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Autore: pizia    18/06/2010    2 recensioni
Sauron ha di nuovo l'Anello, ma qualcosa gli impedisce ancora di sferrare il suo attacco definitivo alla Terra di Mezzo
Genere: Drammatico, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Capitolo 11 -

Affetti

Ombromanto, signore di tutti i cavalli, cavalcava leggero, veloce e infaticabile: portava in groppo un Istaro e due mezz’uomini, ma non sembrava nemmeno accorgersene. Accanto a lui cavalcava, non meno instancabile e veloce, Biancaluna, con in groppa Dama Galadriel e Pipino.
Avevano lasciato Gran Burrone meno di due settimane prima e già avevano coperto più di metà della distanza che li separava dalla Breccia di Rohan, costeggiando le Montagne Nebbiose.
Sarebbero avanzati così sino alle rovine di Isengard, poi la Signora dei Galadhrim li avrebbe lasciati per tornare a Lorien, nel tentativo di proteggere la foresta e i pochi abitanti che ancora vi dimoravano dopo la partenza di Celeborn e dell’esercito.
Pipino sembrava aver recuperato lo spirito di sempre dopo la brutta avventura, tanto che per buona parte del viaggio, quando la sua mente non era occupata a pensare cosa avrebbe potuto mettere in pancia, aveva cercato il modo per informare Gimli di come avesse cavalcato per giorni interi insieme alla Signora di Lothlorien, in modo che il nano fosse il più geloso ed invidioso possibile.
Già si immaginava come avrebbe strabuzzato gli occhi quando glielo avesse detto: sarebbe diventato più paonazzo di quanto non lo fosse normalmente e avrebbe cominciato a bofonchiare frasi senza senso.
E come si sarebbe divertito anche Legolas!
Oh sì: Pipino non vedeva l’ora di poterli incontrare di nuovo!

Quella mattina però, mentre avanzando veloci l’aria gli scompigliava i riccioli intorno al volto, i suoi pensieri erano un po’ meno allegri: stava pensando a Merry e a quanto l’amico gli mancasse.
Deve sentirsi terribilmente solo senza noi altri…” pensò, dando un rapido sguardo a Frodo e Sam che cavalcavano insieme a Gandalf. “E soprattutto deve sentirsi solo senza di me! Non l’ho mai lasciato solo tanto a lungo… Speriamo che se la sappia cavare” pensava, sinceramente preoccupato per l’amico. La consapevolezza che stavano correndo in quella maniera forsennata proprio per raggiungerlo alleviava un po’ i suoi pensieri; si augurò solo che non giungessero in aiuto di Rohan troppo tardi.

La stessa speranza agitava anche i pensieri di Gandalf: il tradimento di Denethor era una possibilità che non aveva mai, neanche lontanamente, preso in considerazione. Il Sovrintendente di Gondor non lo aveva mai visto con particolare buon occhio durante le sue numerose visite a Minas Tirith, ma questo non faceva di lui un cattivo governante. In un certo senso, Gandalf aveva anzi sempre ammirato e rispettato quell’uomo severo ed austero, ma giusto ed innamorato della sua terra. Certo sapeva che era molto innamorato anche del potere che poteva esercitare su di essa, ma non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe potuto giungere a vendere il proprio regno pur di riuscire a mantenervi un controllo anche solo di facciata.
Una strana fiducia si agitava tuttavia nel suo petto: Denethor aveva sempre sottovalutato il suo figlio minore, e Gandalf era pronto a scommettere che le segrete di Minas Tirith non ospitassero già più Faramir. Tuttavia si trattava solo di un presentimento e, anche se aveva imparato a fidarsi del suo istinto, questa volta non poteva proprio permettersi di farsi ingannare: per questo motivo spronava il suo fedele destriero in una corsa folle, concedendogli solo poche soste, a parte quelle notturne.
Un’altra cosa poi insospettiva l’Istaro era la totale mancanza di un nemico concreto: da quando Isengard era caduta, tutti gli abomini che vi nascevano sembravano essere scomparsi. Se ne trovavano soli piccoli gruppi sbandati, pericolosi per un viandante singolo, ma che non potevano impensierire i gruppi di Uomini, Elfi e Nani armati che si spostavano in quel momento per tutta la Terra di Mezzo. Il suo piccolo gruppo in particolare non aveva visto un solo orchetto, un solo Uruk-hai e nemmeno un mannaro, da quando aveva lasciato Gran Burrone. Era tutto fin troppo calmo, tanto che qualcuno avrebbe persino potuto dubitare che ci fosse una terribile guerra in atto.
Gandalf tentava di immaginare cosa Sauron e Saruman stessero tramando: di certo stavano concedendo loro quel breve periodo di tregua e di illusione solo nell’attesa di poter allestire un esercito ancora più numeroso e pericoloso di quello che aveva attaccato il Fosso di Helm, e questo non poteva certo lasciare tranquillo lo Stregone.

Anche Galadriel viaggiava assorta nel tentativo di comprendere il nemico: in particolare rifletteva su quale parte potesse avere Aragorn nei piani di Sauron. Molte ipotesi in proposito prendevano forma nella sua mente, ed ogni volta che ne scartava una non poteva tuttavia impedirsi di chiedersi se non avessero commesso un grave errore a lasciare solo l’erede di Isildur.

Dopo una breve pausa per far abbeverare e riposare un po’ i cavalli, la donna chiese a Frodo di prendere il posto di Pipino su Biancaluna per quel pomeriggio. Il portatore dell’anello era infatti l’unico testimone dell’incontro tra Aragorn e l’Oscuro Signore, e, sebbene non sembrasse più disposto a parlarne di quanto non lo fosse stato giorni prima ad Imladris, Galadriel sperava di poterlo convincere a dirle almeno qualcosa.

“Sono preoccupata per Aragorn, Frodo” disse infatti, nella speranza che l’idea dell’amico in pericolo portasse l’hobbit a superare le sue comprensibili paure.

“Perché dite così Signora?” chiese il nipote di Bilbo Baggins.

“Non riesco a comprendere che piani abbia Sauron nei suoi confronti” disse ancora Galadriel, allusiva.

Frodo tuttavia non era uno sciocco e non ci mise molto a comprendere cosa la dama di Lorien volesse da lui: “Volete che vi parli di cosa è successo quando mi ha salvato, vero?” chiese in maniera del tutto retorica.

“So che lui stesso ti ha chiesto di tacere, ma temo che sia in grave pericolo e sapere cosa è accaduto potrebbe forse aiutarmi a comprendere molte cose. So di chiederti molto, ma, se dopo averci rinunciato a Gran Burrone, ti chiedo ora di parlare è solo perché credo che ora tu sia pronto ad affrontare tutto quanto”.

Frodo sapeva di non poter più tacere: non vedeva come quello che avrebbe potuto dire avrebbe potuto far luce sull’interessamento di Sauron nei confronti del ramingo, ma forse la regina dei Galadhrim avrebbe potuto dare un senso alle oscure parole del nemico.

“Sauron stesso lo ha salvato…” cominciò Frodo, pur sentendosi impazzire al solo ricordare quegli attimi.

Galadriel aggrottò leggermente la fronte: anche ora che aveva recuperato l’Anello, Aragorn rappresentava senza dubbio il più grosso pericolo per Sauron: perché allora lo aveva salvato?

“Fu attaccato dai Nazgul” riprese a raccontare, dopo una breve pausa, Frodo, chiudendo gli occhi per impedirsi di piangere. “Ne aveva già eliminato uno, forse due, grazie a Narsil, che in quel regno di nebbie sembrava brillare di luce propria. Altri due però gli erano addosso e lo avrebbero probabilmente sconfitto se Sauron non li avesse distrutti con una sola parola”.

L’espressione accigliata dell’elfa si fece ancora più accentuata.

“Se i Nazgul lo avessero sconfitto, Aragorn sarebbe diventato in breve tempo uno spettro come loro, proprio come ho rischiato di fare io dopo essere stato ferito ad Amon Sul. Ma Sauron, dopo averlo salvato, gli disse che sebbene quello fosse il suo destino, era troppo presto perché si adempisse: credo che nemmeno Aragorn abbia compreso tali parole”.

Galadriel sentì il suo cuore accelerare i battiti, mentre mille altre ipotesi le affollarono la mente: che Sauron volesse semplicemente rendere l’erede di Isildur uno spettro poteva anche avere un senso, ma se così era non c’era bisogno che il ramingo rimanesse vivo, anzi…

“Vuole assoggettarlo al potere dell’Anello!” esclamò infine la dama, facendo sobbalzare per la paura Frodo ed attirando l’attenzione di Gandalf. “Vuole fare del suo più temibile nemico il suo più forte alleato!”

“E’ quello che ha fatto in fondo anche con Saruman…” rifletté lo Stregone.

“Abbiamo sbagliato ad abbandonarlo al suo destino! Se dovesse cadere nelle sue mani per noi sarebbe veramente la fine!” disse l’elfa, perdendo l’imperturbabilità tipica della sua razza.

“Aragorn non si farà catturare tanto facilmente, e se anche accadesse non si farebbe mai sopraffare dal potere dell’Anello!” disse Frodo, accalorandosi.

“Aragorn, per quanto nobile, è un uomo e quindi estremamente soggetto al potere dell’Unico” disse Gandalf amaramente.

“Aragorn è già stato a contatto con l’Anello e, a differenza di Boromir, non ha mai dato segno di desiderarlo. Anzi, quando io stesso gliel’ho offerto lui non l’ha voluto! No, se c’è un uomo che può resistere al potere dell’Anello quello è proprio Aragorn!” spiegò l’hobbit, anche se nel suo cuore sentiva crescere la preoccupazione e il timore.

Gandalf lo guardò per un attimo sorpreso: non sapeva che Frodo avesse offerto l’anello ad Aragorn

“Spero che abbia ragione mio piccolo amico: non puoi nemmeno immaginarti quanto…” concluse. 

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Merry cavalcava nascosto sotto il lungo mantello di uno dei Rohirrim: era piuttosto giovane e di certo di grado non molto elevato. Cavalcava sempre nelle retrovie di solito, permettendogli di uscire dal suo nascondiglio di stoffa, ma in quella giornata gli era stato concesso l’onore di cavalcare in cima alla colonna, poco distante da re Theoden in persona, e quindi l’hobbit doveva restarsene buono buono a soffocare sotto il mantello.
Dernhelm, così si chiamava il cavaliere con cui viaggiava, era un tipo piuttosto strano: aveva una stazza molto minuta rispetto al resto dei Rohirrim e sembrava piuttosto un pesce fuor d’acqua accanto agli altri cavalieri, che infatti evitava il più possibile.
Ogni sera, quando si accampavano, lui sceglieva un posto molto isolato, e non permetteva nemmeno all’hobbit di stendere la propria coperta accanto alla sua. Inoltre parlava molto poco, e questo per Merry, abituato al chiacchiericcio incessante di Pipino, era il problema più grosso.
Era stato uno degli ultimi a mettersi in marcia da Edoras, quando ormai ogni speranza del mezz’uomo di partire anche lui per Gondor era ormai sparita. Gli si era avvicinato e, con poche e concise parole, l’aveva invitato a salire sul suo cavallo e a partire di nascosto con lui. Non gli aveva nemmeno concesso il tempo di avvisare Eowyn della sua partenza, dicendo che la sua signora se la sarebbe certo cavata da sola. Gli era dispiaciuto non salutarla, forse per l’ultima volta, ma Dernhelm aveva minacciato di partire senza di lui, e così si era lasciato issare sul cavallo senza fare più obiezioni.
Era poco meno di una settimana ormai che cavalcavano insieme, ma Merry non sapeva del suo amico nulla di più di quando erano partiti: anche con il caldo che si faceva sempre più intenso nell’estate ormai imminente, Dernhelm aveva sempre rifiutato ti togliersi l’elmo e la corazza e così l’hobbit e chiunque altro non avevano mai visto di lui che gli occhi chiari e determinati.

Avevano ormai coperto metà della strada che li separava da Minas Tirith quando la colonna si fermò: Merry sentì la schiena di Dernhelm irrigidirsi e delle voci, confuse ed attutite dallo spessore del mantello, che intimavano l’alt a qualcuno: “Vengo in pace da Minas Tirith ad avvisare la gente di Rohan che Gondor è in mano al nemico” disse Morgan solennemente, tenendo le mani alzate e ben in vista, in chiaro segno di non belligeranza. “Tuttavia le nostre speranze non sono ancora morte: il Capitano Faramir è fuggito dalle segrete e quattro giorni fa, quando mi ha mandato incontro a voi per avvertirvi, progettava di riconquistare la città, destituendo il Sovrintendente Denethor II, suo padre. In questo momento la capitale potrebbe già essere di nuovo libera!” concluse, porgendo contemporaneamente a Theoden il messaggio che Faramir aveva scritto di suo stesso pugno.

 

Nobile Theoden,

è Faramir, Capitano degli eserciti di Gondor, a scrivervi.
Purtroppo non mi trovo, al momento, nella possibilità di rispettare gli accordi presi a Gran Burrone.
Mio padre è completamente impazzito a causa della morte di mio fratello, e sospetto che su Gondor si sia abbattuto lo stesso flagello che ha colpito Rohan stesso: Grima Vermilinguo.
Non posso essere certo che si tratti proprio di lui, e di certo la pazzia di mio padre non gli è imputabile, ma il suo tradimento di certo è dovuto ai suoi consigli. 

Proprio in questo momento, insieme ad un gruppo di compagni forti e fidati, mi accingo a tentare di riconquistare Minas Tirith e a cacciare gli uomini di Mordor dal nostro esercito.
Non posso certo dirvi se avrò fortuna nel mio doloroso tentativo e pertanto, per non far correre inutili rischi a voi e ai vostri valorosi uomini, vi consiglio di non spingervi fino alla nostra capitale: arrestatevi nella pianura all’altezza del passo di Amon Din, prima di giungere al Monte Mindullin. Attendete lì sino alla prossima notte di luna nuova: se la mia missione avrà successo vi raggiungerò lì, in quella data, insieme all’esercito di Gondor pronto a combattere al vostro fianco contro il nemico. Se invece nessuno giungerà per quella notte vorrà dire che ho fallito: in quel caso sappiate che sarete soli, contro Mordor… e anche contro Gondor… 

Vogliate prendere e condurre in battaglia con voi i due giovani che vi hanno consegnato questa missiva: sono ancora un po’ inesperti forse, ma coraggiosi ed abili con le armi e soprattutto fedeli e decisi a difendere la propria terra dall’oscurità che la minaccia. 

Spero di incontrarvi alla prossima notte di luna nuova,
Faramir di Gondor.

 

“Eravamo già a conoscenza della caduta di Minas Tirith” disse Theoden dopo aver letto la lettera, “… ma le notizie che ci portate permettono almeno ai nostri cuori di continuare a sperare. Unitevi a noi, nobili cavalieri di Gondor, ed aiutateci ad opporci al nostro nemico”.

Nascosta dal suo elmo, Eowyn sorrise nell’intendere quelle notizie: si fidava di Faramir, ed era certa che, al successivo plenilunio, gli eserciti di Gondor e Rohan si sarebbero uniti per affrontare Mordor e il suo terribile signore. 

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“A cosa pensi, Elrond di Gran Burrone?” chiese Thranduil arrivando silenziosamente alle spalle del signore di Imladris.

“Alle Terre Immortali di Valinor, Thranduil di Bosco Atro. Mi sto chiedendo se le vedrò mai…”

“Hai già affrontato una volta Sauron, e mi pare che tu sia ancora qui a poterlo raccontare” gli fece notare il padre di Legolas.

“Già, ma anche lui è ancora qui. E poi allora era diverso…” rispose amaramente Elrond. “Allora avevo qualcuno per cui combattere”.

“Hai ancora qualcuno per cui combattere, anzi, hai ancora più motivi per cui combattere di quanti ne avessi allora: la tua gente ti attende a Valinor, e con loro ci sono Celebrian e i tuoi figli. Come vedi ciò che ti ha spinto, un’era fa, a combattere l’Oscuro Signore non è venuto meno, ha solo lasciato la Terra di Mezzo. Vorrei solo essere stato prudente come te e aver messo al sicuro anche il mio popolo. Ora è troppo tardi. Prego solo che i Valar risparmino almeno la vita di Legolas: quando l’ho inviato ad Imladris per il primo consiglio avevo qualche dubbio, ma ora sono sicuro che diventerebbe un gran re. Tutta questa storia lo ha maturato molto”.

“Di sicuro ha una grandissima capacità di persuasione…” alluse Elrond, sorridendo.

“Confesso che quando si è presentato a palazzo in compagnia di un nano per prima cosa ho pensato di diseredarlo, disconoscerlo e bandirlo da Bosco Atro per l’eternità!” ammise Thranduil divertito. “E invece aveva ragione lui, devo ammetterlo. Saper distinguere gli amici dai nemici è fondamentale per un re, ed è anche per questo che credo che sarebbe una buona guida per la gente del Reame Boscoso”.

“Non mi piace come parli, amico mio: pare che tu ti sia già rassegnato a non sopravvivere: anche tu hai chi ti attende a Valinor” disse Elrond.

“Già…” gli rispose il re del Reame Boscoso, perdendosi per qualche istante nei suoi pensieri. “Ma non permetterò a Legolas di partecipare all’attacco alla Torre Oscura: ci andrò io!”

“Oh Valar! Prevedo un titanico scontro tra le due teste più dure di tutta la Terra di Mezzo su questo argomento: Legolas dà già per scontato di partecipare a quella missione!” esclamò Elrond, alzando gli occhi al cielo. “Comunque, scusa se te lo dico, ma credo che vincerà lui…”

“Beh, quanto a testardaggine, non c’è dubbio che Legolas sia mio figlio! Però nemmeno Arathriel scherzava a riguardo…” rispose Thranduil ridendo.

“Ti manca?” chiese Elrond all’amico quando le loro risate si smorzarono.

“Non pensavo mi potesse mancare così tanto quando ha deciso di partire per Valinor insieme a Celebrian” confessò il padre di Legolas.

“Mi dispiace” disse Elrond, abbassando gli occhi a terra.

“E di cosa dovresti dispiacerti! Sappiamo entrambi che erano molto legate. Se fosse stata Arathriel a voler partire per le Terre Immortali, certo Celebrian l’avrebbe seguita. E poi così so che almeno lei, fra tutta la mia gente, è felice e al sicuro. Non ci resta che sopravvivere entrambi per raggiungere le nostre spose a Valinor e vivere finalmente di nuovo insieme per tutta l’eternità” concluse Thranduil, poggiando discretamente una mano sulla spalla dell’amico.

Elrond lo guardò per un attimo dritto negli occhi e comprese che, nonostante non si facesse grosse illusioni e nonostante le preoccupazioni per la sorte del suo popolo e di suo figlio, la speranza non aveva abbandonato il cuore di Thranduil, e questo ridiede un po’ di fiducia anche a lui. 

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“Qual è il morale degli uomini, Eomer?” chiese Theoden al nipote.

“Le notizie fiduciose che giungono da Minas Tirith li hanno rincuorati un po’, ma comunque andrà sono determinati ad andare avanti: hanno visto le loro case bruciare e le loro mogli e i loro figli costretti a fuggire. Con o senza Gondor, non vedono l’ora di affrontare il nemico” lo rassicurò il Primo Maresciallo del Mark.

“Eomer, ho un favore da chiederti” disse il re.

“Ditemi, mio signore” gli rispose immediatamente il nipote.

“Vorrei che tu non ti esponessi a rischi inutili” continuò Theoden, e quando notò lo sguardo interrogativo dell’uomo più giovane si affrettò a continuare: “Non ti sto chiedendo di non batterti valorosamente e di non conquistarti in battaglia l’onore che senza dubbio meriti: ti sto solo chiedendo di stare attento e di non mettere in pericolo la tua vita con azioni troppo imprudenti…”

“Perché simili parole, zio?” chiese Eomer, abbandonando il tono formale di poco prima.

“Prima di tutto perché ti voglio bene come un figlio e tengo alla tua vita…” rispose il re, venendo ringraziato da un sorriso imbarazzato, ma colmo di gratitudine e di affetto da parte del nipote, “…e secondo perché, dopo la morte di Theodred, sei tu l’unico erede degno del trono di Rohan”.

Eomer lo guardò spalancando gli occhi per la sorpresa: anche se in fondo era la cosa più ovvia, non ci aveva mai pensato. Era già diventato il più giovano Primo Maresciallo di tutta la storia del Mark, ed ora la prospettiva di diventarne addirittura il re lo inorgogliva e spaventava al tempo stesso.

“Se il mio destino è veramente quello di diventare il signore di Meduseld, spero sinceramente che possa avverarsi il più tardi possibile!” disse il giovane, guardando l’uomo che lo aveva cresciuto come un figlio dritto negli occhi.

Theoden sorrise di fronte all’ardore con cui il nipote aveva pronunciato quell’ultima frase: “Non dubito della tua sincerità, Eomer caro, ma la possibilità che io non sopravviva a questa guerra è concreta e per questo chiedo a te di non compiere imprudenze: Rohan non può restare senza un re, e per quanto Eowyn saprebbe guidare il nostro popolo altrettanto bene, non è previsto dalle nostre leggi che sia una regina a guidare Edoras… Tu devi sopravvivere a questa follia, Eomer, ed ora voglio che tu mi giuri che farai di tutto per riuscirci!”

“Potrei chiederti di fare lo stesso giuramento, zio…” disse Eomer.

“Io non sono più giovane, ed anche se dovessi sopravvivere non potrei guidare Rohan ancora a lungo: se tu morissi sarei costretto a lasciare il mio trono in mani pressoché sconosciute, e l’idea non mi alletta particolarmente. Non temere. Nemmeno io cercherò la morte spontaneamente, ma devo chiederti di nuovo di giurare… è troppo importante, per me e per Rohan…” chiese di nuovo Theoden.

Eomer lo fissò a lungo, mentre in lui cresceva l’ammirazione che provava nei confronti dello zio, cancellando ogni ricordo legato alla schiavitù da Saruman.

“E sia!” giurò infine solennemente sguainando la spada, ferendosi leggermente il palmo della mano sinistra e lasciando scorrere un po’ del suo sangue sul filo della lama, fino a sgocciolare a terra. “Non vi giuro di non scendere in battaglia al comando dei miei uomini, né credo che sia questo ciò che mi state chiedendo. Vi giuro tuttavia sul mio onore e su tutto ciò che mi è più caro che non farò nulla che possa mettere a rischio la mia vita che non sia strettamente necessario”.

Di nuovo Theoden sorrise, apparendo improvvisamente quasi rilassato: “Ti ringrazio Eomer. Ora ho un peso in meno che mi grava sul cuore e potrò concentrarmi meglio su questa guerra”.

Detto ciò abbracciò il nipote: Eomer si stupì un po’ per quel gesto, ma vi rispose  senza alcun indugio e con lo stesso trasposto. 

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“La città è di nuovo sotto controllo Faramir, e l’esercito è pronto a marciare incontro ai Rohirrim!” esclamò Aldamir con malcelato entusiasmo.

Il nuovo Sovrintendente di Gondor si meravigliò non poco di fronte all’euforia del compagno, di solito sempre molto compassato.

“Non fraintendermi Faramir: non sono impaziente di farmi ammazzare, ma sono sempre stato un uomo d’azione e negli ultimi tempi non ho avuto granché da fare… Assistere impotente allo sfascio dell’esercito a cui si è dedicata tutta una vita non è facile. Ma per fortuna ora tutto è finito: non ci resta che riconquistare l’onore di Gondor!”.

Faramir sorrise stancamente: “Comprendo la tua ansia d’azione Aldamir, anche se non la condivido fino in fondo. Domani partiremo per raggiungere Theoden nella pianura presso Amon Din, gli ho dato appuntamento lì: tempo una settimana o poco più e saremo pronti per attaccare Mordor”.

“Allora sarà il caso che andiamo a riposare un po’ entrambi: chissà se avremo ancora modo di farlo tra qualche tempo…” propose Aldamir.

“Questa è invece un’idea che condivido in pieno!” esclamò Faramir che, salutatoli veterano si avviò verso la sua stanza.

Nonostante i buoni propositi però Faramir non riuscì a dormire molto quella notte: ora che finalmente concedeva un po’ di tregua al suo corpo e soprattutto alla sua mente, quest’ultima venne letteralmente invasa dalle immagini del pomeriggio nella biblioteca.
Ripensare agli occhi sbarrati e completamente folli del padre mentre stringeva le mani attorno alla sua gola gli faceva ancora torcere lo stomaco; poi il salto nel vuoto e il suo corpo scomposto sull’acciottolato della piazza sottostante…
Ogni volta che Faramir chiudeva gli occhi riviveva quei momenti e quando i ricordi si facevano troppo dolorosi non poteva far altro che riaprire le palpebre per scacciarli.
Ma ancora più del ricordo del padre era quello di Boromir a tenerlo sveglio: non lo aveva certo visto in quella maledetta biblioteca, eppure aveva l’assoluta certezza che lui fosse lì. Telemnar, Aldamir e gli altri uomini avevano creduto che Denethor delirasse mentre parlava apparentemente al vuoto, ma lui aveva avvertito quella sensazione tanto familiare che aveva sempre provato, fin da bambino, quando era in compagnia del fratello.
Non avrebbero potuto essere più diversi lui e Boromir, eppure erano sempre andati d’accordo, si erano sempre fidati l’uno dell’altro ed erano sempre stati complici.
Ora Faramir si chiese perché lo spirito del fratello fosse ancora nella Terra di Mezzo invece che nelle Aule di Mandos: il suo corpo era stato sepolto con ogni onore e quindi non c’era motivo per cui la sua anima non avesse trovato la strada per i regni dei Valar. Eppure Boromir non se n’era andato, neppure da morto aveva rinunciato alla sua lotta e ad aiutarlo.
Faramir si accorse di star piangendo solo quando il suo viso era ormai già abbondantemente bagnato dalle lacrime.

“Ora va’ fratello mio…” disse in un sussurro. “Ti ringrazio per avermi aiutato anche questa volta, ma ora è giusto che tu goda il tuo giusto riposo: basteranno il tuo ricordo e il tuo esempio a guidare le mie azioni d’ora in poi, e ti giuro che non ti deluderò…”

Una gentile brezza notturna scosse lievemente i tendaggi della camera di Faramir, ed il giovane interpretò quel segno come il definitivo addio di Boromir.
Che questo fosse vero o falso non aveva alcuna importanza: doveva smettere di pensare a lui, o presto sarebbe impazzito proprio come suo padre.
Decise tuttavia di permettersi un’ultima debolezza.
Si alzò dal letto e in assoluto silenzio, a piedi scalzi, percorse il lungo corridoio su cui si affacciava la sua stanza. Giunto in fondo svoltò a destra ed entrò nella prima stanza sulla sinistra. Era una cosa che aveva fatto qualche volta da bambino, quando la notte non riusciva a prendere sonno.
Allora c’era sempre stato Boromir in quella stanza, pronto a parlare con lui, a confrontarsi e a confortarlo quando ce n’era bisogno. Ora la camera era vuota e silenziosa da troppo tempo, ma Faramir provò lo stesso un po’ di sollievo ad entrarvi.
Aprì la grande finestra che dava su un giardino interno, in modo che un po’ d’aria fresca entrasse in quello che ormai Denethor aveva trasformato in una sorta di mausoleo per il suo primogenito.
Si diede dello sciocco mentre si stendeva stancamente nell’ampio letto al centro della sala, ma non fece in tempo a cambiare idea e a tornare nella sua stanza, dato che il sonno lo colse finalmente non appena poggiò la testa sul morbido cuscino: per la prima volta da quando aveva lasciato Gran Burrone dormì serenamente, con la sola immagine di Eowyn di Rohan ad allietare i suoi sogni. 

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Legolas carezzava dolcemente il volto di Mariel, mentre la teneva stretta fra le braccia.

“Vorrei che tu non partecipassi all’attacco a Barad-dur…” sussurrò senza smettere per un solo istante di riempirsi gli occhi di lei.

“Nemmeno tuo padre vorrebbe che tu vi partecipassi…” gli fece notare la ragazza, stringendosi più forte al suo petto.

“E questo cosa c’entra?” chiese Legolas imbronciandosi e mettendosi sulla difensiva: sapeva benissimo dove la sua compagna volesse arrivare, ma non aveva intenzione di cedere.

“Tu l’hai ascoltato?” gli chiese Mariel divertita.

“Ma io sono un membro della Compagnia dell’Anello: sono dentro a questa storia fin dall’inizio!” fece per giustificarsi il figlio di Thranduil.

“L’hai ascoltato?” lo interruppe la ragazza, alzando gli occhi sul suo volto per incrociare quelli di lui.

“No…” ammise Legolas sconfitto.

“E allora perché pretendi che lo faccia io?”

“Perché ti amo” disse tranquillamente Legolas, sorridendole con gli occhi, con le labbra, con il cuore e soprattutto con l’anima.

Era stata una giornata faticosa quella, eppure in quel momento non avvertiva la stanchezza.
La mattina si erano allenati tutti quanti per più di quattro ore: finalmente il clima tra Nani ed Elfi si era fatto un po’ più disteso, e quando Gimli e Legolas avevano incrociato le loro armi durante l’allenamento, per la prima volta qualcuno aveva seguito il loro esempio. Alla sera i falò e le riunioni attorno al fuoco erano ancora separate abbastanza nettamente, Elfi da una parte e Nani dall’altra, ma visto come erano cominciate le cose, si poteva dire che ora la convivenza andasse abbastanza bene.
Nel pomeriggio c’era invece stata la riunione degli ufficiali di più alto grado di entrambi gi eserciti per stabilire che avrebbe partecipato all’attacco alla Torre Oscura: quella era una decisione che avrebbe già dovuto essere presa la sera stessa dell’arrivo di Thranduil e Thorin alle Terre Brune, ma durante quella cena erano stati tutti troppo stanchi per affrontare un discorso di simile importanza e così tutto era stato rimandato.

Quel pomeriggio Legolas e Thranduil erano immediatamente stati d’accordo sul fatto che solo uno di loro avrebbe partecipato all’attacco diretto, ma la discussione era inevitabilmente nata quando si era trattato di scegliere a quale dei due toccasse quel compito. Thranduil le aveva tentate tutte per cercare di impedire al figlio di partecipare: prima glielo aveva ordinato come re, poi, come padre, era giunto sin quasi a pregarlo, ma come Elrond aveva previsto, Legolas si era dimostrato irremovibile, e, anche se a malincuore, il re di Bosco Atro aveva dovuto arrendersi: a penetrare a Mordor attraverso la via scoperta da Gollum sarebbero stati Legolas, Gimli, Mariel e Thror, l’ufficiale più alto dell’esercito della Montagna Solitaria.
Inizialmente avevano pensato di portare con loro un migliaio di soldati volontari, equamente divisi tra le due razze, ma alla fine avevano deciso che la metà di quei guerrieri era già fin troppa: sarebbero partiti al massimo con trecento unità, e buona parte di queste le avrebbero lasciate di guardia lungo la strada, in modo da assicurarsi una via di fuga qualora fossero stati tanto fortunati da poterne usufruire.
Quando Mariel si era offerta di partecipare alla missione, Legolas non aveva obiettato nulla, per non screditarla di fronte a tutto lo stato maggiore dei due eserciti, ma si era ripromesso di tentare almeno di dissuaderla quella notte stessa.
E questo era ciò che stava tentando di fare in quel momento.

“Anche io ti amo Legolas” rispose la ragazza, abbandonando il sorriso ironico di poco prima per sostituirlo con uno più serio e sincero. “Ed è proprio perché ti amo  che non potrei sopportare di vederti partire di nuovo, chiedendomi se potrò mai rivederti. E’ già successo quando sei partito la prima volta per Gran Burrone, ed è stato terribile: credevo di impazzire… Non sarei riuscita a sopportarlo di nuovo, e poi comunque partire è mio preciso dovere!” confessò, mentre i suoi occhi riflettevano tutta l’angoscia che aveva provato in quei giorni. 

Legolas la guardò meravigliato: nemmeno lui sopportava in realtà l’idea di separarsi di nuovo da lei, ma non aveva mai immaginato che la sua amata avesse sofferto tanto quando era partito per partecipare al Primo Consiglio di Elrond.
Tutto quello che fece fu di stringerla più forte tra le sue braccia, tentando di ignorare la fragilità del corpo che accarezzava.
Aveva provato tanti sentimenti nella sua millenaria esistenza, ed alcuni, come l’amicizia che lo legava ad Aragorn e più recentemente a Gimli e agli altri membri della Compagnia, erano molto forti. Ma la profondità dell’amore che provava in quel momento per l’elfa che aveva tra le braccia era un qualcosa di nuovo, di mai consapevolmente provato fino a quell’istante.
Se anche in quel momento Sauron avesse riversato su di loro tutti i suoi abomini lui non se ne sarebbe curato,forse non se ne sarebbe nemmeno accorto.
Il mondo esterno non esisteva: non esisteva il brusio dell’accampamento poco lontano, non esistevano gli alberi intorno a loro e nemmeno il prato che li accoglieva; non esistevano Sauron né Saruman, non esistevano né amici né nemici; non esisteva le Terra di Mezzo, e nemmeno le Terre Immortali o le adorate stelle del cielo.
Esistevano solo loro due, Legolas e Mariel, e non avevano bisogno che l’uno dell’altra.
Legolas aveva sempre saputo di amare Mariel, ma in quel momento comprese fino in fondo cosa significasse per un Elfo desiderare di legare la propria vita immortale a quella di qualcun altro.
Mariel aveva sempre saputo di amare Legolas, ma in quel momento comprese fino in fondo, per la prima volta, il desiderio di crearsi una famiglia insieme a qualcuno che contasse più della sua stessa vita.

Si erano stesi sull’erba umida, in silenzio: Mariel ascoltava il ritmo regolare, anche se un po’ accelerato, del cuore di Legolas, e Legolas si lasciava cullare dal suono delicato del respiro dell’elfa.

“Devi promettermi una cosa Mariel…” disse d’un tratto Legolas, riaprendo gli occhi e spostandosi in modo da poterla guardare in faccia.

“In questo momento potrei prometterti persino la luna e tutte le stelle” rispose lei fissandolo negli occhi.

“Se sopravvivremo alla nostra missione vorrei che tu ti legassi a me, vorrei che tu diventassi mia moglie. Promettimi che lo farai…” chiese, con le pupille dilatate a causa della forza delle sue emozioni più ancora che per la mancanza di luce.

Mariel sorrise scuotendo la testa. Legolas sentì ghiacciarglisi il sangue nelle vene di fronte a quel gesto, mentre uno sgradevole sapore metallico gli saliva alla bocca.

“Non c’è bisogno che io ti faccia una simile promessa…” disse Mariel, fingendo di non aver notato la reazione dell’altro elfo, “… e non ho nemmeno bisogno di attendere che questa brutta storia sia finita. Io sono già legata a te e non ho bisogno di nessuna cerimonia e di nessun testimone per sentirmi tua moglie. Tu sei già una parte di me, ed un bracciale stretto attorno ai nostri polsi non potrà mai aumentare l’amore che io provo per te, perché io ti amo già più di quanto credevo fosse possibile, Legolas. Se è una promessa quella che ti serve, allora ti prometto tutto quello che vuoi, ma per quanto mi riguarda io sono già tua moglie e tu sei già il mio sposo” concluse seriamente. Poi però, per spezzare, come al suo solito, la sacralità di quel momento, aggiunse. “Sempre che la cosa non ti dispiaccia…”

Legolas sorrise: per un attimo aveva temuto che la ragazza rifiutasse la sua proposta di matrimonio, ma sentendola parlare e leggendo nei suoi occhi lo stesso amore che lui provava per lei, si era reso conto che aveva perfettamente ragione: una cerimonia sarebbe solo servita ad ufficializzare la loro unione di fronte agli altri elfi, non a crearla. Loro erano già indissolubilmente uniti, e qualunque cosa fosse successa i loro sentimenti non sarebbero cambiati.

“Non mi dispiace affatto…” le rispose, cominciando a scioglierle l’intricata acconciatura di trecce che le imprigionava i capelli tanto chiari da risultare quasi luminosi alla luce della luna e delle stelle.

“Lo sai che ci metterò delle ore per risistemarli, vero?” scherzò lei.

“Vorrà dire che ti aiuterò io stesso a farlo… dopo…” rispose lui, sorridente ma serio.

Mariel comprese ed annuì: “La notte è già inoltrata: perché non lasci stare le mie trecce e non sciogli invece i lacci della mia tunica?”

Legolas la fissò di nuovo negli occhi: “Sei sicura?”

“Sei o non sei mio marito?” rispose lei attirandolo a sé per baciarlo, mentre con le dita affusolate gli scioglieva i lacci della giubba di cuoio morbido che indossava sopra la corta tunica celeste.

 

NOTE: Prima di tutto volevo scusarmi. Nelle note dello scorso capitolo sono probabilmente stata più brusca di quanto fosse mia intenzione. Mi dispiace.
Poi volevo ringraziare chi lascia un commento, critico o entusiasta che sia, perché almeno così non si ha la sensazione di essere del tutto invisibili. So benissimo che avrete un sacco di altre cose da fare, e di certo non dovete chiedermi scusa se qualche volta non commentate: come ho detto, non era mia intenzione essere così brusca. Volevo solo capire se a qualcuno interessava la mia storia.
Riguardo ai vostri appunti, ripeto che so che la madre di Faramir non è morta nel darlo alla luce, ma che mi serviva un perché che giustificasse l'avversione di Denethor nei confronti del figlio (avere un figlio preferito può accadere, anche se è brutto, ma questo non significa per forza detestare l'altro): è solo l'unica spiegazione che sono riuscita a darmi. Mi spiace se qualche "purista" tolkeniano non apprezza molto, ma non è certo il particolare più significativo che ho stravolto in questa storia :) Per quanto riguarda un eventuale rapporto tra Denethor e Aragorn ho provato ad affrontarlo (prendendolo moooolto alla larga, dal momento in cui Aragorn aveva servito sotto Ecthelion) in un'altra fanfiction che non ha mai visto la fine, e devo confessare che alla fine non riuscivo davvero ad immaginare come avrebbero potuto andare le cose tra quei due se il Sovrintendente non fosse morto. Magari, chissà, un giorno riprenderò in mano quella storia e dio solo sa cosa ne verrà fuori :P
Grazie e alla prossima!
PS: Niente Aragorn in questo capitolo: dovevo sentirmi male mentre lo scrivevo... ;P

  
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