse, allontanandosi verso gli elfi che, guidati da Mariel, stavano già montando le tende da campo in cui avrebbero riposato almeno per le due settimane successive.

Quella sera, durante la cena, Celeborn informò Thranduil, Thorin, Legolas, Gimli e Mariel di quello che Gandalf e Galadriel avevano scoperto guardando nel Palanthir di Orthanc: insieme decisero di non divulgare, almeno per il momento, quelle notizie trai soldati, per non demoralizzarli.

La prospettiva di trovarsi di fronte l’intero esercito di Mordor non era certo allettante, ma rinunciare a combattere avrebbe solo allungato di qualche giorno, qualche mese al massimo, la loro agonia, un tempo decisamente non sufficiente persino per permettere agli Elfi di Bosco Atro di mettersi in salvo: avrebbero comunque affrontato quella battaglia, e almeno sarebbero morti con onore.

Gimli e Legolas si preoccuparono profondamente per la notizia della caduta di Gondor nelle mani di Sauron, ma quello ché turbò maggiormente i cuori dei due compagni fu l’apprendere i pericoli a cui andava incontro Aragorn.

Legolas in particolare rimpianse di essersi dovuto separare dal ramingo, e quella sera, disteso nella sua tenda, mentre Gimli gli russava a fianco, si chiese più e più volte quale fosse stata la sorte dell’amico nel suo viaggio attraverso i Sentieri Morti.

 

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“Aspettate! Sento delle voci dall’altra parte” disse Telemnar sottovoce appoggiando l’orecchio alla porta segreta che avrebbe dato loro accesso al palazzo di Minas Tirith.

Fino a quel momento tutto era andato abbastanza liscio: le guardie avevano infine capito come i prigionieri fossero riusciti a fuggire e per questo pattugliavano la rete sotterranea di gallerie, ma con un minimo di attenzione e rapidità erano riusciti ad evitarne i gruppi più numerosi e ad eliminare quelli più ridotti senza concedere loro il tempo di dare l’allarme.

La galleria poi di cui aveva parlato Faramir doveva essere veramente sconosciuta, dato che da quando vi erano penetrati non avevano incontrato più nessun soldato.

“Deve essere qualche servitore che sta cercando qualche provvista in cantina: non sembrano voci di soldati e di certo non sono le voci inquietanti dei mercenari venuti da chissà dove” disse ancora Telemnar.

“Credo che vengano da Mordor” disse Faramir cupo. “Anche questo oscuro consigliere di cui mi avete parlato potrebbe essere lo stesso che tanti danni ha fatto ad Edoras. Come l’hanno chiamato Aragorn ed Eowyn? Non ricordo…” disse l’uomo cercando di ricordare una conversazione che aveva avuto con i due durante i giorni a Gran Burrone.

“Comunque si chiami quel maledetto, amici in città affermano che sia sparito la sera stessa che ti abbiamo liberato” disse Aldamir. “Quindi ora Denethor è di nuovo solo. Forse potremmo tentare di farlo ragionare, ma non ci sperare troppo Faramir: tuo padre ha perso il senno a causa della morte di Boromir, non per colpa del suo meschino consigliere”.

“Ok, andiamo: non sento più nulla dall’altra parte!” li interruppe Telemnar. “Vieni qui a far scattare il meccanismo Faramir: io non so dove sia”.

Il figlio del Sovrintendente si mise ad armeggiare con la parete rocciosa, tastandola ripetutamente alla ricerca del meccanismo che avrebbe fatto aprire il passaggio.

Quando infine la porta si aprì, Faramir e i suoi compagni, una dozzina di uomini in tutto, si ritrovarono nella silenziosa cantina del palazzo, dove venivano custodite buona parte delle provviste destinate al sostentamento della popolazione cittadina in caso di guerra ed assedio: dopo quel periodo così difficile e dopo gli sperperi sicuramente perpetrati dai mercenari al soldo di Sauron, l’ampio locale era quasi vuoto.

“Come faremo a sfamare Gondor durante la guerra?” chiese Faramir guardandosi intorno amareggiato.

“Questo è un serio problema che affronteremo quando tu sarai Sovrintendente di Gondor: adesso pensiamo a conquistare questa sovrintendenza!” gli rispose Aldamir.

Senza quasi fare rumore salirono la lunga rampa di scale che portava alle cucine del palazzo: solo la cuoca, una donna che prestava servizio a palazzo da prima che Boromir nascesse, e un paio di altri servitori erano presenti in quel momento nel locale. La donna, diversamente dall’immagine che di lei Faramir ricordava, sembrava triste e annoiata.

“Rosalie” bisbigliò Faramir, nel tentativo di attirare l’attenzione della donna senza farsi scoprire anche dagli altri.

La cuoca alzò immediatamente la testa, con l’espressione di chi non è certa di aver udito bene: si guardò intorno per un  attimo e, non vedendo nulla di strano, decise di essersi sbagliata e riprese a sbucciare le patate per l’ennesima cena che nessuno avrebbe mangiato.

“Rosalie” la chiamò nuovamente Faramir.

Questa volta la donna era certa di aver sentito chiamare il suo nome, ma non era riuscita ad individuare da che parte provenisse.

Pur rimanendo celato ai suoi occhi, Faramir diede un leggero calcio ad un sacco di farina che distava poco da lui, causandone un movimento quasi impercettibile che però non sfuggì agli occhi curiosi della cuoca.

Abbandonò sulla tavola la patata che stava pelando, ma non il coltello con cui lo stava facendo e si diresse verso l’apertura che dava sulle cantine del palazzo: quando vide Faramir il suo volto si illuminò ed un enorme sorriso le distese i lineamenti imbronciati fino a pochi istanti prima.

Faramir dovette tapparle gentilmente la bocca con una mano, mentre con l’altra le faceva cenno di tacere, per impedirle di urlare il suo nome talmente forte che certo l’avrebbero sentita fino ad Edoras.

“Manda via gli altri servitori, per favore” le chiese sempre bisbigliando.

Lei annuì, e dopo aver fatto finta di sistemare il sacco di farina, si rivolse ai suoi aiutanti: “Andate pure, tanto nemmeno oggi il Sovrintendente mangerà nulla, e quindi non c’è molto da fare: posso cavarmela da sola”.

I due giovani la guardarono straniti per un attimo, ma non si fecero ripetere due volte quell’ordine: la donna non fece in tempo a sbattere due volte le ciglia che i due si erano già dileguati.

Portandosi le mani sui fianchi, Rosalie sbottò: “Ma tu guarda se sono altrettanto solerti ad eseguire anche gli altri miei ordini! Giovani scansafatiche!”

Ancora nascosto, Faramir sorrise sentendola brontolare: ora riconosceva la Rosalie di sempre.

“Chiudi la porta” le disse, ora un po’ più ad alta voce, e la donna ubbidì immediatamente.

Quando sentirono la pesante porta di legno chiudersi, Faramir e i suoi uomini si riversarono nella cucina.

La cuoca aveva quasi le lacrime agli occhi: “Il mio bambino!” esclamò andando a baciare ed abbracciare Faramir in una stretta che quasi lo fece soffocare. “Sapevo che non saresti rimasto a lungo dentro quelle maledette segrete! Ma come sei sciupato… Da quando non fai un pasto come si deve? Aspetta che preparo qualcosa per te e i tuoi amici. Ah ma ci sei anche tu piccolo birbante di un Telemnar: mi toccherà nascondere tutti i dolci se non hai ancora perso la brutta abitudine di rubarmeli da sotto il naso!”

Tutti sorrisero, mentre Telemnar arrossiva violentemente: l’abitudine l’aveva certo persa, ma non poteva certo negare di aver sottratto una gran quantità di dolciumi dalle cucine di Minas Tirith in passato.

“Ti ringrazio Rosalie, ma non adesso” disse Faramir, fermando la donna prima che questa cominciasse a preparare uno… spuntino… per un esercito intero. “Non è una giusta causa quella che mi riporta a palazzo, ma purtroppo è necessaria: sono qui per impedire a mio padre di fare nuovamente del male a se stesso e al suo regno”.

“Ma cosa dici bambino mio?” chiese preoccupata la donna. “E’ di tuo padre che stai parlando: cosa vuoi fargli?”

Faramir sospirò a fondo e sentì per un attimo la sua forza di volontà vacillare. Aldamir si fece immediatamente al suo fianco, come a ricordargli con la sua sola presenza, che quello che stavano facendo era giusto ed indispensabile.

“Mio padre è impazzito” riprese Faramir dopo un attimo. “E’ convinto che Boromir sia ancora vivo…” e vide gli occhi della donna inondarsi di lacrime, mentre anche i suoi bruciavano al solo ricordo, “… e quel che è peggio è che ha affidato il regno direttamente nelle mani del nemico. So che è terribile quello che sto dicendo, e credimi, farò di tutto perché nessuno gli faccia del male, ma devo fermarlo o tutta la Terra di Mezzo pagherà il prezzo della sua pazzia”.

“Quando sei così fermo e determinato mi sembri proprio tuo fratello, che riposi in pace nelle Aule di Mandos” disse la donna, tirando poi su rumorosamente col naso e affondando il viso rigato dalle lacrime nello strofinaccio che teneva legato alla vita.

Faramir la abbracciò dolcemente, cercando di consolarla proprio come lei aveva fatto per tanti anni con lui e Boromir ogni volta che qualcosa li aveva turbati. Più di una lacrima scorse anche sul suo viso.

Dopo qualche minuto in cui gli unici rumori avvertibili nella stanza erano i singhiozzi della donna, questa domandò: “Come posso aiutarti, bambino mio?”

“Voglio solo sapere se le abitudini di mio padre sono sempre le stesse: si ritira sempre nella biblioteca dopo aver pranzato o la pazzia l’ha portato a modificarle?” disse Faramir, sentendosi dannatamente in colpa.

“Effettivamente ha modificato molte delle sue abitudini, a cominciare al fatto che non mangia praticamente più nulla: da quando quell’odioso Grima Vermilinguo se n’è andato cucino proprio per nulla, ma meglio cucinare per nulla che per quel maledetto viscido!”

Faramir riconobbe il nome del tirapiedi di Saruman: per un attimo gli tornò vivida nella mente l’immagine dell’espressione  di odio e disgusto che si era dipinta sul volto di Eowyn di Rohan quando Aragorn l’aveva nominato.

“Comunque continua a chiudersi come sempre in biblioteca nel primo pomeriggio: questa è un’abitudine che non ha perso, anzi, ultimamente ci passa sempre più tempo” concluse la donna.

“Non so come ringraziarti, Rosalie” le disse Faramir, poi rivolgendosi ai suoi compagni disse: “Raggiungiamo adesso la biblioteca: lo aspetteremo lì, e vedremo se è ancora in grado di ragionare un po’…”

Si avviarono verso l’uscita della cucina quando la cuoca li fermò: “Aspetta Faramir! Due giorni fa era il compleanno di tuo padre e avevo preparato la crostata di mirtilli che una volta tanto gli piaceva. Non ha nemmeno voluto toccarla, e se non ricordo male, il nostro Telemnar ne era goloso almeno quanto il Sovrintendente: prendetela e mangiatela mentre lo attendete in biblioteca, ed evitate di fargli del male se potete, per favore…” concluse porgendo loro il piatto su cui poggiava la deliziosa torta.

Faramir la guardò sbalordito: per la prima volta aveva completamente dimenticato il compleanno di suo padre, e quel particolare non lo aiutò di certo a sentirsi meglio con se stesso.

Presero la torta e, con estrema attenzione, riuscirono a raggiungere la biblioteca senza incontrare nessuno: una volta tra i libri più antichi della Terra di Mezzo tuttavia, nemmeno Faramir, proprio come suo padre, ebbe voglia di mangiare il dolce che pure lo avrebbe fatto impazzire da bambino.

 

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Aragorn cavalcava silenzioso e veloce verso il porto di Pelargir, sull’Anduin. Il suo sguardo si rivolgeva spesso al cielo per cercare tracce dei suoi nemici.

Il suo animo era ormai pesante: era chiaro che lui rientrava nei piani di Sauron, ma non riusciva assolutamente a comprendere per quale motivo l’Oscuro Signore potesse volerlo.

Ormai le brevi soste che si concedeva per riposare un po’ erano tormentate da incubi in cui i ricordi del suo incontro con il nemico si mescolavano alla sua immaginazione e alle sue paure. Quando si risvegliava era più stanco e sfiduciato di quando era andato a dormire, tanto che presto rinunciò anche a quei brevi momenti di riposo.

L’unica cosa che sapeva chiaramente era che, qualsiasi fossero stati i piani di Sauron, lui non li avrebbe mai assecondati: piuttosto si sarebbe ucciso con le sue stesse mani.

Dietro di sé avvertiva continuamente la presenza degli spettri: a volte capitava che il loro re gli si affiancasse, causandogli brividi di freddo e paura quasi insopportabili. Era conscio di essere costantemente sotto esame, e se voleva che quegli spiriti disgraziati continuassero a seguirlo, non doveva commettere errori che minassero la sua autorità o che facessero vacillare la sua determinazione.

Anche durante quella tetra marcia l’unico conforto gli derivava dal ricordo dei suoi amici.

Più di una volta cercò di immaginare cosa stesse facendo Arwen a Valinor: si chiese se fosse felice e si rispose da solo che non avrebbe potuto essere diversamente. Si chiese anche se fosse già riuscita a dimenticarlo: lui aveva creduto di esserci riuscito durante il viaggio da Gran Burrone ad Edoras, ed era certo di poter dire che quando Eowyn era con lui il ricordo di Arwen si faceva meno doloroso. Ma quando era solo, quando la dama di Rohan non gli era accanto, o nei suoi sogni, era sempre alla Stella del Vespro che la sua mente correva. Quando si era trattato di scegliere se separarsi dall’anello Barahir o dal gioiello di Arwen per pagare il cavallo, non aveva avuto la minima esitazione: ormai non lo indossava più, ma per nulla al mondo si sarebbe separato dall’Evenstar.
No, non aveva dimenticato la sua Stella del Vespro, ne mai avrebbe potuto farlo veramente.
Non dubitava che esistessero nella Terra di Mezzo altre donne che avrebbero potuto fargli battere il cuore o accendere il suo desiderio, ed Eowyn di Rohan era senz’altro una di queste, ed era inoltre consapevole del fatto che, se fossero riusciti a vincere quella guerra, una volta diventato re avrebbe dovuto avere una regina per assicurare una discendenza al regno. Ma amare e desiderare un’altra donna non avrebbe significato dimenticare Arwen: lei sarebbe rimasta per sempre la parte immortale della sua anima di uomo, inscindibile ed indimenticabile.

 

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Denethor raggiunse la grande biblioteca del palazzo e, come al solito vi si chiuse dentro per poter scrivere in pace gli annali dei Sovrintendenti di Gondor, una sorta di diario in cui tutti i governatori di Minas Tirith annotavano tutti gli avvenimenti del regno. Quando però vide l’imponente libro aperto sul tavolo, mentre lui era solito riporlo sempre con estrema cura dopo averlo scritto, comprese che qualcosa non andava.

“Chi va là?” chiese, portando la mano all’impugnatura della spada. “Esci allo scoperto, codardo!” disse ancora quando non ottenne alcuna risposta.

La sua voce e il suo comportamento non sembravano quelli di un pazzo, ma il suo sguardo allucinato tradiva tutta la sua insanità mentale.

Fu Aldamir infine ad uscire allo scoperto da dietro uno scaffale colmo di libri: “Non temete Sovrintendente: solo vostro figlio e coloro che una volta ritenevate amici fidati sono in questa stanza”.

Faramir fece un passo verso di lui, mostrandosi così al padre.

Non appena Denethor lo vide, i suoi occhi si illuminarono: “Sei dunque tornato finalmente, figlio mio!” disse correndogli incontro per abbracciarlo. “Ora che finalmente sei di nuovo in città e che hai l’anello con te, nulla potrà più farci tremare, nemmeno quel miserabile traditore di tuo fratello Faramir!”.

“Padre ma…” fece per dire Faramir.

“Lo so, lo so Boromir! Lo so che gli hai sempre voluto bene, ma ora dimenticalo: ha tradito il suo regno e suo padre… Figurati che progettava di destituirmi, o di farmi perire in battaglia, per lasciare il trono all’erede di Isildur: credo che oltre che traditore sia anche pazzo! Ma ora che tu sei tornato, sento di nuovo forte la mia mano, e quando non lo sarà più, tu, Boromir, diventerai signore di Gondor!” disse con gli occhi lucidi Denethor abbracciando colui che era sicuro essere il suo figlio maggiore.

Faramir, stretto in quell’abbraccio così vigoroso, sentì contemporaneamente la rabbia bruciargli nel petto e le lacrime di pena stuzzicargli gli occhi. Si sciolse gentilmente dall’abbraccio del padre, e, costringendolo a guardarlo negli occhi, gli disse: “Padre io non sono Boromir. Mio fratello riposa in pace nelle Aule di Mandos, e non tornerà mai più a Minas Tirith”.

Denethor lo guardò incredulo, ferito: “Perché parli così, figlio mio? Io ti vedo di fronte a me, ed era solido il corpo che ho abbracciato pochi istanti fa…”.

“Padre, guarda la realtà e non quello che vuoi vedere! Io sono Faramir, e per il bene di Gondor, sono qui a sollevarti dal tuo incarico di Sovrintendente e a prendere il tuo posto finché Aragorn non giungerà qui!” gli rispose quasi urlando il figlio, mentre alcune lacrime erano infine sfuggite al suo controllo.

Denethor si ritrasse di qualche passo come scottato: continuava a guardare Faramir e vedere Boromir, ma non erano certo quelle le parole che si era atteso di sentire al ritorno del suo primogenito.

In pochi istanti venne circondato dagli uomini di Faramir: non erano ancora minacciosi, e il tocco di Aldamir sul braccio del Sovrintendente era ancora delicato e, nonostante tutto, rispettoso, ma Denethor si rese conto che le vie di fuga gli erano precluse e che non avrebbe fatto nemmeno in tempo a chiamare le sue guardie. Poco a poco la sua mente riconquistò un barlume di lucidità che gli permise di liberarsi dall’allucinazione e di rendersi conto che di fronte a lui c’era Faramir e non Boromir.

“Ma che diavoleria è mai questa Faramir!” esclamò il Sovrintendente. “Sei giunto addirittura ad allearti con Mordor per potermi apparire come Boromir e farmi impazzire?” tentò di fingere, ben sapendo che se davvero suo figlio si fosse venduto a Sauron a quel punto sarebbero stati dalla stessa parte.

“No, padre… sei tu che nella tua follia ti sei alleato con l’Oscuro Signore, ed è per questo che devo chiederti di abbandonare la guida del regno: i mercenari che hai assoldato sono molti, ma molti sono anche i soldati rimasti fedeli… possiamo ancora recuperare buona parte dell’esercito e dare battaglia a Mordor insieme alla gente di Rohan: abbiamo ancora qualche speranza di vittoria padre… ti prego torna in te…” gli rispose Faramir.

Una secca risata fu la risposta di tuo padre: “Sei veramente un folle Faramir! Credi davvero di poterti opporre a Sauron? Ma sai cosa ti dico? Non mi importa quanto tu sia pazzo: non vali nulla, non sei mai valso nulla! Quando tornerà veramente tuo fratello, lui comprenderà che è solo per il bene di Gondor che mi sono alleato con Mordor, in modo da poter estendere il dominio di Minas Tirith a tutta la Terra di Mezzo! Lui sarà al mio fianco mentre tu sarai morto ucciso indecorosamente da qualche Uruk-hai del nostro altro potente alleato Saruman il Bianco!” disse sprezzante, ricominciando poi a ridere.

“Padre: non so se uno degli Uruk-hai di Saruman ucciderà anche me, ma di sicuro uno di loro ha ucciso Boromir!” disse, alzando la voce in modo che, tra le risate, suo padre potesse udire le sue parole. “Se anche Boromir potesse tornare inorridirebbe di fronte al tuo tradimento: lui è morto combattendo contro Mordor! Lui è morto tra le braccia di Aragorn, riconoscendolo come re di Gondor! Lui è morto, ucciso da coloro che tu adesso chiami amici ed alleati!” concluse non riuscendo più a trattenere le lacrime.

“Tu menti figlio degenere!” urlò, quasi strozzandosi per la foga con cui lo fece. “Tu vuoi farmi credere che tuo fratello sia morto perché così diventeresti tu il mio unico erede! Ma io non ti credo, e non permetterò che tu, o quel maledetto erede di Isildur usurpiate il posto gli spetta: sarà lui a guidare Gondor dopo che Sauron avrà vinto, non tu né tanto meno il tuo immaginario amico che si proclama erede al trono!”.

Fece per avventarsi addosso a Faramir, ma Aldamir e Telemnar lo bloccarono prima che potesse sguainare la spada. Denethor lottò furiosamente per liberarsi dalla stretta dei due uomini che, in due, faticavano a tenerlo buono.

Poi all’improvviso ogni tentativo di ribellione cessò; quando Telemnar ed Aldamir riuscirono, senza mollare la presa, a guardarlo in faccia, chiedendosi il perché di quell’improvvisa arrendevolezza, videro lo sguardo dell’uomo fisso su Faramir. Fu solo quando allentarono la stretta che notarono che in realtà gli occhi di nuovo allucinati di Denethor non fissavano il figlio, ma un punto imprecisato dello scaffale colmo di libri alle sue spalle.

“Boromir!” esclamò di nuovo con le lacrime agli occhi. “Finalmente sei tornato! Tuo fratello tentava di convincermi che tu fossi morto. Lo sapevo che non dovevo dargli ascolto… Ma ora che sei qui, non importa più… Bentornato…”.

Aldamir, Telemnar e tutti gli altri uomini si guardarono con aria cupa e rassegnata; anche Faramir si voltò in direzione dello sguardo del padre: non vide nulla, ma ebbe la netta impressione che questa volta il padre non stesse farneticando di nuovo. Avvertiva una sensazione familiare, di sicurezza e di coraggio: la stessa identica sensazione che aveva sempre avvertito da piccolo quando era con il fratello maggiore. Non lo vedeva, e non sapeva spiegarsi come questo fosse possibile, ma ebbe la netta impressione che in quella stanza, insieme a lui, a suo padre e ai sui amici ci fosse veramente anche lo spirito di suo fratello, e suo padre sembrava vederlo.

Faramir sbaglia padre…” disse lo spettro di Boromir con parole che solo il padre poté udire. “Ma sbaglia solo quando crede che io stia riposando nelle Aule di Mandos. Io sono sempre stato qui: prima ancora che vi giungesse il mio corpo senza vita, il mio spirito aveva già fatto ritorno a Minas Tirith e, per quello che ho potuto vedere, ringrazio i Valar di non essere mai riuscito a convincere Aragorn a passare da queste parti con l’Anello” disse con aria severa.

“Perché dici questo, figlio mio?” chiese di nuovo Denethor, apparentemente parlando al vuoto dietro Faramir.

Come hai potuto tradirci, padre? Hai veramente pensato che schierandoti dalla parte di Sauron questi ti avrebbe ricompensato in caso di vittoria? Se vincerà ti schiaccerà, così come schiaccerà Saruman e il suo maledetto consigliere: Sauron è odio allo stato puro, ma disprezza i traditori più di quanto li disprezziamo noi. E se anche non lo facesse, su cosa regneresti? Su una landa deserta e disabitata, popolata solo di orchi e oscenità di ogni tipo che mai ti permetterebbero di chiudere un occhio per riposare. Perché padre hai fatto tutto questo?” chiese ancora Boromir, e questa volta il suo sguardo era velato da una profonda tristezza.

“Come perché Boromir? L’ho fatto per te, per assicurati di poter prendere il mio posto quando io non ci sarò più! Se non avessi fatto tutto ciò, un bastardo figlio di non si sa chi, che un giorno si è svegliato decidendo di essere l’erede di Isildur avrebbe preso il tuo posto! Non potevo permetterlo Boromir! Non potevo permettere che ti facessero questo!” si giustificò Denethor, ormai sull’orlo di un abisso dal quale non avrebbe mai più potuto riemergere.

Io sono morto padre, tu stesso hai celebrato il mio funerale!” disse Boromir facendo un passo avanti: ora Faramir poteva avvertirne distintamente la presenza. “E poi non ti permetto di parlare così di Aragorn: è un amico ed è più degno di guidare Gondor di quanto non lo siano mai stati tutti i Sovrintendenti messi insieme. Molto più degno di quanto non sarei mai stato io” aggiunse quasi in un sospiro, ancora tormentato dall’attimo di follia in cui aveva attaccato Frodo per impadronirsi dell’anello.

“Se sei davvero morto perché io posso vederti… parlarti?” chiese l’uomo, con voce ormai isterica.

Non so come questo sia possibile: forse perché ormai sei completamente pazzo. Ma se non vuoi credermi, prova ad abbracciarmi…” disse superando Faramir, quasi passandogli attraverso, e ponendosi di fronte al padre.

Per tre volte Denethor tentò di abbracciarlo, e per tre volte le sue braccia non strinsero che l’aria immobile della stanza.

Sono morto padre…” disse allora Boromir con dolcezza, quasi intenerito dall’uomo impazzito per troppo amore nei suoi confronti.

“Allora sono davvero solo…” sussurrò Denethor, con le lacrime che gli stravolgevano il volto.

Non sei solo: hai un altro figlio! Lascia il comando a Faramir perché si occupi sia del regno che di te…” gli suggerì Boromir.

Denethor alzò di scatto la testa, guardando Boromir con occhi furiosi: “Lui non ne è degno! Tutto quello che è riuscito a combinare nella vita è stato di far morire sua madre! Non ha mai avuto un briciolo del tuo valore, della tua forza e del tuo coraggio. Per tutta la vita sei stato il suo scudo e lui, povero codardo, si è sempre nascosto dietro di te; ed ora che ha perso la sua protezione ha deciso di far finta di essere un eroe: ma un codardo è e un codardo rimane!”. Poi volgendo lo sguardo verso Faramir, continuò: “Ma guardalo! Sa benissimo che stiamo parlando di lui, e tutto quello che sa fare è abbassare la testa e piangere come una femminuccia: non riuscirà mai a farsi obbedire da una moglie, sempre che trovi una disposta a sposare uno smidollato, vuoi che possa governare un regno! Consegnerò Minas Tirith dritta dritta nelle mani di Sauron piuttosto che lasciarla a lui!” concluse, scagliandosi nuovamente addosso al figlio minore, in maniera talmente improvvisa che questa volta nemmeno Aldamir, Telemnar e nessun altro poterono evitarlo.

Faramir venne scaraventato contro lo scaffale della biblioteca e poi a terra dalla furia del padre: venne colto anche lui completamente di sorpresa e così riuscì a reagire solo quando le dita dell’uomo si strinsero avide al suo collo. Per qualche istante la lotta fu furibonda, mentre Denethor continuava a sentire la voce di Boromir che lo chiamava rabbiosa, che gli urlava di smettere. Faramir si sentiva soffocare: i suoi amici tentavano di scrollargli di dosso il corpo del padre, ma le dita dell’uomo si stringevano sempre più inesorabili intorno alla sua gola.

“Padre ti prego, torna in te o ti uccideranno!” rantolò Faramir con un filo di voce.

Padre, lascialo! Lascialo! Possibile che non capisci che lui, nonostante tutto, ti ama!” urlò Boromir dritto nella testa di suo padre.

All’improvviso Denethor si fermò e staccò le mani dal collo del figlio che immediatamente riprese a respirare tossendo violentemente. L’uomo fissò con sguardo inorridito i segni già violacei sulla gola di Faramir, poi si guardò le mani come a chiedersi se fosse stato lui a causarglieli. Avvertiva sulle braccia la stretta ferrea di due uomini, ma quasi non riusciva a comprendere nulla di quella situazione.

“Faramir…” sussurrò tentando invano di aiutare il figlio a rimettersi in piedi. “Ma cosa è successo?”

“Lasciatelo per favore” disse il giovane rivolto ai suoi amici, e di fronte alla ritrosia dei due uomini, ripeté: “Per favore…”

L’uomo, in un barlume di lucidità, si rese conto della situazione e si prese la testa fra le mani. Boromir continuava a parlargli, ma il padre non sembrava vederlo né sentirlo più. Denethor riprese a guardarsi intorno allucinato, passando gli occhi da Faramir agli altri uomini presenti nella stanza, poi di nuovo alle sue mani. E cominciò a piangere.

Faramir fece per avvicinarglisi, ma suo padre lo fermò con una mano: “Maledizione Faramir, alla fine non sono poi così diverso da te! Ma non posso accettare di essere destituito!”

“Padre per favore…” cominciò a dire, quando suo padre, in un ultimo gesto disperato, corse verso la grande balconata che si apriva sulla biblioteca e si gettò nel vuoto.

“No!!!” urlò Faramir; ma quando giunse ad affacciarsi al balcone il corpo di suo padre era già steso sul piazzale sottostante, mentre la gente di Minas Tirith cominciava ad affollarsi lì intorno, attirata da quella disgrazia come le api dal miele.

 

I testimoni del suicidio di Denethor erano tanti, tutti coloro che, dalla strada, avevano chiaramente visto l’uomo gettarsi dal balcone di sua spontanea volontà, e così nessuno accusò Faramir dell’accaduto; al contrario, nonostante l’opposizione strenua dei soldati venuti da Mordor, Faramir venne nominato Sovrintendente del regno.
L’uomo si gettò a capofitto in quell’indesiderato incarico, riuscendo in pochi giorni ad eliminare tutti i mercenari al soldo di Sauron e a ristabilire, soprattutto grazie all’aiuto di Aldamir, le giuste gerarchie e il giusto ordine nell’esercito. Furono giorni di grande tensione quelli che seguirono, in cui alcuni soldati, che non avevano gradito troppo il ritorno dei vecchi ranghi, tentarono più volte di sollevare la popolazione cittadina contro quello che definivano un usurpatore  patricida. Gli abitanti di Minas Tirith conoscevano tuttavia fin troppo bene il giovane Sovrintendente, e non nutrivano dubbi sulla sua lealtà al regno ed integrità morale: erano veramente pochi quelli che avevano creduto all’accusa di tradimento, e ancora meno erano stati quelli che non avevano gioito quando la notizia della sua fuga si era diffusa in tutta la città. Così la capitale di Gondor rimase fedele al suo Sovrintendente, aiutandolo a ristabilire l’ordine.
Tutto il trambusto di quei tristi giorni servì comunque a Faramir per non fermarsi troppo a riflettere su quello che era accaduto alla sua famiglia: aveva voluto funerali solenni per suo padre e chiunque vi partecipò non dubitò mai, nemmeno per un istante, che il suo dolore fosse autentico. Ora però che era completamente solo, cominciava a comprendere il dolore del suo genitore, ma decise di non prestarvi attenzione, o avrebbe rischiato di impazzire proprio come lui.
Più di una volta durante quelle notti sognò suo fratello Boromir, ed ogni volta, svegliandosi, si chiese se fosse stato veramente solo un sogno o se per caso suo fratello fosse in realtà ancora lì, com’era stato nel giorno del suicidio, per sostenerlo ancora. Ovviamente queste erano domande che non trovarono mai risposta, e Faramir non avvertì mai più la presenza del fratello come l’aveva avvertita quel pomeriggio nella biblioteca.
Meno di una luna dopo il suicidio di Denethor II, la calma e l’ordine erano ristabiliti a Minas Tirith, e il rinnovato esercito di Gondor si preparava a scendere in guerra al fianco di Rohan contro il potere oscuro di Mordor.

 

NOTE: Visto che nessuno commenta più, ma visto soprattutto il numero delle visite in netto calo, mi chiedo se vi interessi davvero che io continui questa storia: fatemi sapere, o la smettiamo di perdere tempo sia io che voi. Ciao!

  
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