Videogiochi > Assassin's Creed
Segui la storia  |       
Autore: RobynODriscoll    25/06/2010    10 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Il Filo Rosso del Destino - la storia di Bianca Auditore da Monteriggioni' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

iugno 1501. Una sera di tuoni: Vanni ed io eravamo stretti nel letto, con gli occhi già socchiusi, in procinto di addormentarci. I nostri genitori erano lontani, a Bologna, per parlare con alcuni alleati. Nonna Maria ci stava leggendo con voce dolce un passo dall’Orlando Innamorato che amavo particolarmente, in cui il paladino pasticcione Astolfo per una volta combina qualcosa di giusto e riesce a salvare il suo re. Io avevo già serrato le palpebre, pronta a scivolare nel sonno. Poi, qualcosa accadde. 
La nonna interruppe la lettura bruscamente. Sentii che posava il libro sulle ginocchia. Aprii gli occhi. Stava guardando oltre la porta. 
Mi drizzai a sedere. Vanni mi imitò, stropicciandosi un occhio. 
“Che succede?”
La nonna ci prese per mano e ci fece cenno di seguirla.  
Fuori pioveva forte. Gli uomini e la donna che entrarono alla villa avevano i mantelli zuppi di pioggia incollati addosso. Riconobbi mio padre e mia madre: lei trascinava per mano un ragazzino, lui sorreggeva un uomo che a malapena camminava.
Incrocia gli occhi del ragazzo. Enormi, terrorizzati. Avevano visto l’orrore.
Mentre i servi aiutavano papà a portare a letto il ferito, e la nonna mandava a chiamare il medico, la mamma portò il ragazzino di sopra, nella nostra stanza. Mi disse di andare a chiamare la dama della nonna, perché ci desse una mano. Claretta si era già svegliata per il trambusto, e corse nella nostra stanza. Vanni ed io ci scambiammo uno sguardo, prima di entrare a nostra volta.
Lo stavano spogliando degli abiti ghiacciati. La sua pelle era bianchissima e lentigginosa, i polpastrelli erano crespi da quanto era madido di pioggia. C’era del sangue rappreso tra i suoi capelli, ma non sembrava appartenere a lui. Rosa gli sfregò le braccia, il torso e le gambe ripetutamente, per scaldarlo. Lui guardava dritto davanti a sé. Non so perché, mi avvicinai.
“Come ti chiami?” feci, quasi bisbigliando.
“A-Ag-amen-none”  cercò di dire lui, mentre batteva i denti. 
“Cos’è successo, Rosa?” chiese mia nonna. 
“I Bentivoglio hanno fatto la loro mossa” fece mia madre, tra i denti. “Siamo riusciti a salvare solo Galeazzo e il bambino. Gli altri…Dio, quei cani li hanno rincorsi fino alla torre dell’Uccellino. Li hanno stanati promettendo di graziarli. E poi…” 
Sul suo volto si dipinse il disgusto. “Che il diavolo li porti!” aggiunse poi in un ringhio.
“Claretta, che aspetti?” fece Nonna Maria “va’ a preparare qualcosa di caldo per questo bambino,”
Claretta uscì, e dopo poco tornò con della zuppa riscaldata dalla cena. Dopo che ebbe bevuto, le labbra del bambino riacquistarono un po’ di colore.
“Stai meglio, tesoro?” domandò Nonna Maria. Lui abbassò subito gli occhi, fissando il pavimento.
“Hanno…chiuso le porte. Tutte quelle della città. Non si poteva scappare.” Mia madre cercò di dirgli che non c’era bisogno che parlasse, ma lui proseguì come se non l’avesse sentita. Pareva indemoniato, tanto era ossessionato il suo sguardo. “La mamma ha cercato di portarmi via…ma l’hanno presa. Li ho visti. L’hanno inchiodata al muro e strappato la veste. Mi hanno detto di correre e non guardare…e io ho corso…la sentivo urlare…e poi sono uscito dal palazzo, e c’erano cadaveri ovunque, e io ho dovuto…ho dovuto pestarli! Non volevo, lo giuro! Lo so che è sacrilegio, ma io non volevo farlo!”
La voce del bambino si spense dentro i singhiozzi. Mia madre lo strinse tra le braccia e lo cullò. 
Mi faceva tanta tenerezza. Volevo dirgli che adesso era al sicuro, perché Monteriggioni era inespugnabile.
“Lasciatelo in pace. Agamennone deve soltanto riposare, ora.”
Mio padre era affacciato alla soglia, poco più di un’ombra. Corsi da lui. 
“E’ stato lui, vero? E’ stato Ermes Bentivoglio?”
Anche se quel nome non veniva pronunciato da anni, era sempre presente nella mia mente.
La mano di Ezio mi strinse la spalla. “Dobbiamo riposare tutti, Bianca. E’ stata una lunga notte.”
Se ormai mi conoscete un poco, dovreste immaginare che non mi rassegnai. Finsi di essermi addormentata accanto a Vanni e al bambino spaventato, e regolai il respiro perché sembrasse quello pesante del sonno. Quando la nonna e la sua dama uscirono dalla stanza, mi alzai piano, affacciandomi allo spiraglio tra la porta e lo stipite. Non c’era nessuno. Scesi le scale, fino alla porta del laboratorio. Con le spalle al muro, ascoltai.
La voce di mia madre.
“I Bentivoglio hanno passato i limiti. La città era disseminata di cadaveri…questa…questa è una strage!”
La voce di Ugo. “Galeazzo ce la farà?”
Zio Mario. “Puoi giocarti le palle che ce la farà, quell’uomo è un combattente.”
Mio padre. “I Marescotti erano il nostro unico appoggio a Bologna. Abbiamo perso Rivaldino, e le comunicazioni con la Marchesana sono impossibili. Siamo tagliati fuori dai nostri alleati nel nord, maledizione!”
Il tonfo di un pugno battuto sul tavolo. 
Ancora mia madre. “Forse la strage non riguarda i templari. L’ha ordinata Ginevra, sembra che il Signore di Bologna ne fosse all’oscuro.”
Zio Mario, un pesante sospiro. “La lupa ha scatenato i suoi cuccioli. C’era da aspettarselo…Annibale ed Ermes godono del sangue che versano. La madre è una Sforza, ma porco demonio, ha preso  peggio della famiglia.” 
Mi allontanai, camminando silenziosamente verso la mia stanza. Come immaginavo: c’era stata una carneficina, e il responsabile era Ermes Bentivoglio, quel demonio dagli occhi rossicci! Mi coricai furiosa, stringendo le coperte nei pugni. Un giorno l’avrei ucciso. Ne ero certa come del mio nome.
Il bambino, Agamennone, era sdraiato tra me e Vanni, con la faccia sprofondata nel cuscino. D’improvviso, aprì i suoi occhi spiritati.
Fui soffocata dal puzzo che emanava. Cosa poteva essere? Sudore, certo, misto all’acre del sangue e del ferro…un aroma di bruciato tra i capelli, dovevano aver dato fuoco alle case…umidità, anche. Ma c’era un sentore più sottile, dolciastro e rivoltante. Quel bambino puzzava di morte, come se ciò che aveva visto lo avesse contaminato per sempre.
“C’era un uomo” bisbigliò “che mi ha trascinato dentro la sua porta prima che i soldati mi prendessero. Mi ha nascosto e mi ha dato del pane. Quando le acque si sono calmate mi ha fatto fuggire fuori dalle mura.” Mi mostrò una pietra nera e lucida, che stringeva nel pugno. “Ha detto che la sfortuna non mi può colpire finché avrò questa pietra.”
“Sei stato fortunato, per davvero.”
Lui annuì, in quella maniera stralunata. Forse l’indomani si sarebbe reso conto di cosa gli era capitato, e avrebbe pianto. Ma quella sera le sue ciglia erano asciutte.
“Un giorno io ricambierò il favore. Darò la vita per quell’uomo, perché lui ha rischiato la sua per me.”
Con quelle parole, Agamennone si addormentò; ed io pensai che fosse molto coraggioso, o molto pazzo. 
Io, invece, proprio non riuscivo a prendere sonno, e girovagai di nuovo per la villa.
Mi affacciai alla porta di Zia Claudia. Dopo il brusco arrivo di Agamennone e suo padre aveva voluto alzarsi per aiutarci, ma Ugo l’aveva costretta di nuovo a letto. Ora era sola; lo zio probabilmente stava ancora discutendo con mio padre e gli altri. 
Mi avvicinai, reggendo la candela per rischiarare la stanza. La sagoma delle coperte disegnava una curva dolce: zia Claudia era incinta di sette mesi, a quel tempo. Quando si era sposata, non credevo che avrebbe potuto avere figli, vista la sua età. Non avevo tenuto conto che la zia era una donna per cui nulla era impossibile.
Socchiuse gli occhi. Era bella, con i capelli sciolti sul cuscino. 
“Non riesci a dormire?”
 Scossi il capo, e lei mi fece cenno di sdraiarmi al suo fianco. Spensi la candela con un soffio, e mi raggomitolai nel suo abbraccio. Era bello incassare la testa sotto il suo mento, e abbracciare la pancia prominente. Il cuginetto scalciò per salutarmi.
“Perché non sei rimasta nella tua stanza?” fece lei, accarezzandomi la testa.
“Quel bambino, Agamennone” bisbigliai “odora di morte.” Inspirai profondamente. Un aroma fresco di agrumi e menta mi invase le narici. “Tu invece profumi…di vita.”
Non ricordo cosa mi rispose, perché caddi quasi subito addormentata. Quella notte sognai per la prima volta il mio futuro cugino. Mi vidi un bimbetto ricciuto, che somigliava più a Claudia che non a Ugo. 
Le mie doti di profetessa non sono mai state eccezionali, visto che Lisabetta nacque femmina e con i capelli più dritti di un crine di cavallo. 
Nel sogno, comunque, l’infante si trasformò di colpo in Agamennone, con gli abiti pregni di pioggia e il sangue tra i capelli. Il ragazzino stringeva nel pugno una mela dorata. Dapprima parlò una lingua un po’ dolce e un po’ aspra, a me sconosciuta. Quindi, disse, con una voce cavernosa e possente:
“Nulla è reale, tutto è lecito: queste sono le parole dei nostri antenati. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo assassini. Sei pronta per diventare una di noi, Bianca?”
Io toccai la Mela con la mano sinistra, e subito un anello di luce mi cinse l’anulare. Lo sentivo premere sulla carne, bruciarla, scavare. Quando si dissolse, avevo anche io il marchio degli Assassini inciso sulla pelle. 
L’eco della mia voce si perse tra le pieghe del tempo.
“Sì, sono pronta.”
Più tardi, mi sentii sollevare da due braccia forti, e mi riscossi dal sogno. Riconobbi subito la stretta di mio padre, che mi portava nella stanza da letto dei miei genitori. Ezio e Rosa si stesero entrambi vicino a me, e mi circondarono con le braccia. L’odore di morte era attaccato anche alla loro pelle, meno soffocante di quello che era rimasto addosso ad Agamennone, ma comunque pressante. 
Capii che anche io avrei avuto addosso quell’odore, un giorno, quando avessi versato il mio primo sangue.
Agamennone e suo padre restarono presso di noi per lungo tempo. Mentre Galeazzo si riprendeva lentamente dalle sue ferite ed io imparavo a fare amicizia con quello strano bambino, ricevemmo una visita che, almeno all’inizio, rese mio padre molto contento. 
Su di un carro carico di tele, pennelli e manichini di legno, che gettava piuttosto lontano il suo odore penetrante di vernice e tinture, arrivò un giorno a Monteriggioni un certo Leonardo da Vinci. A me quel nome ricordava soltanto alcune firme sulle lettere crittate che arrivavano a mio padre; sapevo che era un suo amico, e niente di più. Forse l’avevo visto qualche volta, quando ero veramente molto piccola: l’uomo dagli occhi azzurri che mi si presentò davanti mi stupì per la sua espressione infantile e pura. Eppure, ero certa che fosse più vecchio di mio padre di diversi anni…e invece, quanti di meno ne dimostrava! 
“Ecco qui la piccola Bianca!” esclamò quando mi vide “Sei diventata davvero bella. Un giorno ti chiederò di posare per me.”
Me l’avrebbe chiesto davvero, diversi anni più tardi, e mio padre non sarebbe stato affatto contento del risultato. Sorrido al pensiero di quelle lunghe sedute di posa, lo ammetto: anche una spudorata come me ha avuto qualche problema nell’impersonare Leda che abbraccia il cigno. Non tanto per il cigno, quanto perché sono rimasta per tutto il tempo completamente senza veli. 
Adesso, però, sto proprio divagando.
Torniamo, per ora, all’estate dei miei dodici anni. In quei pochi giorni che rimase con noi, imparai ad adorare Leonardo. Aveva un bel volto raffinato e un’aria sempre svagata, come se la sua mente fosse perennemente impegnata in qualcosa di troppo importante perché potesse prendere seriamente le sciocchezze della vita quotidiana. Mi illustrava i suoi disegni di macchine meravigliose, e rideva con mio padre del volo inaugurale di una certa macchina volante che nemmeno la mia fervida fantasia riusciva a immaginare. Un giorno, su pressione di Agamennone e Vanni,  acconsentì a mostrarci quella che definiva “la sua ultima meraviglia”, che giaceva celata da un panno nell’angolo del carro. Fummo piuttosto delusi, Agamennone, Vanni ed io, quando ci si presentò una semplice tela non ancora terminata, che ritraeva la Madonna col Bambino.
Eppure, ne capivo abbastanza per intuire che c’era in quel quadro una bellezza fuori dal comune. La Vergine stava tessendo con un fuso a forma di croce, e il Bambino rubava lo strumento alla madre, alzandolo verso il cielo un po’ per gioco e un po’ come un presagio del suo destino. Il sorriso del pargolo divino, per la prima volta in tutti i quadri e le statue che lo rappresentavano, pareva felice e spensierato come quello di un bambino vero. 
“Io volevo vedere un’arma!” si lamentò Vanni. A quel punto, Agamennone alzò gli occhi color nocciola in quelli dell’artista. “Questo quadro è importante per voi, Maestro?”
Leonardo annuì sotto il suo cappello rosso. “Lo è eccome, mio giovane amico. In questo momento, si tratta del mio scudo personale.”
“Uno scudo?” fece, scettico, mio fratello, studiando la tela. Non pareva certo grande abbastanza per riparare bene il torso di un uomo.
A quel punto, Leonardo si strinse nelle spalle. “Il fatto è che la marchesana Isabella vuole che torni da lei a Mantova per farle il ritratto. Siccome non posso andarci, ho trovato una scusa perfetta: le ho mandato a dire che sto finendo un altro quadro importantissimo.”
Scoppiai a ridere. “Allora questo non è uno scudo, è una bugia!”
Le labbra rosse e sottili di Leonardo si arricciarono in un sorriso divertito. “A volte sono la stessa cosa.”
Nonostante Leonardo mi avesse mostrato i suoi progetti di macchine da guerra, pensavo fosse un uomo troppo innocente per mettere in atto le proprie fantasie. Fui sorpresa, quando mio padre mi raccontò che era stato lui a riparare le lame celate e a fabbricare la pistola nascosta nei suoi antibracci. Durante l’ultima  cena che consumò con noi a Monteriggioni, il nostro ospite ci rivelò una sorpresa ancora più grande.
Nostro padre gli stava raccontando della difficile situazione che si era creata per gli alleati degli Assassini da quando la Romagna era caduta e Bologna era stata epurata di tutti gli oppositori dei Bentivoglio. In quel modo era impossibile comunicare con Isabella d’Este Gonzaga: temevano davvero che la loro migliore alleata dopo Caterina si sarebbe trovata presto sola, in balìa dei francesi che premevano da Milano e delle truppe papali  appena oltre il Po. 
“So che la situazione è difficile. Ecco perché ho accettato di diventare ingegnere capo di Cesare Borgia.”
In altri frangenti, la situazione sarebbe di certo stata comica. Zio Mario per poco non si strozzò con lo stinco, mentre zia Claudia fece cadere il coltello e Ugo inghiottiva a vuoto. Mia madre, poi, non riuscì a tenere la boccaccia chiusa, e imprecò ad alta voce.
Mio padre rimase gelido. 
“Ho capito cosa vuoi fare. E’ troppo pericoloso.”
Leonardo non perse la calma né il sorriso.  “Qualcuno deve sabotare il Valentino dall’interno. Di me non sospetta. L’ho incontrato a Milano quando era solo un ragazzo. Credo di averlo impressionato.”
“Leonardo, tu non capisci. Cesare Borgia è una bestia.”
“E che razza di offesa sarebbe? Le bestie sono molto migliori degli esseri umani.” 
Mio padre digrignò i denti, forse maledicendo mentalmente tutte le bestie del mondo. “Scusa, riformulo: Cesare Borgia è quanto di peggio possa esserci in un uomo. Se ti scoprisse non avresti scampo, e noi non potremmo intervenire.”
“Non mi scoprirà. Ricordi? Non so soltanto decrittare codici altrui. Posso inventarne nuovi, e ti assicuro che decifrarli non sarà semplice nemmeno per te.”
Mio padre esitò un istante. Sospirò. “Sei il mio più vecchio amico.”
Leonardo annuì. A quel punto, aveva capito che Ezio sarebbe capitolato. “Ma nessuno lo sa a parte i presenti. Queste due cose insieme fanno di me la persona più adatta, non credi?”
Sapevamo tutti che aveva ragione, ed Ezio, seppure evidentemente contrariato, non obiettò più.
Poco prima di ripartire, Leonardo si offrì di esaminare i progressi del padre di Agamennone, in virtù di certi suoi recenti studi di anatomia. L’uomo era cosciente, ma ancora confinato a letto, con il braccio che giaceva ben fasciato contro il petto. Leonardo volle che fosse sbendato; quindi, iniziò a massaggiargli il braccio fin dalla punta delle dita.
“Siete anche un medico?” domandai, osservandolo lavorare.
“Più o meno. Finora mi sono esercitato solo con i cadaveri.”
Galeazzo sbiancò leggermente. Mentre io e Vanni fummo piuttosto disgustati dalla risposta, Agamennone ne rimase affascinato. 
“Chissà se accetta allievi” mugugnò, pensoso. Io sapevo che avrei volentieri posato per Leonardo, ma di certo non lo avrei assistito mentre dissezionava un cadavere, per nulla al mondo!
Nel frattempo, Leonardo continuava allegramente la sua visita. “Mi hanno detto del nuovo portico dell’oratorio di Santa Cecilia ! Dev’essere una gran bella opera, prima o poi verrò a Bologna per visitarlo” diceva, mentre gli manipolava il braccio disteso. “Sentite dolore qui?”
“Sì” mugugnò Galeazzo, stringendo i denti.
“Bene” sorrise allegro Leonardo “vuol dire che il muscolo è ancora al suo posto. Con un po’ di tempo il vostro braccio tornerà come prima, messere.”
Quando, alla fine, Leonardo se ne andò, abbracciò noi bambini come se fossimo parte della sua famiglia. Notai in quel momento, con il naso premuto contro la sua giubba, che quell’uomo odorava di vita, fin dentro le ossa. Sarebbe andato tutto bene. La missione in Romagna era difficile, ma lui ce l’avrebbe fatta.
La partenza di Leonardo anticipò di poco la nascita di Lisabetta. La mia adorata cugina venne al mondo con un travaglio lungo e tortuoso, ma zia Claudia affrontò la sua battaglia con la fierezza degli Auditore, e vinse. La bambina acquistò il cognome De Magianis: viste le oscure origini di Ugo, affinché potesse sposare zia Claudia era stato necessario che Antonio lo adottasse formalmente. Nonostante portasse un altro cognome, però, io ero certa che Lisabetta fosse un’Auditore fatta e finita. Di certo, già in quei primi giorni di vita gridava come un’aquila, e sapeva farsi rispettare. 
Non facemmo in tempo a rallegrarci della nascita di Lisabetta, però, che dovemmo rattristarci di un’altra partenza. 
Agamennone e suo padre erano rimasti presso di noi per tutta l’estate, fino a che le ferite dell’uomo, come previsto da Leonardo, erano guarite. Mio padre offrì loro di restare; Galeazzo lo ringraziò, ma voleva evitare di crearci altri guai. Si sarebbero nascosti presso dei loro parenti, a Siena, per poi riunirsi alla famiglia dei Malvezzi, che come loro erano stati ingiustamente scacciati da Bologna molti anni prima. 
Vanni ed io non volevamo che Agamennone partisse. Dal giorno in cui quel bambino aveva fatto irruzione nelle nostre vite, ci eravamo abituati alla sua presenza silenziosa. Aveva la mia stessa età; quando parlava, era di stelle e cose astrologiche che non capivamo, e non si separava mai da quel sasso nero e lucido che, secondo lui, aveva determinato la sua salvezza. 
Ferrante, invece, fu ben contento di vederlo partire. Ne era geloso marcio. L’ombra di Bianca, lo chiamava. Non capiva il nostro strano legame, e forse non lo capivamo nemmeno noi. In fondo, non facevamo altro che stare insieme, spesso in silenzio. A volte Agamennone perdeva gli occhi lontano, nelle sue visioni di morte, e io gli stringevo la mano per riportarlo nel mondo dei vivi. Allora, mi sorrideva, e diceva che era felice di avermi conosciuto.
Il giorno della partenza mi mise la sua pietra nera tra le mani. 
“Tienila tu.”
Mi veniva da piangere, ma provai a scherzare. “Cosa dovrei farci, con questo sasso?”
Agamennone sorrise e scosse la testa. “E’ un’onice nera. Protegge contro la malasorte. Questa pietra mi ha salvato la vita, e la prossima volta la salverà a te.”
Aveva già capito che razza di scavezzacollo fossi, evidentemente.
Vanni mi prese in giro mentre si allontanavano. “Gli piaci!” mi sfotteva “E lui piace a te!”
Gli diedi un pugno in testa, sperando di nascondergli il rossore. “Taci.”
Non era così semplice spiegare cosa provassi per Agamennone. Sarebbe stato quasi liberatorio dire che mi ero infatuata di lui: almeno, avrei spiegato gli strani sentimenti che mi si agitavano in petto. La verità è che sentivo di aver stretto un altro legame per la vita, come se vedessi piano piano un filo rosso che dal mio polso si legava al suo, e ci univa entrambi al templare che aveva cercato di rapirmi due anni prima. Forse sono un po’ profetica, dopo tutto. O forse, più semplicemente, oggi interpreto il passato con gli occhi di chi ha visto già il futuro. 
Ferrante non fu felice di notare che avevo fatto incastonare l’onice nera in un piccolo medaglione, e che avevo preso a portarla al collo tutti i giorni. Non mi importava. Se gli avessi raccontato del sogno in cui accettavo di diventare un Assassino, non avrebbe capito.
Mio padre, invece, doveva capire. Io ero nata per partecipare alla sua guerra, smaniavo per diventare un alfiere nel suo gioco. Volevo servire la sua causa, e sentirmi chiamare sorella dagli Assassini.
La risposta non fu positiva - la prima volta.
Al mio: “Voglio diventare un’Assassina”, mio padre rispose: “Che ti ha fatto Ferrante questa volta?”
Quando gli spiegai il vero significato della mia frase, vidi il suo volto farsi di acciaio. “Ne riparleremo tra trent’anni.”
“Tra trent’anni sarete un vecchietto con l’artrite” replicai “Io voglio imparare adesso.”
Ezio la risolse come sempre faceva quando qualcosa non andava come voleva lui: mi voltò le spalle e se ne andò, senza degnarmi di un’altra parola. Io, però, non ero disposta ad arrendermi. Tornai all’attacco così spesso nei giorni seguenti, che arrivò ad arrabbiarsi non appena mi presentavo davanti a lui.
“La risposta è no, Bianca. Fattene una ragione.”
Quella volta, con lui c’era zio Mario. Rise, bonariamente; teneva la gamba ferita distesa su un poggiapiedi.  
“Ezio, non puoi evitare quello che è scritto nel sangue. Questa ragazza è una Auditore.”
Lo ringraziai con lo sguardo; ma mio padre replicò:
“Non è una ragazza, è una bambina.”
“Ho dodici anni!” protestai. 
“Ragiona, nipote” insisté zio Mario “Tuo padre non ha fatto in tempo ad addestrarti, e tu hai dovuto imparare tutto sul campo. Vuoi commettere lo stesso errore con i tuoi figli?”
Doveva aver toccato una corda sensibile, perché vidi Ezio irrigidirsi. Nei suoi occhi scuri passarono tantissime emozioni diverse. Infine, mi afferrò il polso, e mi costrinse a seguirlo.
Dopo che ebbe parlato brevemente con il macellaio, mi fece entrare nel retro della sua bottega. Mi tappai il naso per il fortissimo odore di carne sanguinolenta. C’erano polli appesi a testa in giù, con gli occhi vuoti coperti di una patina opaca. La cosa più sconvolgente, però, erano i quarti di bue già scuoiati appesi ai ganci. Potevo distinguere la linea delle costole, i muscoli esposti. 
Mio padre si sfilò un pugnale dalla fusciacca che portava a tracolla. Me lo mise in mano.
Era freddo. Pesava.
Che sciocchezza, pensai. Ero abituata a tirare i pugnali da lancio e a maneggiare armi. Strinsi l’impugnatura.
“Voglio che tu colpisca” disse Ezio, con voce bassa e tesa.
Era la cosa più facile del mondo, lo so: ma quell’ammasso di carni esposte non era esattamente un bersaglio di paglia. Caricai tutta la mia forza sul braccio; non riuscii a fare altro che scalfirlo. Appena un graffio. La lama vibrava tra le mie mani.
“Più forte, Bianca. Colpiscilo!”
Sferrai una seconda pugnalata, e questa volta affondò. 
Non saprei descrivere la sensazione che provai. L’arma che sprofondava. La consistenza della carne. Il contraccolpo che ricevette il mio polso. Pensai che era un corpo morto, ma che questo non rendeva il mio gesto meno disgustoso. Feci per lasciare il pugnale, ma Ezio mi afferrò la mano e mi costrinse a riprenderlo.
“Ora estrailo” disse.
“Padre…”
La sua stretta si fece più salda. “Vuoi diventare un’assassina, dici? Allora devi imparare a uccidere. Devi imparare cosa si prova.”
L’odore della morte era nelle mie narici, e mi si stava attaccando addosso. Guidata da Ezio, estrassi il pugnale. Il rumore, nemmeno quello posso descrivere. La ferita non poteva buttare sangue, e rimase lì, con due lembi di carne arricciati e un solco tra di essi.
Dovevo essere completamente sbiancata in volto. Sperai che tutto fosse finito, ma non era che l’inizio.
Mio padre mi spiegò su quella carcassa dove si trovassero i punti vitali, dove convenisse conficcare la lama per uccidere rapidamente, dove tagliare per recidere tendini e dove colpire per spezzare ossa. Non risparmiò i dettagli, tanto che più volte sentii i conati salirmi alla gola. 
Ezio mi squadrò con i suoi occhi da aquila. 
“Uccidere è così, Bianca. Disgustoso e crudele. Pensi davvero di essere pronta per tutto questo?”
Ovviamente non lo ero, ma il mio orgoglio mi fece rispondere un fiero: sì. 
Lui strinse le labbra. “Ma certo” disse soltanto. Per quel giorno, la lezione finì.
Ciò che mio padre escogitò la volta successiva, devo ammetterlo, ancora fatico a perdonarglielo. 
Pochi giorni dopo, il cavallo di Vanni ebbe un brutto incidente. Mio fratello non si fece nulla, per fortuna, ma la bestia, una bella giumenta roana, si spezzò entrambe le zampe anteriori. Gemeva in maniera penosa, tanto che non riuscimmo nemmeno a riportarla alla stalla. 
“Possiamo guarirla, vero?” fece Vanni, con la voce tremante e i lucciconi già negli occhi.
Ezio mi fissò intensamente. 
“E’ il tuo momento, Bianca. Dimostrami che sei un’Assassina.”
Vanni prese a strepitare; si aggrappò al collo della cavalla, che nitriva in maniera sempre più acuta. Guardai in quegli occhi acquosi e neri, e vi lessi una supplica. Come potevo sapere cosa mi stesse dicendo? Mi pregava di lasciala vivere, o di aiutarla a morire?
Ezio mi passò il pugnale. Ripassai, mentalmente, dove si trovava la giugulare. Sentivo il sudore freddo imperlarmi la fronte, mentre Vanni gridava e piangeva. Ezio lo staccò dal cavallo. 
Toccai la pelle dell’animale con la mano. Le accarezzai il collo madido. Sentivo la vena sotto le dita. Pulsava velocemente. Cercai di poggiarvi contro la lama del pugnale…avrei dovuto soltanto premere un po’, e reciderla con un gesto veloce. Avrebbe di certo sofferto meno di adesso. E tuttavia Vanni urlava, e la cavalla gemeva e sbuffava, sempre più stanca, scalciando con le zampe posteriori. Lo sguardo severo di mio padre era su di me.
Feci cadere il pugnale a terra. 
“Non ci riesco.”
Ezio scosse il capo. Raccolse l’arma, e mi chiese di chiudere gli occhi a Vanni. Ubbidii.
“Non provo alcun piacere in questo” mormorò mio padre, come una preghiera. Quindi, sentimmo un rumore meccanico. Ezio puntò la piccola arma da fuoco che era nascosta nei suoi antibracci alla testa della cavalla. Sparò. L’animale cadde a terra con un tonfo. Era morto all’istante.
Vanni piangeva, mentre io cercavo di mormorargli che era necessario, che stava soffrendo e non c’era modo di salvarla. Ezio sollevò lo sguardo su di noi. La sua camicia bianca era macchiata di rosso; le sue mani non tremavano, e gli occhi erano fermi. Sarei mai diventata come lui? Fredda e impassibile, come lo era lui adesso?
“Ogni forma di vita è degna di rispetto” disse, accarezzando la criniera grigia del cavallo. “Requiescat in pace.”
Forse fu allora che qualcosa si ruppe, tra noi tre. Quel momento terribile e insignificante nell’economia dell’universo, fu quello che sciolse i fili dei nostri destini e ci portò alla deriva. Ezio cercava di insegnarci la crudeltà della vita. Vanni imparò l’odio. Io…non lo so. Forse non imparai nulla, se non che sarei stata per tutta la mia esistenza divisa tra loro due, a tentare disperatamente di tenerli uniti. 
Ma io parlo del futuro, quando ancora non ho raccontato nulla che lo riguardi. C’è stato un tempo in cui anche io non sono stata una brava figlia, un tempo in cui la rabbia della giovinezza mi portò contro mio padre. Forse è arrogante da parte mia pensarlo, e tuttavia io sono certa che furono i miei errori di quel periodo a trascinarci al punto in cui ci troviamo ora. Per questo, non smetterò mai di chiedere loro perdono.
Ulteriori Note Storiche
Nel 1501, con la minaccia di Cesare Borgia che incombeva sulla loro signoria, i Bentivoglio di Bologna commisero quello che secondo diversi storici fu un enorme passo falso, che non fece che abbassare la loro popolarità. Convinti dalle insinuazioni di un messo di Cesare Borgia, furono indotti a pensare che i Marescotti, una delle famiglie più potenti di Bologna e storica alleata dei Bentivoglio, stesse prendendo accordi per far entrare il Valentino a Bologna. L’ordine della strage partì dalla vendicativa Ginevra Sforza (del ramo degli Sforza di Pesaro, dunque lontanissima cugina della nostra Caterina), moglie di Giovanni Bentivoglio e madre di Ermes: in una notte di Giugno le porte della città vennero chiuse per impedire a chiunque di fuggire, mentre i figli di Ginevra e i loro uomini setacciavano la città per passare a filo di spada ogni esponente della famiglia dei Marescotti, le loro donne, i loro servi e alleati. Tre di loro riuscirono a rifugiarsi nella Torre dell’Uccellino, al confine con il ferrarese: furono convinti a uscire con la promessa che le loro vite sarebbero state risparmiate, e appena misero piede fuori della torre furono decapitati.
Nella mia storia, i Marescotti non sono colpevoli di voler consegnare Bologna al Valentino, ma di essere segretamente alleati degli Assassini. Agamennone tornerà ancora nella nostra storia...ormai ho definito il cast principale che circonderà Bianca nei suoi anni di adulta, e lui ne fa definitivamente parte!EcSorpre

Sorpresa! Sono riuscita ad aggiornare prima del previsto. E' stato un capitolo difficile da scrivere. Molte persone stanno passando da Monteriggioni in questo periodo: alcuni sono vecchie conoscenze che ancora non avevano fatto la loro apparizione, altri sono nuovi personaggi che diventeranno piuttosto importanti per il futuro di Bianca. Anche se mi rendo conto che è un po' un capitolo di transizione, credo fosse necessario per porre le basi di quello che accadrà in futuro. 

AVVERTENZA: CERTI PUNTI DEL CAPITOLO SONO UN PO' "FORTI", E POTREBBERO URTARE LA SENSIBILITA' DI QUALCUNO. Per rispettare il rating ho cercato di concentrarmi sulle sensazioni più che sulle descrizioni, evitando di scendere nel dettaglio, ma certe situazioni potrebbero infastidire. Trovo comunque che, visto il livello di "crudezza" dell'opera originale a cui la fanfic si ispira, non sia possibile addolcire la pillola più di tanto. Stiamo parlando di assassini dopo tutto, no? ^_^

Vabbè, ora smetto di bablare e vi lascio a Bianca :)


 

Giugno 1501. Una sera di tuoni: Vanni ed io eravamo stretti nel letto, con gli occhi già socchiusi, in procinto di addormentarci. I nostri genitori erano lontani, a Bologna, per parlare con alcuni alleati. Nonna Maria ci stava leggendo con voce dolce un passo dall’Orlando Innamorato che amavo particolarmente, in cui il paladino pasticcione Astolfo per una volta combina qualcosa di giusto e riesce a salvare il suo re. Io avevo già serrato le palpebre, pronta a scivolare nel sonno. Poi, qualcosa accadde.

La nonna interruppe la lettura bruscamente. Sentii che posava il libro sulle ginocchia. Aprii gli occhi. Stava guardando oltre la porta.

Mi drizzai a sedere. Vanni mi imitò, stropicciandosi un occhio.

“Che succede?”

La nonna ci prese per mano e ci fece cenno di seguirla. 

Fuori pioveva forte. Gli uomini e la donna che entrarono alla villa avevano i mantelli zuppi di pioggia incollati addosso. Riconobbi mio padre e mia madre: lei trascinava per mano un ragazzino, lui sorreggeva un uomo che a malapena camminava.

Incrocia gli occhi del ragazzo. Enormi, terrorizzati. Avevano visto l’orrore.

Mentre i servi aiutavano papà a portare a letto il ferito, e la nonna mandava a chiamare il medico, la mamma portò il ragazzino di sopra, nella nostra stanza. Mi disse di andare a chiamare la dama della nonna, perché ci desse una mano. Claretta si era già svegliata per il trambusto, e corse nella nostra stanza. Vanni ed io ci scambiammo uno sguardo, prima di entrare a nostra volta.

Lo stavano spogliando degli abiti ghiacciati. La sua pelle era bianchissima e lentigginosa, i polpastrelli erano crespi da quanto era madido di pioggia. C’era del sangue rappreso tra i suoi capelli, ma non sembrava appartenere a lui. Rosa gli sfregò le braccia, il torso e le gambe ripetutamente, per scaldarlo. Lui guardava dritto davanti a sé. Non so perché, mi avvicinai.

“Come ti chiami?” feci, quasi bisbigliando.

“A-Ag-amen-none” cercò di dire lui, mentre batteva i denti.

“Cos’è successo, Rosa?” chiese mia nonna.

“I Bentivoglio hanno fatto la loro mossa” fece mia madre, tra i denti. “Siamo riusciti a salvare solo Galeazzo e il bambino. Gli altri…Dio, quei cani li hanno rincorsi fino alla torre dell’Uccellino. Li hanno stanati promettendo di graziarli. E poi…”

Sul suo volto si dipinse il disgusto. “Che il diavolo li porti!” aggiunse poi in un ringhio.

“Claretta, che aspetti?” fece Nonna Maria “va’ a preparare qualcosa di caldo per questo bambino,”

Claretta uscì, e dopo poco tornò con della zuppa riscaldata dalla cena. Dopo che ebbe bevuto, le labbra del bambino riacquistarono un po’ di colore.

“Stai meglio, tesoro?” domandò Nonna Maria. Lui abbassò subito gli occhi, fissando il pavimento.

“Hanno…chiuso le porte. Tutte quelle della città. Non si poteva scappare.” Mia madre cercò di dirgli che non c’era bisogno che parlasse, ma lui proseguì come se non l’avesse sentita. Pareva indemoniato, tanto era ossessionato il suo sguardo. “La mamma ha cercato di portarmi via…ma l’hanno presa. Li ho visti. L’hanno inchiodata al muro e strappato la veste. Mi hanno detto di correre e non guardare…e io ho corso…la sentivo urlare…e poi sono uscito dal palazzo, e c’erano cadaveri ovunque, e io ho dovuto…ho dovuto pestarli! Non volevo, lo giuro! Lo so che è sacrilegio, ma io non volevo farlo!”

La voce del bambino si spense dentro i singhiozzi. Mia madre lo strinse tra le braccia e lo cullò.

Mi faceva tanta tenerezza. Volevo dirgli che adesso era al sicuro, perché Monteriggioni era inespugnabile.

“Lasciatelo in pace. Agamennone deve soltanto riposare, ora.”

Mio padre era affacciato alla soglia, poco più di un’ombra. Corsi da lui.

“E’ stato lui, vero? E’ stato Ermes Bentivoglio?”

Anche se quel nome non veniva pronunciato da anni, era sempre presente nella mia mente.

La mano di Ezio mi strinse la spalla. “Dobbiamo riposare tutti, Bianca. E’ stata una lunga notte.”

Se ormai mi conoscete un poco, dovreste immaginare che non mi rassegnai. Finsi di essermi addormentata accanto a Vanni e al bambino spaventato, e regolai il respiro perché sembrasse quello pesante del sonno. Quando la nonna e la sua dama uscirono dalla stanza, mi alzai piano, affacciandomi allo spiraglio tra la porta e lo stipite. Non c’era nessuno. Scesi le scale, fino alla porta del laboratorio. Con le spalle al muro, ascoltai.

La voce di mia madre.

“I Bentivoglio hanno passato i limiti. La città era disseminata di cadaveri…questa…questa è una strage!”

La voce di Ugo. “Galeazzo ce la farà?”

Zio Mario. “Puoi giocarti le palle che ce la farà, quell’uomo è un combattente.”

Mio padre. “I Marescotti erano il nostro unico appoggio a Bologna. Abbiamo perso Rivaldino, e le comunicazioni con la Marchesana sono impossibili. Siamo tagliati fuori dai nostri alleati nel nord, maledizione!

Il tonfo di un pugno battuto sul tavolo.

Ancora mia madre. “Forse la strage non riguarda i templari. L’ha ordinata Ginevra, sembra che il Signore di Bologna ne fosse all’oscuro.”

Zio Mario, un pesante sospiro. “La lupa ha scatenato i suoi cuccioli. C’era da aspettarselo…Annibale ed Ermes godono del sangue che versano. La madre è una Sforza, ma porco demonio, ha preso  peggio della famiglia.”

Mi allontanai, camminando silenziosamente verso la mia stanza. Come immaginavo: c’era stata una carneficina, e il responsabile era Ermes Bentivoglio, quel demonio dagli occhi rossicci! Mi coricai furiosa, stringendo le coperte nei pugni. Un giorno l’avrei ucciso. Ne ero certa come del mio nome.

Il bambino, Agamennone, era sdraiato tra me e Vanni, con la faccia sprofondata nel cuscino. D’improvviso, aprì i suoi occhi spiritati.

Fui soffocata dal puzzo che emanava. Cosa poteva essere? Sudore, certo, misto all’acre del sangue e del ferro…un aroma di bruciato tra i capelli, dovevano aver dato fuoco alle case…umidità, anche. Ma c’era un sentore più sottile, dolciastro e rivoltante. Quel bambino puzzava di morte, come se ciò che aveva visto lo avesse contaminato per sempre.

“C’era un uomo” bisbigliò “che mi ha trascinato dentro la sua porta prima che i soldati mi prendessero. Mi ha nascosto e mi ha dato del pane. Quando le acque si sono calmate mi ha fatto fuggire fuori dalle mura.” Mi mostrò una pietra nera e lucida, che stringeva nel pugno. “Ha detto che la sfortuna non mi può colpire finché avrò questa pietra.”

“Sei stato fortunato, per davvero.”

Lui annuì, in quella maniera stralunata. Forse l’indomani si sarebbe reso conto di cosa gli era capitato, e avrebbe pianto. Ma quella sera le sue ciglia erano asciutte.

“Un giorno io ricambierò il favore. Darò la vita per quell’uomo, perché lui ha rischiato la sua per me.”

Con quelle parole, Agamennone si addormentò; ed io pensai che fosse molto coraggioso, o molto pazzo.

Io, invece, proprio non riuscivo a prendere sonno, e girovagai di nuovo per la villa.

Mi affacciai alla porta di Zia Claudia. Dopo il brusco arrivo di Agamennone e suo padre aveva voluto alzarsi per aiutarci, ma Ugo l’aveva costretta di nuovo a letto. Ora era sola; lo zio probabilmente stava ancora discutendo con mio padre e gli altri.

Mi avvicinai, reggendo la candela per rischiarare la stanza. La sagoma delle coperte disegnava una curva dolce: zia Claudia era incinta di sette mesi, a quel tempo. Quando si era sposata, non credevo che avrebbe potuto avere figli, vista la sua età. Non avevo tenuto conto che la zia era una donna per cui nulla era impossibile.

Socchiuse gli occhi. Era bella, con i capelli sciolti sul cuscino.

“Non riesci a dormire?”

 Scossi il capo, e lei mi fece cenno di sdraiarmi al suo fianco. Spensi la candela con un soffio, e mi raggomitolai nel suo abbraccio. Era bello incassare la testa sotto il suo mento, e abbracciare la pancia prominente. Il cuginetto scalciò per salutarmi.

“Perché non sei rimasta nella tua stanza?” fece lei, accarezzandomi la testa.

“Quel bambino, Agamennone” bisbigliai “odora di morte.” Inspirai profondamente. Un aroma fresco di agrumi e menta mi invase le narici. “Tu invece profumi…di vita.”

Non ricordo cosa mi rispose, perché caddi quasi subito addormentata. Quella notte sognai per la prima volta il mio futuro cugino. Mi vidi un bimbetto ricciuto, che somigliava più a Claudia che non a Ugo.

Le mie doti di profetessa non sono mai state eccezionali, visto che Lisabetta nacque femmina e con i capelli più dritti di un crine di cavallo.

Nel sogno, comunque, l’infante si trasformò di colpo in Agamennone, con gli abiti pregni di pioggia e il sangue tra i capelli. Il ragazzino stringeva nel pugno una mela dorata. Dapprima parlò una lingua un po’ dolce e un po’ aspra, a me sconosciuta. Quindi, disse, con una voce cavernosa e possente:

“Nulla è reale, tutto è lecito: queste sono le parole dei nostri antenati. Agiamo nell’ombra per servire la luce. Siamo assassini. Sei pronta per diventare una di noi, Bianca?”

Io toccai la Mela con la mano sinistra, e subito un anello di luce mi cinse l’anulare. Lo sentivo premere sulla carne, bruciarla, scavare. Quando si dissolse, avevo anche io il marchio degli Assassini inciso sulla pelle.

L’eco della mia voce si perse tra le pieghe del tempo.

“Sì, sono pronta.”

Più tardi, mi sentii sollevare da due braccia forti, e mi riscossi dal sogno. Riconobbi subito la stretta di mio padre, che mi portava nella stanza da letto dei miei genitori. Ezio e Rosa si stesero entrambi vicino a me, e mi circondarono con le braccia. L’odore di morte era attaccato anche alla loro pelle, meno soffocante di quello che era rimasto addosso ad Agamennone, ma comunque pressante.

Capii che anche io avrei avuto addosso quell’odore, un giorno, quando avessi versato il mio primo sangue.

 

Agamennone e suo padre restarono presso di noi per lungo tempo. Mentre Galeazzo si riprendeva lentamente dalle sue ferite ed io imparavo a fare amicizia con quello strano bambino, ricevemmo una visita che, almeno all’inizio, rese mio padre molto contento.

Su di un carro carico di tele, pennelli e manichini di legno, che gettava piuttosto lontano il suo odore penetrante di vernice e tinture, arrivò un giorno a Monteriggioni un certo Leonardo da Vinci. A me quel nome ricordava soltanto alcune firme sulle lettere crittate che arrivavano a mio padre; sapevo che era un suo amico, e niente di più. Forse l’avevo visto qualche volta, quando ero veramente molto piccola: l’uomo dagli occhi azzurri che mi si presentò davanti mi stupì per la sua espressione infantile e pura. Eppure, ero certa che fosse più vecchio di mio padre di diversi anni…e invece, quanti di meno ne dimostrava!

“Ecco qui la piccola Bianca!” esclamò quando mi vide “Sei diventata davvero bella. Un giorno ti chiederò di posare per me.”

Me l’avrebbe chiesto davvero, diversi anni più tardi, e mio padre non sarebbe stato affatto contento del risultato. Sorrido al pensiero di quelle lunghe sedute di posa, lo ammetto: anche una spudorata come me ha avuto qualche problema nell’impersonare Leda che abbraccia il cigno. Non tanto per il cigno, quanto perché sono rimasta per tutto il tempo completamente senza veli.

Adesso, però, sto proprio divagando.

Torniamo, per ora, all’estate dei miei dodici anni. In quei pochi giorni che rimase con noi, imparai ad adorare Leonardo. Aveva un bel volto raffinato e un’aria sempre svagata, come se la sua mente fosse perennemente impegnata in qualcosa di troppo importante perché potesse prendere seriamente le sciocchezze della vita quotidiana. Mi illustrava i suoi disegni di macchine meravigliose, e rideva con mio padre del volo inaugurale di una certa macchina volante che nemmeno la mia fervida fantasia riusciva a immaginare. Un giorno, su pressione di Agamennone e Vanni,  acconsentì a mostrarci quella che definiva “la sua ultima meraviglia”, che giaceva celata da un panno nell’angolo del carro. Fummo piuttosto delusi, Agamennone, Vanni ed io, quando ci si presentò davanti una semplice tela non ancora terminata, che ritraeva la Madonna il Bambino.

Eppure, ne capivo abbastanza per intuire che c’era in quel quadro una bellezza fuori dal comune. Lei stava tessendo con un fuso a forma di croce, e il Bambino rubava lo strumento alla madre, alzandolo verso il cielo un po’ per gioco e un po’ come un presagio del suo destino. Il sorriso del pargolo divino, per la prima volta in tutti i quadri e le statue che lo rappresentavano, pareva felice e spensierato come quello di un bambino vero.

“Io volevo vedere un’arma!” si lamentò Vanni. A quel punto, Agamennone alzò gli occhi color nocciola in quelli dell’artista. “Questo quadro è importante per voi, Maestro?”

Leonardo annuì sotto il suo cappello rosso. “Lo è eccome, mio giovane amico. In questo momento, si tratta del mio scudo personale.”

“Uno scudo?” fece, scettico, mio fratello, studiando la tela. Non pareva certo grande abbastanza per riparare bene il torso di un uomo.

A quel punto, Leonardo si strinse nelle spalle. “Il fatto è che la marchesana Isabella vuole che torni da lei a Mantova per farle il ritratto. Siccome non posso andarci, ho trovato una scusa perfetta: le ho mandato a dire che sto finendo un altro quadro importantissimo.”

Scoppiai a ridere. “Allora questo non è uno scudo, è una bugia!”

Le labbra rosse e sottili di Leonardo si arricciarono in un sorriso divertito. “A volte sono la stessa cosa.”

Nonostante Leonardo mi avesse mostrato i suoi progetti di macchine da guerra, pensavo fosse un uomo troppo innocente per mettere in atto le proprie fantasie. Fui sorpresa, quando mio padre mi raccontò che era stato lui a riparare le lame celate e a fabbricare la pistola nascosta nei suoi antibracci. Durante l’ultima  cena che consumò con noi a Monteriggioni, il nostro ospite ci rivelò una sorpresa ancora più grande.

Nostro padre gli stava raccontando della difficile situazione che si era creata per gli alleati degli Assassini da quando la Romagna era caduta e Bologna era stata epurata di tutti gli oppositori dei Bentivoglio. In quel modo era impossibile comunicare con Isabella d’Este Gonzaga: temevano davvero che la loro migliore alleata dopo Caterina si sarebbe trovata presto sola, in balìa dei francesi che premevano da Milano e delle truppe papali  appena oltre il Po.

“So che la situazione è difficile. Ecco perché ho accettato di diventare ingegnere capo di Cesare Borgia.”

In altri frangenti, la situazione sarebbe di certo stata comica. Zio Mario per poco non si strozzò con lo stinco, mentre zia Claudia fece cadere il coltello e Ugo inghiottiva a vuoto. Mia madre, poi, non riuscì a tenere la boccaccia chiusa, e imprecò ad alta voce.

Mio padre rimase gelido.

“Ho capito cosa vuoi fare. E’ troppo pericoloso.”

Leonardo non perse la calma né il sorriso.  “Qualcuno deve sabotare il Valentino dall’interno. Di me non sospetta. L’ho incontrato a Milano quando era solo un ragazzo. Credo di averlo impressionato.”

“Leonardo, tu non capisci. Cesare Borgia è una bestia.”

“E che razza di offesa sarebbe? Le bestie sono molto migliori degli esseri umani.”

Mio padre digrignò i denti, forse maledicendo mentalmente tutte le bestie del mondo. “Scusa, riformulo: Cesare Borgia è quanto di peggio possa esserci in un uomo. Se ti scoprisse non avresti scampo, e noi non potremmo intervenire.”

“Non mi scoprirà. Ricordi? Non so soltanto decrittare codici altrui. Posso inventarne nuovi, e ti assicuro che decifrarli non sarà semplice nemmeno per te.”

Mio padre esitò un istante. Sospirò. “Sei il mio più vecchio amico.”

Leonardo annuì. A quel punto, aveva capito che Ezio sarebbe capitolato. “Ma nessuno lo sa a parte i presenti. Queste due cose insieme fanno di me la persona più adatta, non credi?”

Sapevamo tutti che aveva ragione, ed Ezio, seppure evidentemente contrariato, non obiettò più.

Poco prima di ripartire, Leonardo si offrì di esaminare i progressi del padre di Agamennone, in virtù di certi suoi recenti studi di anatomia. L’uomo era cosciente, ma ancora confinato a letto, con il braccio che giaceva ben fasciato contro il petto. Leonardo volle che fosse sbendato; quindi, iniziò a massaggiargli il braccio fin dalla punta delle dita.

“Siete anche un medico?” domandai, osservandolo lavorare.

“Più o meno. Finora mi sono esercitato solo con i cadaveri.”

Galeazzo sbiancò leggermente. Mentre io e Vanni fummo piuttosto disgustati dalla risposta, Agamennone ne rimase affascinato.

“Chissà se accetta allievi” mugugnò, pensoso. Io sapevo che avrei volentieri posato per Leonardo, ma di certo non lo avrei assistito mentre dissezionava un cadavere, per nulla al mondo!

Nel frattempo, Leonardo continuava allegramente la sua visita. “Mi hanno detto del nuovo portico dell’oratorio di Santa Cecilia! Dev’essere una gran bella opera, prima o poi verrò a Bologna per visitarlo” diceva, mentre gli manipolava il braccio disteso. “Sentite dolore qui?”

“Sì” mugugnò Galeazzo, stringendo i denti.

“Bene” sorrise allegro Leonardo “vuol dire che il muscolo è ancora al suo posto. Con un po’ di tempo il vostro braccio tornerà come prima, messere.”

Quando, alla fine, Leonardo se ne andò, abbracciò noi bambini come se fossimo parte della sua famiglia. Notai in quel momento, con il naso premuto contro la sua giubba, che quell’uomo odorava di vita, fin dentro le ossa. Sarebbe andato tutto bene. La missione in Romagna era difficile, ma lui ce l’avrebbe fatta.

La partenza di Leonardo anticipò di poco la nascita di Lisabetta. La mia adorata cugina venne al mondo con un travaglio lungo e tortuoso, ma zia Claudia affrontò la sua battaglia con la fierezza degli Auditore, e vinse. La bambina acquistò il cognome De Magianis: viste le oscure origini di Ugo, affinché potesse sposare zia Claudia era stato necessario che Antonio lo adottasse formalmente. Nonostante portasse un altro cognome, però, io ero certa che Lisabetta fosse un’Auditore fatta e finita. Di certo, già in quei primi giorni di vita gridava come un’aquila, e sapeva farsi rispettare.

Non facemmo in tempo a rallegrarci della nascita di Lisabetta, però, che dovemmo rattristarci di un’altra partenza.

Agamennone e suo padre erano rimasti presso di noi per tutta l’estate, fino a che le ferite dell’uomo, come previsto da Leonardo, erano guarite. Mio padre offrì loro di restare; Galeazzo lo ringraziò, ma voleva evitare di crearci altri guai. Si sarebbero nascosti presso dei loro parenti, a Siena, per poi riunirsi alla famiglia dei Malvezzi, che come loro erano stati ingiustamente scacciati da Bologna molti anni prima.

Vanni ed io non volevamo che Agamennone partisse. Dal giorno in cui quel bambino aveva fatto irruzione nelle nostre vite, ci eravamo abituati alla sua presenza silenziosa. Aveva la mia stessa età; quando parlava, era di stelle e cose astrologiche che non capivamo, e non si separava mai da quel sasso nero e lucido che, secondo lui, aveva determinato la sua salvezza.

Ferrante, invece, fu ben contento di vederlo partire. Ne era geloso marcio. L’ombra di Bianca, lo chiamava. Non capiva il nostro strano legame, e forse non lo capivamo nemmeno noi. In fondo, non facevamo altro che stare insieme, spesso in silenzio. A volte Agamennone perdeva gli occhi lontano, nelle sue visioni di morte, e io gli stringevo la mano per riportarlo nel mondo dei vivi. Allora, mi sorrideva, e diceva che era felice di avermi conosciuto.

Il giorno della partenza mi mise la sua pietra nera tra le mani.

“Tienila tu.”

Mi veniva da piangere, ma provai a scherzare. “Cosa dovrei farci, con questo sasso?”

Agamennone sorrise e scosse la testa. “E’ un’onice nera. Protegge contro la malasorte. Questa pietra mi ha salvato la vita, e la prossima volta la salverà a te.”

Aveva già capito che razza di scavezzacollo fossi, evidentemente.

Vanni mi prese in giro mentre si allontanavano. “Gli piaci!” mi sfotteva “E lui piace a te!”

Gli diedi un pugno in testa, sperando di nascondergli il rossore. “Taci.”

Non era così semplice spiegare cosa provassi per Agamennone. Sarebbe stato quasi liberatorio dire che mi ero infatuata di lui: almeno, avrei spiegato gli strani sentimenti che mi si agitavano in petto. La verità è che sentivo di aver stretto un altro legame per la vita, come se vedessi piano piano un filo rosso che dal mio polso si legava al suo, e ci univa entrambi al templare che aveva cercato di rapirmi due anni prima. Forse sono un po’ profetica, dopo tutto. O forse, più semplicemente, oggi interpreto il passato con gli occhi di chi ha visto già il futuro.

Ferrante non fu felice di notare che avevo fatto incastonare l’onice nera in un piccolo medaglione, e che avevo preso a portarla al collo tutti i giorni. Non mi importava. Se gli avessi raccontato del sogno in cui accettavo di diventare un Assassino, non avrebbe capito.

Mio padre, invece, doveva capire. Io ero nata per partecipare alla sua guerra, smaniavo per diventare un alfiere nel suo gioco. Volevo servire la sua causa, e sentirmi chiamare sorella dagli Assassini.

La risposta non fu positiva - la prima volta.

Al mio: “Voglio diventare un’Assassina”, mio padre rispose: “Che ti ha fatto Ferrante questa volta?”

Quando gli spiegai il vero significato della mia frase, vidi il suo volto farsi di acciaio. “Ne riparleremo tra trent’anni.”

“Tra trent’anni sarete un vecchietto con l’artrite” replicai “Io voglio imparare adesso.”

Ezio la risolse come sempre faceva quando qualcosa non andava come voleva lui: mi voltò le spalle e se ne andò, senza degnarmi di un’altra parola. Io, però, non ero disposta ad arrendermi. Tornai all’attacco così spesso nei giorni seguenti, che arrivò ad arrabbiarsi non appena mi presentavo davanti a lui.

“La risposta è no, Bianca. Fattene una ragione.”

Quella volta, con lui c’era zio Mario. Rise, bonariamente; teneva la gamba ferita distesa su un poggiapiedi. 

“Ezio, non puoi evitare quello che è scritto nel sangue. Questa ragazza è una Auditore.”

Lo ringraziai con lo sguardo; ma mio padre replicò:

“Non è una ragazza, è una bambina.”

“Ho dodici anni!” protestai.

“Ragiona, nipote” insisté zio Mario “Tuo padre non ha fatto in tempo ad addestrarti, e tu hai dovuto imparare tutto sul campo. Vuoi commettere lo stesso errore con i tuoi figli?”

Doveva aver toccato una corda sensibile, perché vidi Ezio irrigidirsi. Nei suoi occhi scuri passarono tantissime emozioni diverse. Infine, mi afferrò il polso, e mi costrinse a seguirlo.

Dopo che ebbe parlato brevemente con il macellaio, mi fece entrare nel retro della sua bottega. Mi tappai il naso per il fortissimo odore di carne sanguinolenta. C’erano polli appesi a testa in giù, con gli occhi vuoti coperti di una patina opaca. La cosa più sconvolgente, però, erano i quarti di bue già scuoiati appesi ai ganci. Potevo distinguere la linea delle costole, i muscoli esposti.

Mio padre si sfilò un pugnale dalla fusciacca che portava a tracolla. Me lo mise in mano.

Era freddo. Pesava.

Che sciocchezza, pensai. Ero abituata a tirare i pugnali da lancio e a maneggiare armi. Strinsi l’impugnatura.

“Voglio che tu colpisca” disse Ezio, con voce bassa e tesa.

Era la cosa più facile del mondo, lo so: ma quell’ammasso di carni esposte non era esattamente un bersaglio di paglia. Caricai tutta la mia forza sul braccio; non riuscii a fare altro che scalfirlo. Appena un graffio. La lama vibrava tra le mie mani.

“Più forte, Bianca. Colpiscilo!”

Sferrai una seconda pugnalata, e questa volta affondò.

Non saprei descrivere la sensazione che provai. L’arma che sprofondava. La consistenza della carne. Il contraccolpo che ricevette il mio polso. Pensai che era un corpo morto, ma che questo non rendeva il mio gesto meno disgustoso. Feci per lasciare il pugnale, ma Ezio mi afferrò la mano e mi costrinse a riprenderlo.

“Ora estrailo” disse.

“Padre…”

La sua stretta si fece più salda. “Vuoi diventare un’assassina, dici? Allora devi imparare a uccidere. Devi imparare cosa si prova.”

L’odore della morte era nelle mie narici, e mi si stava attaccando addosso. Guidata da Ezio, estrassi il pugnale. Il rumore, nemmeno quello posso descrivere. La ferita non poteva buttare sangue, e rimase lì, con due lembi di carne arricciati e un solco tra di essi.

Dovevo essere completamente sbiancata in volto. Sperai che tutto fosse finito, ma non era che l’inizio.

Mio padre mi spiegò su quella carcassa dove si trovassero i punti vitali, dove convenisse conficcare la lama per uccidere rapidamente, dove tagliare per recidere tendini e dove colpire per spezzare ossa. Non risparmiò i dettagli, tanto che più volte sentii i conati salirmi alla gola.

Ezio mi squadrò con i suoi occhi da aquila.

“Uccidere è così, Bianca. Disgustoso e crudele. Pensi davvero di essere pronta per tutto questo?”

Ovviamente non lo ero, ma il mio orgoglio mi fece rispondere un fiero: sì.

Lui strinse le labbra. “Ma certo” disse soltanto. Per quel giorno, la lezione finì.

Ciò che mio padre escogitò la volta successiva, devo ammetterlo, ancora fatico a perdonarglielo.

Pochi giorni dopo, il cavallo di Vanni ebbe un brutto incidente. Mio fratello non si fece nulla, per fortuna, ma la bestia, una bella giumenta roana, si spezzò entrambe le zampe anteriori. Gemeva in maniera penosa, tanto che non riuscimmo nemmeno a riportarla alla stalla.

“Possiamo guarirla, vero?” fece Vanni, con la voce tremante e i lucciconi già negli occhi.

Ezio mi fissò intensamente.

“E’ il tuo momento, Bianca. Dimostrami che sei un’Assassina.”

Vanni prese a strepitare; si aggrappò al collo della cavalla, che nitriva in maniera sempre più acuta. Guardai in quegli occhi acquosi e neri, e vi lessi una supplica. Come potevo sapere cosa mi stesse dicendo? Mi pregava di lasciala vivere, o di aiutarla a morire?

Ezio mi passò il pugnale. Ripassai, mentalmente, dove si trovava la giugulare. Sentivo il sudore freddo imperlarmi la fronte, mentre Vanni gridava e piangeva. Ezio lo staccò dal cavallo.

Toccai la pelle dell’animale con la mano. Le accarezzai il collo madido. Sentivo la vena sotto le dita. Pulsava velocemente. Cercai di poggiarvi contro la lama del pugnale…avrei dovuto soltanto premere un po’, e reciderla con un gesto veloce. Avrebbe di certo sofferto meno di adesso. E tuttavia Vanni urlava, e la cavalla gemeva e sbuffava, sempre più stanca, scalciando con le zampe posteriori. Lo sguardo severo di mio padre era su di me.

Feci cadere il pugnale a terra.

“Non ci riesco.”

Ezio scosse il capo. Raccolse l’arma, e mi chiese di chiudere gli occhi a Vanni. Ubbidii.

“Non provo alcun piacere in questo” mormorò mio padre, come una preghiera. Quindi, sentimmo un rumore meccanico. Ezio puntò la piccola arma da fuoco che era nascosta nei suoi antibracci alla testa della cavalla. Sparò. L’animale cadde a terra con un tonfo. Era morto all’istante.

Vanni piangeva, mentre io cercavo di mormorargli che era necessario, che stava soffrendo e non c’era modo di salvarla. Ezio sollevò lo sguardo su di noi. La sua camicia bianca era macchiata di rosso; le sue mani non tremavano, e gli occhi erano fermi. Sarei mai diventata come lui? Fredda e impassibile, come lo era lui adesso?

“Ogni forma di vita è degna di rispetto” disse, accarezzando la criniera grigia del cavallo. “Requiescat in pace.

Forse fu allora che qualcosa si ruppe, tra noi tre. Quel momento terribile e insignificante nell’economia dell’universo, fu quello che sciolse i fili dei nostri destini e ci portò alla deriva. Ezio cercava di insegnarci la crudeltà della vita. Vanni imparò l’odio. Io…non lo so. Forse non imparai nulla, se non che sarei stata per tutta la mia esistenza divisa tra loro due, a tentare disperatamente di tenerli uniti.

Ma io parlo del futuro, quando ancora non ho raccontato nulla che lo riguardi. C’è stato un tempo in cui anche io non sono stata una brava figlia, un tempo in cui la rabbia della giovinezza mi portò contro mio padre. Forse è arrogante da parte mia pensarlo, e tuttavia io sono certa che furono i miei errori di quel periodo a trascinarci al punto in cui ci troviamo ora. Per questo, non smetterò mai di chiedere loro perdono.

 

Grazie mille per le recensioni e segnalazioni a Renault, Ama, Lulla Cullen, Miko e Shadow Eyes! Non avete idea della carica che mi date. 

Volevo inoltre segnalare i bellissimi disegni che Miko sta facendo su Bianca...è davvero una bravissima artista e io sono onorata che si dedichi ai personaggi di questa fanfic! Ecco Bianca da bambina e Vanni nello scorso capitolo :)

Infine linko un piccolo trailer che mi sono divertita a mettere insieme.

Grazie ancora a tutti coloro che passano di qui.
Laura.

 

Note Storiche

- Nel 1501, con la minaccia di Cesare Borgia che incombeva sulla loro signoria, i Bentivoglio di Bologna commisero quello che secondo diversi storici fu un enorme passo falso, che non fece che abbassare la loro popolarità. Convinti dalle insinuazioni di un messo di Cesare Borgia, furono indotti a pensare che i Marescotti, una delle famiglie più potenti di Bologna e storica alleata dei Bentivoglio, stesse prendendo accordi per far entrare il Valentino a Bologna. L’ordine della strage partì dalla vendicativa Ginevra Sforza (del ramo degli Sforza di Pesaro, dunque lontanissima cugina della nostra Caterina), moglie di Giovanni Bentivoglio e madre di Ermes: in una notte di Giugno le porte della città vennero chiuse per impedire a chiunque di fuggire, mentre i figli di Ginevra e i loro uomini setacciavano la città per passare a filo di spada ogni esponente della famiglia dei Marescotti, le loro donne, i loro servi e alleati. Tre di loro riuscirono a rifugiarsi nella Torre dell’Uccellino, al confine con il ferrarese: furono convinti a uscire con la promessa che le loro vite sarebbero state risparmiate, e appena misero piede fuori della torre furono decapitati.

Nella mia storia, i Marescotti non sono colpevoli di voler consegnare Bologna al Valentino, ma di essere segretamente alleati degli Assassini. Agamennone tornerà ancora nella nostra storia...ormai ho definito il cast principale che circonderà Bianca nei suoi anni di adulta, e lui ne fa definitivamente parte! J

 Dopo aver spulciato diversi documenti storici non ho ancora chiaro chi di loro e come riuscì a salvarsi, quindi ho romanzato la fuga di Galeazzo e Agamennone da Bologna (i due risultano ancora vivi, almeno fino al 1513). Nei documenti non sono nemmeno riuscita a scoprire le date di nascita dei due, ma calcolando in base all’età del bisnonno (ultraottantenne nel 1501) diciamo che verosimilmente Galeazzo ha l’età di Ezio e Agamennone suppergiù quella di Bianca. NdRuna

- La Leda con il cigno leonardesca è andata perduta, ma ci restano numerose copie di emuli. Mi riferisco in particolare alla versione in cui Leda è in piedi. Alcuni studiosi ritengono che lo schizzo “La Scapigliata” sia preparatorio alla Leda.

 - Il dipinto che Leonardo mostra ai bambini è “La Madonna dei Fusi”, il cui compimento risale appunto al 1501. Il quadro venne commissionato al Maestro da Florimond Robertet, potente segretario di Stato del re di francia Luigi XII, come attesta la lettera di Pietro da Novellara scritta nel 1501 nella quale il Vicario informava la Marchesa di Mantova Isabella d’Este che Leonardo si sarebbe occupato del suo ritratto non appena avesse finito il lavoro per Robertet.

- Diversi commentatori riportano l’amore di Leonardo per gli animali. Pare che comprasse uccelli in gabbia solo per poterli liberare, e alcune fonti sostengono fosse vegetariano.

 - L'oratorio di Santa Cecilia di cui Leonardo parla a Galezzo è una splendida chiesa affrescata di Bologna, si trova in via Zamboni, di fronte al Teatro Comunale e accanto a Piazza Verdi. Quante volte ci sono passata davanti da universitaria senza quasi vederla…è uno di quei monumenti che un Assassino si divertirebbe molto a scalare.


   
 
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Assassin's Creed / Vai alla pagina dell'autore: RobynODriscoll