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Autore: CassandraLeben    20/06/2010    21 recensioni
Questa storia è ambientata dopo Eclipse ed è stata elaborata prima dell’uscita di BD.
HO AGGIORNATO!!!!!!!
In breve: un racconto alternativo, avventuroso e romantico, nonché triste, di ciò che avevo immaginato potesse accadere dopo il fatidico “Sì” tra Edward e Bella.
Il ritorno dei Volturi, di Jack, Alec e Jane sconvolgeranno la vita dei novelli sposi
ATTENZIONE, PUò CREARE ASSUEFAZIONE E PROBLEMI CARDIACI! XD
< Isabella. > Una voce familiare risuonò nella camera. Sobbalzai. Non mi ero accorta della presenza di qualcuno nella stanza.
< Bella! Quanto tempo, desideravo con ansia rivederti. > Aro mi si avvicinò e mi prese la mano. Con gentilezza, me la baciò. Notai i suoi occhi guizzare sulla mia fede e poi incontrare i miei. Mi sorrise tranquillo e mi fece accomodare sul divano.
< Prego cara, siediti. Non avere paura. Non devi preoccuparti. > Sapevo che non potevo rifiutare. Tanto valeva stare al gioco. Magari sarei riuscita a sopravvivere un po’ più a lungo.
Genere: Romantico, Dark, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Edward’s POV

< Abbiamo perso le tracce. >
< No! NO! Non è possibile. >
< Edward, calmati. Così non concluderai niente. ha attraversato il fiume. Potrebbe aver nuotato per chilometri, verso nord o controcorrente e poi essere andata sulla sponda opposta oppure essere tornata su questa. Non possiamo cercare alla ceca. >
< E invece sì! Disperdiamoci e cerchiamola. Non posso lasciare che… >
Non riuscii neanche a proseguire. Non era possibile. Bella era totalmente fuori controllo. E aveva la bambina. Al solo pensiero le ginocchia mi cedettero ed io caddi carponi, affondando nel terreno fangoso.
La mia bambina. La mia piccola bimba.
Non poteva morire in questo modo.
Mi presi la testa fra le mani, muovendo il capo lentamente avanti ed indietro.
Elizabeth, Elizabeth…. Vedevo il mio volto nei pensieri degli altri. Sembravo spiritato. Non me ne importava.
La mia bambina… la mia piccola Liz.
Tutti erano silenziosi. Sentivo le loro menti. Ognuno si recriminava di non essere stato abbastanza prudente. Esme era disperata. Continuava a ripetersi che avrebbe dovuto portare subito via i bambini. Emmett non si perdonava di aver lasciato andare Bella, sebbene la colpa fosse mia. Ero io ad averglielo chiesto.
Liz, Liz… no.
< Alice? > domandai con una voce irriconoscibile.
< Non vedo niente. è troppo… confusa. Non è in grado… > la sua voce si incrinò e poi si affievolì. < di prendere decisioni. Non riesco a vedere da che parte è andata. Ha nuotato per circa venti minuti, controcorrente. Il resto non lo so. >
Carlisle cercò di prendere in mano la situazione. < Quindi è andata verso Sud. Questo è già qualcosa. Cominciamo a seguire il corso del fiume, tre su questa sponda, tre sull’altra. Prima o poi intercetteremo il suo odore. >
Io non riuscivo ad alzarmi. Carlisle ed Emmett mi costrinsero a rimettermi in piedi.
< Edward, io so cosa stai pensando. E ti sbagli. Non è solo colpa tua. È un terribile errore commesso da tutti noi. Non mi potrò mai perdonare se dovesse succedere qualcosa ma adesso dobbiamo agire, altrimenti sarà troppo tardi. Dobbiamo trovarla. E tu sei l’unica persona in grado di trovarle. Cerca i pensieri di Liz. Se è ancora viva, tu puoi captarli. Altrimenti andremo davvero alla ceca. Devi importi di essere più forte del tuo dolore. Devi fare di tutto per ritrovare tua figlia viva. Se resti a crogiolarti nell’autocommiserazione potrai riabbracciare solo il suo cadavere. Quindi vedi di darti una mossa. >
Poi mi afferrò per mano e, insieme ad Alice, balzammo sull’altra sponda. Le sue parole mi rimbombavano in testa. Cadavere… Liz cadavere… cadavere. Non riuscivo  pensare.
Ricordai la sete, il giorno in cui mi risvegliai dal dolore della trasformazione. E ricordai la mia prima vittima. Un uomo. Era un guardiano notturno.
Non avevo saputo resistere. Avevo appena una settimana. Le bestie che mi portava Carlisle non riuscivano a placare l’arsura ed una notte, impazzito dalla sete, ero fuggito sui tetti, ed avevo trovato quel uomo. Fred. Si chiamava così. Aveva il nome scritto sulla sua targhetta.
Lo avevo dilaniato, in preda alla frenesia, guidato dall’inesperienza e dalla sete incontrollabile.
Lo avevo fatto soffrire, involontariamente, molto più del necessario. La sua morte era sopraggiunta lentamente, tra atroci sofferenze. Mi aveva guardato negli occhi. E io avevo potuto percepire tutto il suo terrore, il suo dolore, mentre lo prosciugavo rompendogli le ossa per tenerlo fermo.
È così che si nutrono i neonati, senza sapere come fare per essere veloci ed efficienti.
Bella avrebbe fatto lo stesso, accanendosi su nostra figlia… un urlo di dolore mi sgorgò dal petto ed aumentai la velocità, superando i miei compagni. Con la mente cercavo di captare i pensieri più lontani ma, intorno a me, solo la quiete di una foresta terrorizzata da sei, anzi sette, vampiri.

Dovevamo sbrigarci, prima che facesse giorno…

  

Bella’s POV

Il profumo del suo sangue era dolcissimo. Appoggiai le labbra sul suo collo e inspirai profondamente.
Lei fremette ma non aprì gli occhi. Si raggomitolò tra le mie braccia e mi poggiò una manina sulla guancia. La presi tra le mie e la baciai.
Le mie labbra si schiusero e con i denti le sfiorai le vene ai polsi. La bambina si lasciava fare tutto. Non cercava di opporre resistenza. Le feci poggiare il capo sulla mia spalla e poi glielo feci reclinare all’indietro, esponendo la giugulare. I capelli le scivolavano lungo la schiena riflettendo i bagliori dell’alba nascente. Sulla mia pelle il sole si specchiava in milioni di brillanti. Diamanti luccicanti ricoprivano la mia pelle. Mi nascosi tra le fronde dell’albero, in modo da allontanare da me la luce. Non volevo che mi vedessero. Identificai un anfratto che sembrava sicuro, dando su una scarpata. Sistemai meglio la bambina e poi saltai giù. In un attimo mi intrufolai nella fessura nella roccia. Lei chiuse gli occhi. Tremava.
< Hai paura? >
Scosse la testa, facendo segno di no.
< Io ho paura. > dissi quasi soprappensiero. E avevo sete. Così tanta sete che non capivo più niente.
< Perché hai paura? > mi domandò con la sua voce cristallina.
< Perché sono sola. > risposi semplicemente.
Mi stupì accarezzandomi gentilmente la guancia. < Non sei sola. Ci sono io. Non avere paura. >
Strinsi la sua manina sulla mia guancia.
L’odore del suo sangue era così invitante.
< Elizabeth, forse dovresti dormire. > le parole mi sgusciarono dalle labbra senza che davvero potessi io stessa capirle. Non capii perché, ma sapevo che si chiamava
Elizabeth. Me lo sentivo dentro.
Sul suo volto si aprì un sorriso meraviglioso che mi trasmise sicurezza. Era felice.
si aggrappò al mio collo e mi diede un bacio. Il calore del suo collo mi investì facendomi bruciare la gola ed irrigidire il corpo. l’istinto mi diceva che dovevo nutrirmi. Avevo bisogno di sangue. Ma lo stesso istinto mi impediva di far del male a quella piccola creatura. Sentivo di doverla proteggere. La strinsi delicatamente a me e le baciai i capelli.
Sentivo che era agitata. Cominciai a cullarla. Una parte di me, totalmente fuori dal controllo della mia mente, sapeva che la bambina avrebbe dovuto dormire.
< Tutto bene, piccolina? >
< Sì. > mi rispose senza staccarsi dal mio vestito. Rimase in silenzio alcuni istanti.
< Ho fame. > ammise poco dopo, accarezzandomi il petto. Le sue mani si strinsero sulla stoffa, all’altezza del mio seno. Solo allora notai che indossavo un raffinato abito blu. Era bello, morbido. Comodo.
La piccola richiamò la mia attenzione stringendosi a me e dicendomi: < Ho fame. Mi dai qualcosa da mangiare? >
< Adesso non ho niente da darti. Cerca di dormire. Ti passerà la fame. > e poi ripresi a cullarla.
Non potevo muovermi da lì. Avevo paura che quelle persone potessero trovarci. Sapevo che ci stavano cercando. Li sentivo, lontano… li sentivo muoversi veloci tra il sottobosco.
Non potevano prenderci.  Avevo l’esigenza di proteggerla e poi, avevo anche un’altra necessità. Quella di tornare indietro. Gli altri due piccoli cuori che avevo udito nella stanza al piano terra.
Erano un richiamo atavico. Appartenevano sicuramente a due bambini piccoli, molto piccoli.
Dovevo andare da loro. Avevo bisogno di stare con loro. Dovevo proteggerli. Non potevo abbandonarli.
Scoprii di star singhiozzando ma dai miei occhi non uscivano lacrime.
< Mamma, non piangere. Ci sono qua io. Ti voglio bene. Tanto bene. E sono tanto felice che tu ora stai bene. Ho avuto molta paura. ma ora non sono più triste. Non essere triste neanche tu. >
Le sfiorai le labbra. Mamma. Mi aveva chiamato mamma.
Le baciai la fronte. E poi la strinsi a me. Tossì più volte ma alla fine riuscì ad addormentarsi. Sentii la temperatura del suo corpicino aumentare. Si faceva sempre più calda.

Rannicchiata nel mio pertugio, osservai il sole alzarsi nel cielo e poi tornare ad abbassarsi, fino a scomparire oltre le fronde degli alberi. Nella foresta l’oscurità ci avrebbe nascoste.
Quando il sole aveva cominciato a calare, avevo sentito le voci di tre delle persone che ci seguivano. Le loro voci erano lontanissime. Almeno venti kilometri verso il fiume. All’inizio, con voce molto angosciata, chiamavano “Elizabeth. Bella” poi, qualche ora più tardi, con voce rassegnata si limitavano a urlare: “Bella.”
Quella parola mi faceva venire il mal di testa.
La piccola non poteva sentirli ma temevo che loro, se lei avesse parlato, l’avrebbero sentita perciò le feci segno di rimanere in silenzio. Per tutta la giornata lei rimase zitta, seduta affianco a me. Non la smetteva di accarezzarmi. Per fortuna dormì per un paio d’ore. Il suo stomaco reclamava cibo.
Era passato un giorno da quando mi ero svegliata. Da quando il mio corpo aveva smesso di bruciare. La gola però ardeva terribilmente. E lei non mangiava né bevevo da allora.
Quando fui sicura che fossero abbastanza lontani, presi la bambina e, proteggendola con il mio corpo, mi tuffai nella foresta. La pioggia scrosciante avrebbe scacciato il mio odore. Mi diressi nella direzione opposta rispetto a quella da cui avevo sentito provenire le voci.

La bambina continuava a tossire. La sua pelle bagnata era ancora più profumata.
Sete. Sete. Sete. Ero ottenebrata dalla sete. Così fuori controllo che, individuato un branco di cervi, appoggiai la bambina in un buco tra le radici di un’antica quercia e poi mi gettai nella mischia.
Abbattei il maschio più grande. Il suo sangue caldo non bastò a saziarmi, né tantomeno a placare il fuoco nella mia gola ma, per lo meno, adesso riuscivo a pensare.
La piccola mi fissava con gli occhi spalancati. Le tremavano le gambe e tutto il suo corpicino esprimeva il terrore. Mi avvicinai a lei lentamente. Incedendo piano piano, il mio corpo e il vestito strappato venivano bagnati dalla pioggia scrosciante che lavava via il sangue.
Quando la raggiunsi, il sangue era ormai stato tutto lavato via.
Le porsi la mano. < Vieni Liz. > quel diminutivo mi uscì naturale. < Vieni. Andiamo a prendere qualcosa da mangiare. >
Lei, inizialmente titubante, si lasciò sollevare e poi si aggrappò al mio collo. Corsi velocissima attraverso il bosco. Evitare gli alberi era così semplice e naturale che non dovevo sforzarmi di fare attenzione. I miei piedi nudi scivolavano leggeri senza produrre rumore.
L’aria ci sferzava e mi resi conto che, per la piccola, questo non andava bene. I vestiti bagnati le stavano appiccicati addosso e il vento per lei era sicuramente gelido. Batteva i denti.
Mi fermai e la presi da sotto le ascelle. La osservai. < Hai freddo? >
Liz, scosse il capo sebbene tremasse. Le colava il naso. Glielo pulii con la mia mano e lei tese le manine affinché io la stringessi al petto. Così feci e ricominciai a correre.
Lei mi sussurrò all’orecchio: < Mamma, ti voglio tanto bene. >
Le baciai il lobo dell’orecchio dirigendomi verso il suono di un centro abitato, a quaranta chilometri di distanza, a giudicare da quanto fosse flebile il suono che da lì proveniva.

Quando fummo in prossimità della cittadina era notte inoltrata e le luci erano tutte spente. Diminuii la velocità fino a camminare lentamente. Mi muovevo sinuosa tra le fronde.
La bambina dormiva ma il suo respiro era affaticato. La sua pelle molto più calda rispetto alla sera precedente. Mi intrufolai in una casa in cui abitavano quattro cuori. Uno era piccolo come quello di Liz. Era una villetta a due piani e la famiglia dormiva tranquilla al piano superiore. Posizionai la piccola sul divano e mi recai in cucina. In silenzio riempii di cibo un sacchetto di tela. Quella roba puzzava. Pane, merendine, una bottiglia di succo di pesca, una torta dentro a della carta stagnola. Tre banane, due mele, una pera, un cartoccio di latte. Biscotti secchi.
Dato che tutto quel cibo non ci stava nel sacchetto che avevo trovato sul ripiano della cucina, afferrai uno zaino e, dopo averlo svuotato del suo contenuto di libri, lo riempii di tutto il cibo che avevo procacciato.
Poi, senza fare rumore alcuno, salii le scale. Trovai una camera e vi entrai. Vi dormiva un bambino. Era suo, il piccolo cuore. Frugai nel suo armadio e sottrassi dei vestiti pesanti. Un maglione, una felpa, una canottiera di lana e dei pantaloni jeans. Calzini pesanti. Poi trovai una giacca e presi anche quella. Nell’armadio trovai anche delle coperte. Ne presi due e poi tornai dalla bambina.
Dormiva accoccolata sul divano. Tremava anche se nella casa la temperatura non era bassa.
Cercando di non svegliarla, le levai i vestiti bagnati. La asciugai come meglio potei e poi le infilai gli abiti puliti e asciutti. Erano da maschietto ma le stavano bene comunque. Era così bella…

La lasciai dormire fino alle cinque di mattina poi, preoccupata che gli abitanti ci trovassero, decisi che era ora di andarcene. Cercai di non svegliarla ma, nell’infilare la giacca lei aprì gli occhi.
< Liz, adesso dobbiamo andare. > le sussurrai accarezzandola.
Tossì e al piano di sopra qualcuno si svegliò.
< Mamma… non voglio usci… > le misi un dito sulle labbra.
Qualcuno scese dal letto e, lentamente, camminò fino alla porta della camera. Era un uomo.
Fece alcuni passi indietro ed aprì un cassetto. Una voce femminile, assonnata, disse: < Amore, torna a letto. >
< Ho sentito delle voci, al piano di sotto. > qualcosa di metallico. Una pistola.
Il mio corpo si irrigidì.
Lui aprì la porta. Percorse mezzo metro e poi cominciò a scendere le scale.
Afferrai Elizabeth e spalancai in una frazione di secondo la finestra. In un millesimo di istante io, la piccola, le due coperte e lo zaino pieno di cibo eravamo nascoste nel fitto della boscaglia, in cima ad un pino. L’uomo scese le scale di corsa ma noi ormai non c’eravamo già più.
In un attimo tutte le luci della casa si accesero. In breve si accorsero che mancavano cibo e vestiti, le coperte e lo zaino.
L’uomo era infuriato. Urlava e diceva che voleva chiamare la polizia. La donna cercava di calmarlo.
Avevo lasciato i vestiti bagnati di Liz nel loro soggiorno, sul divano. Lei li teneva in mano e, agitandoli, diceva: < Caro, qui c’è stata una bambina. Non vedi. Hanno portato via cibo e vestiti di un bambino di cinque anni. Cerca di essere comprensivo. Sono sicura si trattasse di una mamma in difficoltà. Avrebbe potuto rubare i soldi che tenevamo nella scatola dei biscotti ed invece li ha lasciati per terra. Cercava cibo, non di derubarci. >
< Cosa dici? È entrato nella camera di nostro figlio! Qualcuno ha dormito sul nostro divano! >
< Non vedi la sagoma? È piccola. Ci ha dormito un bambino. Anzi, una bambina. Queste calze, questa maglietta… sono da bambina. Per favore, se avesse voluto, avrebbe potuto farci del male. probabilmente era una mamma sola e disperata con la sua bambina. Fuori piove e fa freddo… >
< Mi stai dicendo che non dovrei chiamare la polizia? > lui urlava, lei cercava di farlo ragionare.
< Esatto caro. Se vuoi, oggi chiamo la ditta e faccio inserire un sistema d’allarme. Però, non chiamare la polizia. Questa notte non è entrato un criminale. >
Mi piaceva quella signora. Era gentile con me anche se non mi conosceva. Mi stava cercando di proteggere. 
Non ascoltai il resto della conversazione. Mi nascosi nel boschetto retrostante e, nel tronco cavo di un sitka, aprii il latte. Liz lo bevve avidamente, dal cartoccio. Le spezzettai del pane, che lei divorò. Mangiò anche una mela e una banana. Tre biscotti e un pezzetto di una merendina. Alla fine, senza più la fame ad attanagliarla, si addormentò tra le mie braccia. la avvolsi nelle coperte e le baciai i capelli.
Quando, cinque ore dopo, si svegliò, cominciò a piagnucolare. < mammi, devo fare la pipì. >
Fu difficile convincerla a farla nel bosco. Diceva che aveva bisogno del vasino. Io non ce lo avevo e alla fine dovette arrendersi. Non avrei rischiato di andare in paese e farmi scoprire per quello.
 Nel corso della giornata la tosse aumentò e io le diedi del latte per cercare di non farle sentire la gola irritata. Era irrequieta e non riusciva a stare ferma. Mi sembrava sempre sul punto di fare una domanda che poi però non mi poneva mai.
Dopo un’ora passata sdraiata tra le coperte si aggrappò al mio braccio. < Mammi… ho sonno. > La presi in braccio e cominciai a cullarla. Si addormentò velocemente. La sua pelle era sempre molto calda. Anche nel sonno venne colta da dei colpi di tosse che la facevano sussultare.
Cercavo di alleviare la sua pena con baci e carezze ma io stessa non mi sentivo bene.Sete, sete, sete.

 Avevo sete e stare così vicino ad un luogo abitato da così tanti umani non era facile. Il cervo non aveva placato del tutto il mio desiderio di sangue e stare vicino a loro rendeva tutto più difficile. Avrei voluto andare a caccia ma non osavo allontanarmi così tanto da Liz.

Quando ormai era di nuovo notte, mi recai nuovamente al villaggio.
Non sarei entrata nella casa della notte precedente, mi sarei spinta un po’ più a ovest se, sulla soglia della finestra dalla quale la notte prima ero entrata e poi fuggita, non ci fosse stato un sacchetto di plastica grande e gonfio. Quatta quatta mi avvicinai, lo afferrai e in un secondo fui nel fitto della foresta.
Lo aprii. Dentro, i vestiti di Liz, lavati, asciugati e stirati. Dentro a un contenitore di plastica, trovai due porzioni di insalata di riso. C’era anche un bigliettino. “non preoccuparti dei vestiti di Nicholas. Puoi tenerli. Buona fortuna a te e alla tua bambina.”
Mi commossi e sono certa che avrei pianto se quello strano corpo avesse potuto.
In quei giorni mi ero accorta che quel corpo era strano. Le prime ore avevo seguito solo l’istinto. E cioè ero fuggita.
Ma adesso, dopo aver bevuto il sangue (cosa che al solo pensiero mi disgustava) riuscivo anche a pensare. Cercavo di ricordare ma, oltre al dorore infinito del fuoco nel mio corpo e a quello che c’era stato dopo, non ricordavo niente. sì, delle sensazioni, delle emozioni… nulla di più.
L’unica cosa di cui ero sicura era che volevo bene alla bambina. E agli altri due piccoli che avevo lasciato nelle mani di coloro che mi avevano fatto del male.
Mi si rivoltò lo stomaco al pensiero. Dovevo andare a prenderli. Dovevo salvarli.
Pensai alle parole della donna.

Forse avevo ragione. Ero davvero una mamma disperata insieme alla sua bambina piccola.

Sebbene non ricordassi assolutamente nulla.

  
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