L'emarginato e il bardo
Faccio
ancora fatica ad abituarmi all'idea di dover lasciare tutto questo.
Le immacolate case, gli ampi viali, le cinque altissime torri dei
Sovrani, la Culla del Sole e soprattutto il Grande Tempio del Sole.
Quanti minuti, ore, giorni ho passato là dentro a cercar
risposte e domande. Quanto ho sudato nella sua pigra umidità,
mentre fuori i miei simili soffrivano e morivano per un'ideologia. O
meglio l'ideologia.
Chiunque
non sia cresciuto qui ad Ankhalar non può capire di cosa
parli.
Perché
per chiunque non sia cresciuto qui è ben chiaro cosa siano la
vita e la morte, quale sia la differenza che le separa.
Ma
non per noi.
Dominati
dalla follia di potenza, ne abbiamo completamente smarrito il limite.
Sempre ammesso che essa ne abbia.
Non
parlo di uccisioni, torture o sevizie. È la libertà a
cui mi riferisco. La libertà di essere ciò che si
vuole. Eremiti o governanti, assassini o poeti. Ogni possibile scelta
ci è sottratta sin dal nostro primo vagito, quando, ancora
incapaci di capire, abbiamo già segnato la nostra fine per il
solo essere venuti al mondo.
Siamo
malvagi? Sì è vero. Terribili? Vero anche questo.
Crudeli? Oltre ogni immaginazione. Protagonisti delle più
terribili storie da taverna, finiremo ad annientare il mondo intero
se ne avremo la possibilità. O ad annientare noi stessi.
Perché il nostro più grande nemico siamo noi.
O
meglio, Lui.
Il
nostro grande Dio, ai cui dettami dedichiamo ogni singolo respiro.
Il
nostro onnipotente Dio, capace di metterci gli uni contro gli altri,
dimenticando qualsiasi legame, di sangue, affetto ed odio.
Il
nostro malvagio, terribile e crudele Dio, Karevor. Vale a dire noi
stessi, i Noubin.
Ciò
che Egli è, noi siamo. Ciò che noi non siamo, Egli è.
La
sua legge non lascia spazio all'arbitrio. Dalla nascita siamo
marchiati come appartenenti a Lui. Con tutto quello che ne consegue.
Non
sono ammessi alla vita neonati con malformazioni, seppur lievi.
Vengono gettati a morire ai margini della città.
Tra
quelli considerati idonei, coloro che, raggiunti i 7 anni, non abbiano ancora mostrato capacità magiche, vengono
calati nel loro destino: schiavi, puttane, martiri, vittime
sacrificali.
I
pochi fortunati dotati iniziano il cammino della Magia e del servizio
di Karevor: schiavisti, Chierici, carnefici, assassini.
Bestie
o domatori, qual'è la reale differenza?
Ognuno
seguirà la propria via, senza averla potuta scegliere.
Come
un minuscolo insetto, si dimenerà nella ragnatela, muovendo un
piccolo momento ma rimanendo sospeso nell'eterno.
Poi
ci sono io.
Sincarel.
Senza
secondo nome di appartenenza, poiché non sono altro che un
misero bastardo. Un cadavere che cammina, come spesso mi hanno
definito. Zoppo sin dalla nascita per una gamba più corta, il
mio destino sarebbe dovuto essere quello degli altri Rifiutati.
Morire nella polvere. Invece io scelsi di vivere. Inconsapevolmente
certo. Ma lo feci. E ciò mi rende più potente di
qualsiasi Grande Stregone o Alto Chierico.
E
non solo per la mia scelta. Ma perché fui anche la scelta di
un'altra persona, mia madre Felahana, che accortasi di quel neonato
che non voleva morire, mi prese con sé raccogliendomi da terra
e mi crebbe sinché poté tenerlo nascosto.
È a lei che ora, dopo 18 anni sto pensando, mentre mi accingo ad abbandonare la mia città e la mia patria. Alla sua scelta, consapevole.
Il
gelido e forte vento mi costringe a voltarmi ancora una volta. Dalla
collina su cui sono riesco a vedere svettare le cinque splendenti
Torri. Il sole le abbraccia proteggendole dalle troppe nuvole. Ora è
immutabile nella sua pienezza, ma chissà un giorno. Chissà
se quelle nuvole non potranno addensarsi e impedirgli di vedere.
Chissà cosa succederebbe.
Mi
stringo di più nel mantello e mi volto.
Il
mio viaggio sarà lungo.
Ripiegò
il foglio che aveva già letto centinaia di volte e lo nascose
tra le pieghe della camicia. Anche per quella sera avrebbe attinto
alla storia di Sincarel il Noubin, il grande Stregone ribelle dal
cuore di fuoco e l'animo di ghiaccio. Era una storia che aveva creato
anni addietro e che gli era cara soprattutto per l'affinità
istintiva verso il protagonista, che, come lui, era marchiato dal
flagello della zoppia. E la storia era ancora più affascinante
poiché probabilmente era vera, o almeno questo aveva dedotto
dalla sottile ed elegante grafia con cui erano tracciate le parole.
Gli piaceva credere che quei fogli fossero davvero stati strappati
dal diario di Sincarel, realmente esistito in chissà quale
luogo o tempo, e, attraversando secoli o forse solo alcuni anni, per
pura casualità fossero finiti proprio nelle sue mani. Tra le
dita di un giovane bardo zoppo, che aveva subito eletto il
carismatico Stregone a suo eroe e aveva costruito su di lui trame e
storie degne dei migliori poemi.
La
taverna dove si doveva esibire quella sera era gremita di gente della
peggior specie: ladri, tagliagole, protettori con le loro prostitute,
persino alcuni Perlan, gli esotici padroni della maggior parte del
traffico di droghe. Non era esattamente il miglior pubblico che gli
fosse capitato, senza considerare che Nick ovviamente non era venuto
a vederlo, deludendo lui, ma ancor di più sua sorella Claire
che ne era segretamente, ma neanche troppo visto che lo avrebbe
capito anche un cieco, innamorata.
“Allora
io inizio eh?” le disse cercando di nascondere il nervosismo.
“Nick
non c'è” rispose lei, senza nascondere la delusione. Lui la
guardò dispiaciuto: non era una brutta ragazza, ma i suoi modi
maschili, uniti a qualche scorpacciata di troppo, a un abbigliamento
povero ed incolore e a degli ingestibili capelli riccioli, non ne
facevano certo una bellezza o una ragazza per cui qualcuno si poteva
voltare. Non certo poi Nick, che con la sua bellezza ed il suo
fascino, aveva schiere di ammiratrici, qualcuna anche dell'alta
società.
“Magari
arriverà a spettacolo iniziato” mentì per
rincuorarla. “Sai quanto gli piacciano le entrate a effetto”.
Claire
gli diede un affettuoso bacio sulla guancia.
“Buona
fortuna fratellino” gli augurò.
“Speriamo
vada bene” sospirò.
Alcuni
minuti dopo i due fratelli stavano fuggendo a perdifiato per le vie
di Altaria, inseguiti dagli insulti provenienti da quelli che si
erano rivelati spettatori troppo esigenti. Irv arrancava per star
dietro alla sorella.
“Dannata
gamba!” si maledisse fermandosi. Claire lo raggiunse tornando
indietro di alcuni passi.
“Beh”,
disse ansante, “non credo che si prenderanno la briga di
inseguirci.”
“In
effetti no” rispose, ancora dispiaciuto per come erano andate le cose. “Ma dove ho sbagliato?”
“Non
pensarci. Andiamo piuttosto alla Locanda del Gallo a bere qualcosa?”
propose lei senza riuscire a trattenere un trasognato sorriso. Il
giovane bardo annuì sorridendo a sua volta.
“D'accordo.
Ma non facciamo tardi però! Altrimenti papà chi lo sente
poi.”
E
si incamminarono lentamente mentre nubi nere velavano una pallida
luna.