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Autore: Ely79    29/06/2010    5 recensioni
Quante volte abbiamo sognato un lavoro diverso da quello che ci tiene occupati ogni giorno? Un lavoro che ci faccia sentire felici, gratificati, pieni di passione verso quel che facciamo? Ed ecco che ad Amelia, frustrata progettista, si palesa l'occasione di una vita. Ma cosa c'è dietro questa porta spalancata su una grande opportunità?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tavola III - Disposizioni generali
La cornetta incastrata fra l’orecchio e la spalla, il vapore della pentola negli occhi ed una manciata di spaghetti pronti per essere calati. Dal soggiorno, la voce della tivù arrivava come sempre troppo alta.
«Ma sei scema?!?» tuonò sdegnata la donna, sganciando la pasta nell’acqua bollente.
«Mamma, per favore non cominciare…» sospirò Amelia all’altro capo della cornetta.
Si era pentita all’istante di averla chiamata a quell’ora. Quando sua madre cucinava era piuttosto irascibile. Non che durante altri orari fosse diversa, ma tra le diciannove meno venti e le diciannove e trenta si rischiava il linciaggio. Una parentesi temporale dove era consigliabile evitare di darle qualunque notizia.
«No, per favore niente! Sei sempre la solita! Ti fai tirare in giro da tutti! C’hai trent’anni passati, te lo ricordi? Eh? Ma si può essere più cretini?» sbraitò, rimestando rapidamente con un forchettone.
L’acqua salata schizzò sulle piastrelle, colando in lunghe lacrime fumanti.
«Ma mamma, fammi…»
«Ma che cosa, Melly? Fai sempre così, non sei buona a farti valere! Ti fregano tutti e passi sempre per l’oca che sei! Che cavolo hai studiato a fare se non sei capace di fare niente? Mai! Eh? Era meglio che andavi a lavorare!»
La signora Veneziani si domandava da anni se l’averle fatto frequentare con tanta assiduità l’oratorio e altri enti gestiti da ecclesiastici non si fosse rivelata una scelta controproducente. Non voleva che sua figlia crescesse senza morale, dei valori, ma era venuta su così buona e pacata che forse, più che al Politecnico, sarebbe stato meglio mandarla suora. Di clausura magari, così nessuno avrebbe notato quanto riusciva ad essere stupida.
«Insomma, mamma! Se non avessi accettato quella clausola non avrei potuto firmare il contratto! Avrei mandato a monte la più grossa occasione della mia vita! È il mio primo lavoro. Ci sarà il mio nome, la firma» protestò debolmente. «Si tratta di una condizione sine qua non! Dovevo dire di sì!»
«Oh, smettila di usare quelle parole lì che non ci capisco niente!» sbottò risentita, armeggiando col sugo. «Te dovevi dirgli di no! Che non potevano obbligarti a stare lì per sempre che stai a dieci chilometri da casa. Ti fai mettere i piedi in testa, sei sempre lì a fare quello che ti dicono gli altri e non ci pensi mai»
«Veramente sono un po’ più di dieci chilometri» osservò abbattuta: in quel momento avrebbe desiderato essere dall’altra parte del mondo e non tanto vicina a casa.
Lei ed il signor Carew avevano finalmente terminato la stesura del documento che la vincolava come esecutrice di tutte le opere di ristrutturazione di Villa dei Gelsi. In quelle sere avevano rivisto decine di condizioni, di cavilli, di specifiche, ma quella che la obbligava a risiedere a palazzo per tutta la durata delle opere no. Per espressa volontà del Duca, quel vincolo era fondamentale: o lo accettava o non se ne faceva niente. E per Amelia quel lavoro significava troppo per tirarsi indietro.
«Allora! Dieci, quindici… cosa cambia?»
«Sono parecchi di più, mamma» sospirò.
Cercare di averla vinta su chi non sentiva ragioni era inutile.
«Te non ci dovevi stare! Adesso che arriva tuo papà lo senti! Te ne dice quattro! Domani vieni a casa! Ma dico io se si può essere così stupidi…»  e così dicendo diede un’altra girata furiosa alla pasta.
«Chi? La fessa?» biascicò una voce senza troppo interesse.
Mezzo infilato nel frigo c’era il fratello minore di Amelia, un lungagnone di venticinque anni, con cui condivideva la camera. I sei anni che li dividevano rendevano la comunicazione tra i due prossima allo zero. E gli affettuosi soprannomi che le riservava ne erano la prova.
«Sì, tua sorella! Ha fatto un contratto che lei deve restare là dove l’hanno chiamata! Cosa là, la Casa dei Gessi» rispose, agitando il cordless.
Non sentì Amelia strillare nel telefono nel tentativo di correggerla.
«Chi se ne frega. Lasciacela. Quanto manca?» chiese, indicando il fornello con la bottiglia di birra gelata.
«Cinque minuti. Ti va bene il sugo alla bolognese?» chiese, cambiando repentinamente tono di voce.
Il figlio scomparve con una smorfia vaga, diretto al divano, ignorando il sorriso affettuoso della donna.
«Allora, dicevamo?» proseguì un’addolcita signora Veneziani che, rammentando il problema, riprese immediatamente a strillare. «Ah, sì. Che ti sei fatta fregare anche stavolta! Melly quando ti deciderai a crescere e a guardarti in giro?»
«Ma come te lo devo dire? Non potevo fare diversamente!» insisté.
«Lo dici te! Perché non pensi a quello che fai, ti va bene quel che ti arriva, anche se fa schifo e dici di sì, che è quello che volevi! Stai lì ad aspettare che le cose ti capitano addosso»
«Non è vero»
«Te adesso vai da quello là e gli dici che vieni a casa»
«Il contratto è firmato, mamma. Devo restare. Non insistere»
«Sei una cretina» l’accusò.
«Si sta scaricando la batteria. Ci sentiamo. Salutami tutti» tagliò corto.
Non ascoltò il saluto e le ultime rimostranze di sua madre.
Sapeva che i suoi genitori avrebbero preferito che avesse interrotto gli studi alla seconda superiore, quando aveva aperto la ricevitoria all’angolo della strada. Le avevano fatto la testa quadrata a forza di rimproveri, che la scuola non serviva a niente, un pezzo di carta non diceva nulla di chi si era davvero. Aveva tenuto duro ed aveva proseguito negli studi, guadagnandosi borse di studio e bei voti. Il rispetto dei suoi genitori, mai. Le volevano bene, ne era convinta, ma erano cresciuti con una mentalità vecchia e chiusa nelle fabbriche della periferia. Un mestiere come quello dell’architetto era incomprensibile per loro, figurarsi quello dell’Archimaga.
Rimase a fissare lo schermo del cellulare per un tempo indefinito, aspettando che anche quell’ultima tacca sul display sparisse, indicando il prossimo spegnimento. Sullo scrittoio intarsiato a cui sedeva, aveva tracciato un Reticolo Energetico, che ora trovava ripugnante ed inutile. Desiderava che quell’aggeggio non suonasse mai più. Avrebbe potuto abbandonarlo sul fondo della borsa, ma sapeva di non poterlo fare.
Lasciò il telefonino sulla scrivania e si diresse al salone per la cena. Vide il maestro di palazzo salire dalle cucine, portando il solito ampio vassoio coperto. I passi cadenzati riecheggiavano nel grande vano verticale. Lo attese in cima alla scalinata.
«Prego, signorina. La cena è servita»
Lei aggiustò gli occhiali sul naso, avvicinandosi all’uomo che attendeva il suo ingresso nella stanza.
«Grazie» disse, levandogli le portate dalle mani e scendendo le scale.
Jarvis la seguì passo passo e nonostante non spiccicasse parola, poteva indovinare che fosse contrariato dal suo gesto. Contrariato e non incuriosito. Dubitava che qualsiasi cosa avesse fatto nell’arco di quella settimana appena trascorsa, incluso respirare, fosse stata di suo gradimento.
«Signorina Veneziani, cosa sta facendo?» disse finalmente quando la vide varcare la soglia delle cucine.
Con tutta tranquillità, la donna posò il vassoio sul tavolo della cucina, fra i piatti degli altri domestici.
«Vede, signor Carew, nella stipula dell’appalto sono stata definita in più punti come “professionista alle dipendenze del Duca”. È corretto?» spiegò, spostando le vettovaglie accanto a quelle dello stalliere.
Evitò di rivolgergli lo sguardo mentre parlava. Si conosceva troppo bene: se avesse scorto un minimo dissenso sarebbe scoppiata in lacrime e in quel momento era l’ultima cosa che desiderava fare. Doveva prendere in mano le redini di una situazione che stava piegando dalla parte sbagliata.
«Sì» confermò l’uomo.
«Se sono alle dipendenze, sono una dipendente. È ancora corretto?» domandò ancora, fingendo di valutare la disposizione del bicchiere sulla tavola.
«Sì» annuì di nuovo.
«Voi tutti siete alle dipendenze del Duca, vero?» s’informò.
«Sì» sibilò seccato il maggiordomo, avendo intuito ciò che stava accadendo.
«Allora, visto che siamo tutti dipendenti, cenerò con voi. Se non avete nulla in contrario» e con un enorme sforzo, cercò lo sguardo di ciascuno dei presenti, in ultimo quello di Carew.
Nessuno osò opporsi. Ang le tirò la manica, invitandola a sedere mentre le versava un po’ di vino.

***
Continuava a domandarsi se l’idea che le era balenata la sera addietro fosse stata quella giusta.
“Visto che siamo tutti dipendenti, cenerò con voi”.
Come le era venuto in mente di avanzare una simile pretesa? Non se lo spiegava. O forse sì. Da quando aveva messo piede a Villa dei Gelsi, aveva consumato i suoi pasti in quell’immenso salone al primo piano, seduta ad una tavola deserta ma capace di ospitare comodamente una ventina di commensali, con l’unica compagnia del signor Carew. Ammesso che di compagnia si potesse parlare: il maggiordomo se ne stava in piedi accanto a lei per tutto il tempo, impalato come un baccalà. Nemmeno la guardava o faceva domande sul suo operato. Si limitava a servirla senza nascondere la sua malavoglia.
A ben pensarci, Amelia cominciava a nutrire il sospetto che quello che aveva trovato nel piatto per i primi giorni, fosse stata una sua trovata. Era intimamente inorridita, fissando prima il piatto di pasta al pomodoro poi la cotoletta con le patatine che le aveva messo davanti. Buonissime, per carità, ma rappresentavano il suo incubo peggiore: menù da gita scolastica. Sperava di non aver più a che fare con simili portate. Le associava a sgradevolissimi ricordi di trasferte con compagni interessati a qualunque cosa tranne la meta della gita e docenti frustrati che li guidavano indolenti. Per non parlare delle ubriacature moleste, degli acquisti assurdi, dei danni provocati negli alberghi, poi debitamente taciuti a casa.
Ora che sedeva con il resto della servitù godeva di cibi decisamente più decorosi e di un minimo di conversazione. Tuttavia, notando la mole di piatti e tegami sporchi, sentiva il bisogno di darsi da fare per non passare da semplice ospite.
«Dovrei dare una mano in cucina» meditò fra sé, anche se non era affatto certa che gliel’avrebbero consentito.
Mettersi a fare la donna di servizio nel poco tempo libero era fuori questione: le era parso di aver udito le due domestiche borbottare irritate al suo indirizzo, quando avevano scoperto che la mattina rifaceva il letto. E comunque, il maestro di palazzo gliel’avrebbe impedito. O almeno, avrebbe criticato ogni faccenda da lei ultimata. L’aveva visto comportarsi a quel modo con le due donne che parevano tutt’altro che incapaci di portare a termine in modo doveroso i loro compiti.
«Andiamo, Amelia!» si rimproverò, sbattendo i palmi sui braccioli della poltrona. «Sei un’Archimaga, non una sguattera! Anche se quello godrebbe un mondo nel darti il tormento da mattina a sera per come usi lo straccio»
Tornò a concentrarsi sulle pagine ingiallite del cabreo.
«Hai fatto la servetta troppo a lungo e per gente che non lo meritava, per continuare a comportarti così anche ora! Sei un’Archimaga? Sì! E allora, atteggiati come tale! Ringrazia, sii educata, ma fai del tuo e non degli altri!» ribadì con quanta più fermezza poteva.
Quell’iniezione d’amor proprio le permise di riprendere con molta attenzione la lettura del documento. In quel punto si faceva cenno ad un Libro Mastro in cui erano contenuti gli Incantesimi Fondativi della dimora e quelli impiegati successivamente, a partire dai più antichi, datati intorno al 1523, a quelli più recenti. Era curioso che se ne accennasse in una raccolta di lettere risalente a più di due secoli dopo la posa della prima pietra. Evidentemente, la reale natura dell’edificio non doveva essere stata taciuta a dovere nei dintorni, cosa cui si era posto rimedio successivamente. Non si trattava di un episodio isolato: nella maggior parte dei casi i maghi o le streghe erano stati personaggi ben noti alle comunità, ricchi possidenti i cui poteri erano conosciuti da chiunque. Nasconderli sarebbe stato inutile.
Ripensò a quando da bambina immaginava le dimore di queste figure come grandi e tetri castelli, con tetti cadenti, muri incrostati di ragnatele, pipistrelli in soffitta e cantine traboccanti di draghi. In realtà nessuno stregone degno di quel nome si sarebbe mai azzardato a vivere in topaie del genere. Piuttosto un monolocale in un’anonima periferia! Ma mai e poi mai, in un luogo così malconcio e cadente da mettere a repentaglio la sicurezza degli strumenti e degli ingredienti magici. Sarebbe stato da sconsiderati! Le fiabe nel cui sfondo si scorgevano castelli stregati erano nate per impaurire per primi i figli dei maghi. Il professor Martini ne sapeva qualcosa. Era una sorta di ricatto morale: se fossero andati a vivere in un posto del genere sarebbero stati additati come dei falliti e non avrebbero meritato di far parte della comunità dei maghi. Il mago rispettabile possedeva una dimora dignitosa.
Levò gli occhi sulle scansie, in cerca del Libro Mastro. A quel punto, studiarlo era fondamentale quanto rilevare l’edificio.
«Forse c’è qualcosa sui sigilli» pensò.
Ne aveva trovati cinque fino a quel momento, tutti posizionati all’esterno del muro a sud. Quattro erano di pietra, di chiara fattura stregonesca. Erano tondi, delle dimensioni di un palmo e coperti da fitte incisioni che mantenevano attivi i sortilegi. Recavano tutti la data 1669, anno in cui dovevano essere stati aggiunti i due corpi anteriori con le cucine, i locali per i domestici ed il grande cancello d’ingresso. Ma il quinto era diverso: completamente liscio, di un metallo simile al bronzo e posizionato fuori dall’asse che i primi creavano tra di loro. Doveva essere stato posato con la faccia incisa nel terreno. Un’operazione insolita che, per quanto ne sapeva, veniva eseguita solo per i sigilli infranti, anche se questo non ne aveva l’aspetto né le caratteristiche. Il granato che usava per rilevare le protezioni incantate aveva preso a vorticare furiosamente prima ancora di toccarne la superficie. Era attivo. Molto strano. Aveva bisogno di fare un paio di test per comprendere la natura del manufatto e della stregoneria che racchiudeva: quando si aveva a che fare con oggetti magici si poteva scambiare per oro il carbone.
Fece scorrere le pagine, in cerca delle tavole illustrate. C’era una raccolta piuttosto corposa di immagini della villa e dei suoi dintorni. Una in particolare l’aveva colpita. Il palazzo compariva in una vista a volo d’uccello, impensabile per l’epoca indicata a margine del foglio: 1587. Chi l’aveva realizzata doveva essersi servito di uno Specchio Divinatorio o forse di uno Spiritello dell’Aria. Nel grande foglio, la villa ruotava lentamente su sé stessa, mostrando la  mole compatta e quadrilatera che possedeva in origine, sopra cui svettava la torre della colombaia. Non c’era traccia degli avancorpi, del giardino a nord o del casamento addossato al lato est. Solo un massiccio, austero monolito dai tetti di tegole, circondato da antiche querce.

***

«Avevate freddo?» domandò Francesca perplessa.
La serva sedeva di fronte ad Amelia con una brioche mezza affogata nel caffèlatte e lo sguardo incredulo. Eccezion fatta per Ang, nessuno le dava del tu come aveva tentato di chiedere in più occasioni. Questo la metteva leggermente a disagio, si sentiva un’appendice estranea al gruppo. Estranea e non ben accetta. Di sicuro non era il modo migliore per cominciare una convivenza.
«Sì, lo so, è assurdo» ammise. «È il mese di giugno e tremavo come se fosse gennaio»
«Avresti dovuto chiamarmi, sarei venuto volentieri a scaldarti» ammiccò lo stalliere, dandole di gomito.
L’Archimaga chinò un poco il capo, arrossendo e sorridendo divertita. Quelle avances spudorate andavano avanti già da qualche giorno e se da un lato la mettevano in difficoltà, dall’altro la lusingavano: pur avendo avuto altri ragazzi in passato, nessuno di loro ci aveva mai provato con lei a quel modo. La faceva ridere, consentendole di dimenticare quel velo d’ansia che la situazione le procurava. E in qualche modo, era certa che quegli occhi nerissimi, sapessero sempre quando far capolino da dietro una porta o un cespuglio.
«Giovanotto, sii più educato con la signorina» lo redarguì Romilda passando alle sue spalle e allungandogli uno schiaffo sulla nuca, attutito dalla folta chioma bionda.
«Sto scherzando, nonna» sghignazzò massaggiandosi il collo e soggiunse a bassa voce, così che solo l’interessata potesse udirlo. «Non più di tanto però. Ti saresti svegliata benissimo e al calduccio»
«Dai, Ang, smettila» si schermì lei, ormai paonazza.
Il giovane non proseguì, tornando alle pagine dell’inserto sportivo. C’era un limite oltre il quale lampi accecanti si diramavano dalla sua aura guizzando nell’aria. Limite che stava imparando a riconoscere procedendo per tentativi. Eppure quelle sfumature rosate erano sempre là, in attesa di sbocciare.
Calmata l’agitazione che l’aveva invasa con diverse sorsate di latte e miele, Amelia tornò a pensare a quell’intenso brivido di freddo provato durante la notte. Un freddo gelido e penetrante, che l’aveva toccata con insistenza costringendola a svegliarsi. Sì, perché quella sensazione le era parsa molto simile ad un dito che le tamburellava con insistenza sulla spalla. Quando si era messa a sedere, cercando nella camera la fonte di quel gelo improvviso, non aveva scorto nulla. Solo un fruscio, proveniente dal corridoio. Si era affacciata, ma ogni cosa era immersa nell’oscurità più fitta. A malapena aveva distinto le strombature delle finestre che si aprivano sul lato opposto del passaggio.
Villa dei Gelsi, di notte, era una grande macchia d’inchiostro dove i muri emergevano pallidi un attimo prima di sbatterci contro.
«Hai sentito cos’ha detto Amelia?» chiese Ang a bassa voce mentre uscivano dalla cucina.
Jarvis non rispose, lo sguardo torvo perso sulle linee della berlina che occhieggiava dalla rimessa.
«Strano che non l’abbia fatta svegliare di soprassalto. Di solito lo fa»
«Le ho detto io di non farlo» ammise atono.
Ang si fermò, scrutando l’uomo camminare nella ghiaia.
«Per quanto credi che ti darà retta, Jarv? Obbedire non è il suo forte»
Lui si girò appena, aggiustando il risvolto della giacca.
«Lo farà»
Esternazione che abitualmente non avrebbe ammesso repliche.
«Jarvis, non lo farà. Non l’ha mai fatto!» esclamò raggiungendolo e riprendendo a camminare al suo fianco.
Passarono sotto le fronde dei gelsi, che cominciavano a gettare ombre dense sull’erba ancora umida delle aiuole.
«Dovremmo dire ad Amelia dell’inquilina» propose, appoggiandosi all’enorme pilastro.
Il maggiordomo intanto armeggiava con il lucchetto del cancello. La grossa serratura era ricoperta di simboli e complicati intrecci di linee.
«Non è necessario» rispose assorto mentre le sue dita toccavano la chiusura in una sequenza nota a lui solo.
Ogni sera ed ogni mattina, seguendo l’affacciarsi dell’astro di Apollo, era sua l’incombenza di sciogliere o ricreare il sigillo a protezione della dimora.
Con uno stridio rugginoso, i meccanismi nascosti presero a scorrere, liberando gli alti battenti che si aprirono sulla campagna.
«A volte penso che tu lo stia facendo di proposito per farle prendere un accidente e vederla andar via a gambe levate» l’accusò pacato, grattando via un po’ di muschio dall’intonaco. «Anche se dubito ti darà questa soddisfazione. Tiene molto a questo lavoro»
«Per questo motivo è qui» ribatté, controllando uno dei cardini che sembrava instabile. «Sistemalo»
Ang diede solo una rapida occhiata al perno macchiato di ruggine. Sapeva che in quelle parole c’erano solo tre cose: un ordine, una bugia e un briciolo di verità. Queste ultime mescolate in maniera tale da non poter essere scisse.
«Il Duca non sarà entusiasta del tuo operato, ricordatelo. È lui che decide ed è lui che l’ha voluta. Dovresti cercare di essere più accomodante, anche se non ti piace e preferiresti saperla da un’altra parte. E dovresti anche cominciare a parlarle, magari. Sarebbe un miglioramento consistente» suggerì.
Jarvis lo fissò a lungo, inespressivo fra i lunghi capelli bruno scuri che ricadevano ai lati del viso. Qualunque pensiero elaborassero le sue meningi, nulla traspariva all’interlocutore. Era immobile come una statua, praticamente privo di respiro. Poi, con noncuranza, prese a sistemare uno dei guanti.
«Sella un cavallo. Esco»


Ringrazio molto chi sta leggendo questa storia, primi fra tutti Gaea e Emrys che mi hanno recensita. Aspetto commenti!
Per Emrys: i personaggi sono diversi, come avrai notato, e ognuno ha delle particolarità. Effettivamente Jarvis e Ang sono un po' agli antipodi, ma avrai modo di valutarli emglio in seguito. Grazie mille per tutte le altre recensioni!
Per Gaea: non preoccuparti, la storia è lunga ed avrai tempo di darmi i tuoi pareri in maniera più completa.
 

   
 
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