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Autore: Imaginary82    16/06/2010    3 recensioni
Quante volte mi sono ritrovato sulla bocca dell’inferno? Ho sentito il calore delle fiamme scaldare il mio gelido corpo, ho guardato in basso, attratto dall’enorme distesa di lava incandescente che mi reclamava fumante e odorosa come un’enorme pozza di sangue. Sarebbe stato così semplice e appagante immergersi e soccombere…sprofondare…
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
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capitolo sette

 Salve a tutti, il capitolo è pronto da tanto tempo, ma è stato un periodo un po' così...spero sia rimasto qualcuno che si ricordi di questa storiella.

Come sempre ringrazio tutti coloro che hanno letto, di cuore.

 

 

CAPITOLO SETTE

Fly Me Away/Flay Me To Her

 

Sentivo il pavimento freddo sotto la mia guancia.

Spalancai piano gli occhi. Bruciavano e se sbattevo le palpebre era come se ci fossero un’infinità di pietruzze dentro.

Le dita delle mani erano intorpidite, senza rendermene conto avevo tenuto i pugni stretti per tutto quel tempo. Mi rialzai a fatica e, guardandomi allo specchio, cercai di darmi una sistemata. Mi lisciai la gonna spiegazzata con le mani, riavviai i capelli all’indietro e mi pizzicai le guance per dare un po’ di colore al mio viso smorto. Lo feci meccanicamente, solo dopo pensai al fatto che fosse un gesto che faceva frequentemente la mamma, incurante delle mie proteste.

Improvvisamente sentii alcuni rumori provenire dal piano di sotto. E di nuovo ci fu ansia, preoccupazione.

Uscii dalla mia stanza e mi lanciai a perdifiato lungo le scale. Vidi mio padre e il suo collega che si preparavano per uscire. Quella scena mi tolse il respiro. Mancavano pochi gradini ma mi bloccai.

“Bells che succede?”

Scossi violentemente il capo “Niente…ma…dove vai?”

“A lavorare piccola, dove vuoi che vada?”.

Avrei voluto gettarmi ai suoi piedi, piangere e supplicarlo di non andare via, di non lasciarmi. Ma non feci nulla di tutto ciò. Mi avvicinai timorosa e lui, capendo le mie intenzioni, si abbassò per ricevere il mio abbraccio.

“Sii prudente” dissi con la voce tremante.

“Lo sono sempre”.

Mi separai da lui a malincuore e lo seguii con lo sguardo finché non si chiuse la porta dietro le spalle.

Fu l’ultima volta che lo vidi.

Quella sera andai a letto molto tardi, Kitty mi permise di aspettarlo, ma, alla fine, dovetti rinunciare.

Era buio e di papà nemmeno l’ombra.

Mi misi a letto senza provare neanche a prendere sonno. Sarebbe rientrato prima o poi e volevo stare sveglia ad aspettarlo.

Non avevo mai avuto paura della notte o dell’oscurità. La mamma mi aveva insegnato a distinguere i rumori e a giocare con le ombre che dalla finestra si proiettavano sul pavimento di legno.

Eppure quella notte, ogni suono sembrava tetro e cupo o cigolante e stridulo.

Immagini orribili si muovevano terrifiche per la stanza.

Nonostante il fuoco che ardeva nel camino, mi sentivo gelare. Il corpo era scosso da violenti tremiti e sentivo le mani e i piedi ghiacciati.

Le fiamme danzavano alte e scoppiettanti, ma non vi era nulla di attraente in quella danza, anzi…quel rosso aveva un non so che di inquietante.

Mi rannicchiai sul letto. Le gambe al petto e le braccia intorno alle ginocchia, nell’illusione di un abbraccio che non potevo chiedere a nessuno.

Cominciai a raccontarmi favole silenziose, ma nulla riusciva a colmare l’agitazione che si era impadronita di me. Nemmeno canticchiare la mia ninna nanna ebbe il potere di tranquillizzarmi.

 

Cercavo di cogliere ogni minimo rumore, in modo da poter sentire i tacchi degli stivali sul vialetto.

 

Il fruscio delle foglie.

 

Il fischio del vento.

 

Il cigolio delle imposte.

 

I rintocchi dell’orologio a pendolo.

 

Il russare sommesso di Kitty.

 

Albeggiava ormai…

 

In passato non ci avrei pensato due volte a rimanere avvolta nelle pesanti coperte, aspettando fino all’ultimo istante prima di alzarmi. Quella mattina non vedevo l’ora di vestirmi e scendere…per non pensare troppo, per ingannare il tempo. Avrei potuto disegnare un po’, magari, o suonare, o leggere qualcosa.

Mi avvicinai alla toeletta e mi guardai per un attimo allo specchio. Distolsi immediatamente l’attenzione, sentendo finalmente il rumore di qualcuno che si avvicinava alla casa. Affrettai i miei gesti. Mi sfilai la camicia da notte, rabbrividendo al contatto della pelle con l’aria fredda del mattino. Scelsi un vestito a caso, in cui mi immersi sgarbatamente per poi riaffiorare trafelata. Mi sistemai i capelli e sentii tre decisi colpi alla porta di casa.

Sorrisi istintivamente e tirai un respiro di sollievo.

…i passi veloci di Kitty…

Afferrai la brocca per riempire il catino e rinfrescare il viso.

…il rumore della porta che si apriva…

“Buongiorno Miss Avery”

Non era la voce di papà.

“Buongiorno ma…dov’è l’ispettore Swan?”

Il silenzio che seguì quella domanda fu come uno schiaffo in pieno viso.

La brocca mi cadde dalle mani e s’infranse rumorosamente sul pavimento.

Le due voci provenienti dal piano di sotto s’intrecciarono rapide e fitte.

Non avevo bisogno di sentire…non era necessario capire.

Uscii dalla mia stanza, i piedi ancora scalzi, lentamente cominciai a scendere le scale. Mi tenevo saldamente aggrappata al corrimano e ogni passo compiuto era come un affondo di lama nel cuore.

Vidi le spalle di Kitty e l’uniforme senza volto di fronte a lei.

Smisero di parlare quando sentirono lo scricchiolio delle assi di legno sotto i miei piedi ed entrambi si voltarono a guardarmi. Sui loro volti una strana espressione. Come di chi vuole chiedere scusa…ma per qualcosa di cui non ha colpa.

“La prego Miss Avery, lo dica lei alla figlia dell’ispettore”.

Clearwater, così lo aveva chiamato papà la sera prima, quando aveva deciso di uscire e andare incontro alla sua fine. Senza aggiungere altro, fece un cenno di saluto e andò via.

Mi sentii avvolgere da braccia accoglienti e disperate. Mi sentii bagnare il viso da lacrime non mie. Le parole farfugliate al mio orecchio rimanevano lontane e indistinte. Non le capivo…non volevo capirle.

“Sto bene” bisbigliai quando mi guardò con gli occhi colmi di lacrime. “Sto bene Kitty, non preoccuparti” ripetei più a me stessa che a lei.

In quel momento non volevo sentire nessuno, non volevo parlare, non volevo piangere…volevo essere semplicemente lasciata in pace.

Per fortuna lei lo capì. Si rimise in piedi e si diresse verso la cucina.

Quando una lacrima ribelle mi rigò una guancia realizzai: “sono sola”.

 

 

***

 

 

Guardai Alice sfrecciare nel vento. Le ero grato per la fiducia che aveva riposto su di me sin dall’inizio. Affrontare questa “battaglia” insieme a lei cancellava ogni possibile dubbio che la mia mente insicura potesse formulare.

Man mano che divoravamo le miglia, sentivo l’impazienza diventare insostenibile.

Il fatto che mia sorella stesse tentando in ogni modo di celarmi i suoi pensieri non faceva altro che aumentare l’ansia. Eppure il suo viso era disteso e, ogni volta che posava il suo sguardo su di me, potevo vedere un’espressione di assoluta serenità. Probabilmente era solo un modo per conquistarsi un po’ di quella privacy così difficile da preservare da quando mi ero unito alla famiglia Cullen.

 

 

***

Fly Me Away

 

Rimasi immobile per molto tempo. Il cuore martellava così forte nel petto che, nel silenzio della casa, potevo quasi sentire il suo ritmo furioso e incespicante.

Quando mi riscossi da quel torpore, mi incamminai verso il mio rifugio preferito. Scostai le pesanti tende, presi il grande e caldo scialle della mamma, che tenevo sepolto sotto uno dei cuscini, me lo avvolsi intorno alle spalle e mi sedetti sul vano della finestra. Inspirando potevo sentire ancora forte il suo profumo e, chiudendo gli occhi, mi illudevo che ci fosse lei dietro di me, ad abbracciarmi. Poggiai la guancia contro il vetro freddo e mi misi a fissare le sottili gocce che, silenziose e tristi, cominciavano a scendere da un cielo grigio, cupo e pesante come in quel momento era il mio cuore.

 

*…un paio d’ali…per volare in alto, oltre le nubi, dove cantano gli angeli.

 Mi ritrovo qui, sola, in questo posto, arrivata alla fine.

 È tutto così veloce. Davanti a me il futuro, dietro il passato…ma ora solo la fine.

 Un presente come non l’avevo mai visto prima. Non è il posto giusto dove stare.

Se potessi…se solo avessi un paio d’ali…le supplicherei di portarmi via…

 

 

***

 

In linea d’aria, poco più di 100 miglia separavano Bakewell da Whickham. Attraversammo rapidamente il Derbyshire e le contee dello Yorkshire, avvantaggiati dalla profonda conoscenza di quei luoghi, acquisita nel tempo grazie alla caccia.

Nel primo pomeriggio giungemmo nel Durham. Cercavamo di rimanere in prossimità delle pendici dei Pennini, lontani dai centri abitati.

Alice non lo dava a vedere, ma ero assolutamente certo che fosse preoccupata per me. Ero talmente accecato dalla rabbia ed eccitato dalla sete, che io stesso non avrei potuto immaginare la mia reazione nel caso in cui avessimo incontrato un ignaro ed innocente umano lungo il tragitto.

Quando sentii i miei fratelli rallentare per poi fermarsi, mi voltai di scatto con aria interrogativa e irritata. Ero consapevole che mancasse poco, ma non avevo la minima intenzione di prolungare ulteriormente quell’agonia che mi stava divorando.

Fu Alice a parlare: “ Edward, fermati. Siamo vicini ormai, c’è tempo a sufficienza. Approfittiamone per spegnere la sete. Hai bisogno di nutrirti”.

“NO” Come poteva pensare alla caccia in un momento del genere? “Non c’è tempo. Prima arriveremo, prima potremo mettere in salvo la bambina e impedire che James mieta altre vittime”. Pronunciai quelle ultime parole con un tono decisamente troppo alto, sperando che risuonassero a loro più convincenti di quanto fossero parse a me. Volevo spezzare quell’essere, solo per averla resa oggetto dei suoi sudici pensieri! Ma, se fosse stato necessario, l’avrei lasciato andare pur di allontanarmi e di portare al sicuro quella piccola creatura.

“Edward rifletti. Dobbiamo cercare di rafforzarci il più possibile. Non possiamo rischiare di essere deboli. Pensa se non riuscissimo a contrastarlo. Che succederebbe?”

Non aveva torto…come al solito! Sapeva quanto disperatamente tenevo a fermare quel mostro e non potevo permettermi di non essere in grado. Bisognava valutare ogni rischio. E l’inferiorità dovuta alla nostra “dieta” era un  rischio considerevole.

“Facciamo in fretta” ringhiai. Rapido volsi loro le spalle e mi inoltrai nella fitta vegetazione.

 

 

***

 

La lieve pioggerella si era trasformata in pesanti e continui scrosci d’acqua, che si riversavano sui vetri rendendo indistinguibile ogni cosa.

Kitty mi chiamava da un po’, per il pranzo pensai. Svogliatamente mi allontanai dalla finestra e mi diressi in cucina. Era un’abitudine che avevo preso dopo la morte della mamma. Quando papà non c’era evitavo la sala da pranzo, che, vuota e silenziosa, mi rattristava più del solito.

Ma ora era morto anche lui…

Non avrei voluto mangiare, non ne avevo voglia, ma Kitty era sempre così gentile e amorevole con me, si prodigava preparando i miei piatti preferiti e il suo caldo sorriso si apriva luminoso quando le apparivo serena.

Apprezzai il suo silenzio. Continuò ad armeggiare davanti al fuoco, buttando di tanto in tanto un’occhiata verso di me.

Ingollai un paio di bocconi di roast-beef, meccanicamente, senza pensare e senza sentire il sapore. Li annaffiai con un rumoroso sorso di latte e allontanai il piatto. Lei mi guardò amareggiata.

“Non ti piace? Non è tenero?Vuoi che ti prepari qualcos’altro?”

Mi vergognai in quel momento per il mio gesto. Mi rimisi composta sulla sedia e continuai a mangiare silenziosa, senza sentire odori, senza gustare sapori. Finii la carne e assaggiai un po’ di pudding. Gli occhi di Kitty erano fissi su di me.

“Grazie, era tutto buonissimo” mentii, senza nemmeno cercare di farlo decentemente.

Mi alzai da tavola e mi diressi nel salone. La pioggia continuava a scendere furiosa e notai che quel suono sarebbe stato un accompagnamento perfetto.

Presi lo spartito, fermandomi per un attimo a guardare la sua grafia, e con dita incerte cominciai a suonare la mia ninna nanna.

 

***

 

Mancava davvero poco. La nostra corsa, dopo la caccia, era ancora più folle e veloce. Avevo trangugiato il sangue di quelle stupite vittime avidamente, senza nemmeno sentirne l’odore, spinto solo da un senso del dovere che Alice aveva destato in me.

Bere abbondantemente mi aveva lasciato una sorta di euforia. Mi ritrovavo in uno stato di vigile ebbrezza e, mai come in quel momento, mi sentivo sicuro di me stesso.

Quando finalmente varcammo il confine con il Tyne and Wear, Jasper cominciò silenziosamente ad illustrarmi il suo piano.

“Dobbiamo cercare in ogni modo di tenerlo lontano dalla casa. È necessario agire repentinamente”

“Sta risalendo lungo la riva del Tyne. Aspetterà che le ultime luci del giorno si affievoliscano per avanzare tra gli alberi e avvicinarsi a Bella”

La facilità con cui Alice pronunciò il suo nome mi turbò. Era come se conoscesse quella bambina da tempo. I suoi pensieri, così fugaci, non facevano altro che confermare ogni mio dubbio: mi stava nascondendo qualcosa.

“Dalle informazioni di Lars sono pressoché certo che non agiscono seguendo una precisa strategia. Si tratta di vampiri giovani. Il loro unico scopo è soddisfare la sete. Sono vittime loro stessi di istinti incontrollabili, privi di remore morali”.

La mente di Jasper era un turbinio di pensieri e di immagini. Pensava a James, a come aiutarmi a cancellarlo dalla faccia della terra, ma non poteva fare a meno di ricordare la sua battaglia, quella che aveva perso…su tutti i fronti.

Pensavo che la sorte che mi era capitata in passato fosse quanto di più atroce potesse accadere ad un essere umano. Eppure sulla nave che mi portava al vecchio continente, quella nave che mi avrebbe condotto ad una nuova vita, sentii racconti altrettanto raccapriccianti. Storie di vite spezzate ingiustamente da una morte con la quale avremmo convissuto per l’eternità.

I raggi del sole che arrivavano in cabina mi rivelarono un volto segnato da una fitta e intricata trama di scie lucide e luminose. Quando chiesi a Jasper la causa di quei segni, cominciò a raccontarmi la sua storia.

Rimasi ad ascoltarlo, soggiogato dalle sue parole. Sembrava calmo, ma i suoi pensieri erano tormentati. Narrò della guerra, della carriera promettente di soldato. Faceva parte della “minute company”, una sorta di unità speciale, i cui membri erano sottoposti ad un addestramento aggiuntivo e tenuti ad essere pronti rapidamente, “con un minuto di preavviso”. Minutemen erano detti. Avevano solitamente 25 anni o meno, ed erano scelti per il loro entusiasmo, affidabilità e forza. Erano le prime milizie armate ad arrivare o ad attendere la battaglia.

Jasper aveva solo 23 anni quando entrò a far parte di questo gruppo di temerari. Possedeva un notevole carisma, che dopo si era tramutato nella capacità di influenzare l’umore delle persone che gli stavano vicino. Divenne il maggiore più giovane del Massachusetts.

Il 19 aprile 1775, durante la prima battaglia della guerra d’indipendenza, a Lexington, incontrò la morte. Morte che non avvenne per mano del nemico, ma fluì dalle morbide, sensuali e fredde labbra di una donna. La sua bellezza fu come un miraggio nell’orrore della battaglia, al quale il maggiore Whitlock si concesse come un assetato nel deserto. Non mi raccontò i giorni dell’incendio e gliene fui grato. Era un dolore ancora vivo nel mio corpo morto.

La vampira dal viso d’angelo si chiamava Maria. Una donna folle, la cui follia si era accresciuta enormemente dopo la trasformazione. Assetata di vendetta oltre che di sangue, aveva un unico scopo: formare un esercito di vampiri, uomini con un potenziale preciso, che sarebbero stati al suo servizio per affermare la supremazia della nostra razza sugli inutili umani. In poco tempo arruolò circa venti persone, a cui mise a capo Jasper. Velocemente le cose le sfuggirono di mano. Non aveva tenuto conto dell’indole e degli istinti bestiali dei neonati, che, rapidamente, finirono per sterminarsi a vicenda. Da quella terribile esperienza derivava l’abilità di mio fratello nel comprendere quella tipologia di mostri e la mappa dei segni dei morsi, che gli percorreva il corpo. La linea di sangue ci univa tutti, ma la volontà e la coscienza, differenziava noi da loro.

Volontà che Jasper dimostrò di avere allontanandosi da Maria. La situazione non migliorò. Nonostante fosse stanco di uccidere, era condannato a farlo, credeva di non avere scelta. Provava a trattenersi, ma non faceva che aumentare la sua sete cedendo ad istinti peggiori. Anche lui come me provò ad isolarsi dal mondo e, nel momento di maggior sofferenza, incontrò Alice. E con lei la salvezza e l’amore.

Al ricordo del viso di mia sorella, le sue labbra si aprirono in un sorriso e si scambiarono uno sguardo silenzioso ma che valeva mille parole. Uno sguardo talmente intenso da costringermi a voltarmi.

Non conoscevo quel sentimento, ma viverlo nei loro gesti, nei loro pensieri, era tra le emozioni più belle e intense che avessi mai provato.

Da efficiente soldato, Jasper tornò immediatamente serio.

“Fanno affidamento esclusivamente sulla loro forza fisica. Edward non lasciare che ti stringa tra le braccia e non attaccare in maniera prevedibile”.

“Ho solo voglia di staccargli la testa” sibilai.

“Calma…devi agire d’astuzia. Muoviti di lato e cerca di confonderlo”. Poi si voltò verso Alice e disse: “sono sicuro che non ci sarà bisogno che tu ti unisca allo scontro. Ma sarai ugualmente indispensabile. Cerca di prevedere le sue mosse e mantieniti in contatto con Edward”.

Sorrisi alla risposta contrariata che le rimase muta nella testa. Ma sapeva che il suo posto era lì, vicino a…Bella.

Attraversammo Chopwell cercando di evitare il centro del villaggio. Ritornare all’andatura “umana” era snervante ma necessario. La pioggia che ci aveva accolti appena varcato il confine, da lieve e fitta, si era fatta pesante e insistente. Jasper era fiducioso. Avremmo potuto sfruttarla a nostro vantaggio. L’afrore della terra bagnata, dei tronchi umidi e delle foglie, avrebbe distratto la nostra preda, consentendoci di agire ancora più inaspettatamente.

 

***

 

Quelle note non ebbero come al solito la forza di rasserenarmi, anzi, ogni errore, ogni incertezza nell’esecuzione mi irritava. Sentii una rabbia mai provata prima. Le mani tremavano e sentivo le guance accese d’ira. Mi fermai per un attimo e il silenzio calò bruscamente nella stanza e su di me.

Mi alzai di scatto rovesciando per terra lo sgabello e premendo violentemente le dita sui tasti. Un suono tetro fuoriuscì da quel gesto. Dopo pochi secondi Kitty apparve trafelata sulla porta.

“Bells, che succede? Tesoro, tutto bene?”

“No che non va tutto bene! Come puoi anche solo chiedermi una cosa del genere?”

“Bambina mia, non fare così. È la vita…pensa che i tuoi genitori adesso sono in cielo, insieme e da lassù veglier…”

“Smettila!” la interruppi urlando “loro mi hanno lasciata qui…sola!”.

Non stavo provando nemmeno a fermare le lacrime e sentire quella rabbia, ammettere quella verità mi piegò.

Prima di raggiungere il pavimento Kitty mi accolse tra le braccia.

“Ssh…non piangere piccola” mi ripeteva queste parole come una cantilena, cullandomi dolcemente, mentre disperata mi aggrappavo al suo vestito.

Per la prima volta da tempo, quel contatto mi scaldò il cuore. Sentii un accenno di sollievo quando realizzai che c’era ancora una persona che mi voleva bene.

“Kitty?”

“Mh?”

“Tu non mi lascerai vero? Starai qui con me…per sempre”.

Quel ritmico dondolio si arrestò improvvisamente. La sentii irrigidirsi e alzai la testa per guardarla.

“C-che…che c’è che non va?”

La voce mi usciva a stento. Lei mi guardava con gli occhi sbarrati. La scossi bruscamente. Volevo capire cosa mi stesse nascondendo, ma lei distolse lo sguardo e si allontanò da me.

“Bella io…tu…insomma, non è così semplice”.

Mi alzai in piedi e mi misi dritta davanti a lei. In quel momento sentii che il mio cuore, attraversato da crepe sottili, si era definitivamente frantumato. Tremavo.

“Vedi, io e te non abbiamo legami di sangue. Ti voglio bene, questo devi ricordarlo sempre, ma tu non puoi stare con me”.

“SI CHE POSSO! Non m’importa del sangue…tu devi stare con me!”.

“Tesoro, non fare così…”

Tutta la rabbia e la disperazione che per giorni avevo tenuto sopite dentro di me, in quel momento esplosero. Mi avventai su di lei colpendole ripetutamente il petto con i pugni chiusi.

“Tu non mi vuoi bene. Se me ne volessi rimarresti con me. Invece anche tu mi lascerai…ti odio…TI ODIO…”.

Non cercò di evitarmi, né di scansarmi. Come una spugna assorbì tutta la collera che le stavo riversando addosso, finché, sfiancata, mi fermai rimanendo aggrappata a lei.

“Domani tuo zio John e tua zia Diana verranno a prenderti. Ti porteranno a Gateshead. Starai con loro. È la cosa più giusta da fare”.

“…no…” sussurrai priva di forze “non voglio andare lì, voglio restare a casa mia”.

“Ma non è possibile. E poi cerca di pensare agli aspetti positivi. Crescerai in un ambiente lussuoso e ci saranno le tue cugine a tenerti compagnia. Sono sicura che starai bene”.

Il pensiero di quella casa fredda, di quell’ambiente formale, la consapevolezza di essere un ospite sgradito mi irrigidì. Mi allontanai da Kitty e le voltai le spalle.

“Non starò bene” dissi duramente.

“Non lo puoi sapere” rispose posando una mano sulla mia spalla. Rifuggii da quel contatto.

“Bells…”

“Non chiamarmi così”

“Ma…Bella…”

“Isabella” la ammonii.

Mi avvicinai al pianoforte e richiusi il coperchio dei tasti con tutta la forza che avevo. Strappai lo spartito dal leggio e, senza degnarla di uno sguardo, corsi nella mia stanza.

In futuro avrei capito e mi sarei pentita del mio comportamento, ma, in quel momento, potevo solo assecondare la tempesta di emozioni che mi devastava l’anima. Mi buttai sul letto abbandonandomi ad un pianto tutt’altro che liberatorio.

Era il tramonto ormai. La stanza cominciava a calare nel buio e la pioggia scendeva furiosa. Sembrava quasi assecondare la mia disperazione.

Piansi…

…per la mamma che mi aveva lasciata, per un fratellino che non avevo conosciuto, per papà che non era tornato e per Kitty che mi avrebbe abbandonata.

Il sonno mi colse così…disperata, sola, un foglio tra le mani, un presente in cui non avrei mai voluto essere e il desiderio di un paio di ali che mi portassero lontano…

Spero non sia stato eccessivamente dispersivo e confusionario. L'idea era quella di rendere una sorta di parallelismo tra i due, spero di esserci riuscita.

Veniamo a voi...

Austen95: mi fa davvero piacere che la descrizione di Alice ti sia piaciuta, è un personaggio che adoro e volevo darle un ruolo importante.

Biaa: mi piace il fatto che tu ti chieda come adatterò il tutto al romanzo. In effetti le risposte alle tue domande ci sono già...se ci pensi. "L'incontro" è vicino. E' già scritto e non vedo l'ora di farvelo leggere.

Myria: la contentezza che mi pervade quando leggo le tue parole è inspiegabile. La moglie....beh...lei è FONDAMENTALE!

lady lilithcullen: il tuo commento mi ha lasciato per un attimo (un attimo assolutamente lungo) senza fiato. Hai descritto talmente bene ciò che hai provato che ho rivisto il mio capitolo attraverso i tuoi occhi e mi è piaciuto di più. Grazie.

Micht82: mentre scrivevo questo capitolo pensavo a te, sperando che la mia Alice ti piacesse, se ci sono riuscita è un gran traguardo. Grazie per esserci in tutto e per tutto.

A presto.

Baci.

Miki.

   
 
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