Capitolo extra [mentre Sam è ancora in viaggio]
Laura
Suppongo che ora vi starete chiedendo il perché,
no?
Direi che è una domanda più che dovuta e quasi
scontata, ve la concedo senza troppi problemi. Anzi, è lecita.
Sicuramente anche voi avrete condannato la mia
scelta, avrete pensato o che amica infingarda, che schifo, che
ribrezzo. Tutto normale, ma per favore,
state a sentire qui.
Credo che per farvi capire al meglio le mie
ragioni dobbiamo fare una digressione, più o meno di due settimane. Ora, se
penso all'idea di due settimane, mi viene da ridere.
Non appena arrivai a Volterra capii che Aro
avrebbe giocato sporco; lo sapevo da prima di partire e perciò non mi sconvolsi
di niente né mi offesi per alcuni suoi atteggiamenti.
La prima sera che rimasi lì non dormii: il jet leg
aveva completamente sballato i miei orari biologici e l'eccitazione era così
prepotente e presente nel mio corpo che mi rifiutai di chiudere gli occhi.
Lui protestò per un po', se non fosse stato per la
sua natura di “gentiluomo” mi avrebbe messo a forza a letto, ma alla fine
dovette arrendersi all'evidenza dei fatti: dormire era l'ultimo dei miei
pensieri.
La camera dove alloggiavo aveva un piccolo bagno
attinente, mi spiegò che era una delle poche a possederlo o, per lo meno, a
possedere anche un water e non solo una vasca da bagno. Mi spiegò che erano
presenti delle terme, nei sotterranei. Mi disse molte altre cose, ma ora non le
ricordo; probabilmente neanche le stetti a sentire, ero così emozionata che
tutto mi sembrava superfluo.
Camminando per la stanza notai la cura con la
quale era stata arredata: il letto enorme, dalle coperte soffici e profumate,
l'armadio d'epoca, accanto alla finestra, con le ante possenti e la parete di
fronte alla porta del bagno, con una magnifica libreria.
I dorsi dei volumi erano tutti tremendamente
antichi: di cuoio o di pelle colorata, conservavano i titoli dorati, anche se
alcuni erano sbiaditi. Erano per la maggior parte in italiano, ma alcuni, come
potei notare, erano o latini o francesi o inglesi. In tutta quell'antichità ci
furono dei libri che catturarono la mia attenzione: edizione economica,
industriali, moderni. Andavano a cozzare tremendamente con quell'ambiente,
risultavano... sgraziati.
Mi volti e lo fissai negli occhi, che poco a poco
si scurivano.
-Allora?- mi domandò, gentilmente.
Gli indicai con un indice i testi e lui scoppiò a
ridere, si avvicinò a me e mi sistemò meglio i capelli, con quelle mani gelide e
delicate allo stesso tempo.
Pensai che avrebbe potuto uccidermi solo
volendolo, con un gesto secco farmi morire, bere il mio sangue e poi lasciar
cadere il mio corpo inerme. Magari calpestarlo in un moto di stizza. Sì, sarebbe
stato da lui.
-No, non lo farei mai- mugugnò, quasi offeso.
Sorrisi, flebilmente e lo guardai di nuovo.
-Che mi significano questi libri?- domandai, non
nascondendo una certa curiosità.
-Oh, lo sapevo che li avresti notati- commentò, la
voce si tinse di soddisfazione e osservai la mano lunga e affusolata prenderne
uno avvicinandoselo.
La pelle era innaturalmente liscia e in un primo
momento poteva dare quell'impressione di più strati sovrapposti, con un'attenta
osservazione, però, si potevano notare perfino le piccole vene secche, e
rendersi conti di quanto fosse compatta.
-Saga terribilmente avvincente, non se ne trovano
molte in giro di questi tempi- sorrise e mi guardò.
Anne Rice, signora delle tenebre.
Alzai un sopracciglio e dissi: -anche mio figlio
la pensa come te, non conserva molta fiducia nella modernità-
-Saggio ragazzo- rise lui, poi ripose il libro e
disse.
-So che ti piacciono e ho voluto procurarteli...-
iniziò.
-Mezzi di persuasione, vero?- lo fermai,
guardandolo intensamente. Sorpreso non poté trattenere un'espressione stupita,
distendendo il viso terribilmente pallido, dall'aspetto malato.
Le occhiaie sotto gli occhi erano ancora più scure
e gli occhi ormai si avvicinavano al nero.
Scosse la testa, divertito e si chinò su di me. Mi
sfiorò l'orecchio con le labbra piene e gelide, sussurrando all'orecchio:
-riuscirò mai a stupirti?-
Mi gelai e all'istante, nel mio cervello, si
proiettarono migliaia di immagini di me e la mia famiglia.
Embry, Embry, Embry.
Cosa stavo facendo?
-Suppongo sia un sì- sviai la
sua domanda, che aveva assunto dei toni troppo spinti per la mia mente e lo
guardai di nuovo.
-Sai bene che sono più che
decisa della mia scelta. Ho passato quasi vent'anni a vedere i pro e contro di
una tale decisione...-
-Sei tremendamente matematica-
rise, scostandosi e sedendosi su una poltrona. Era antica e scricchiolò un poco
sotto al suo peso.
-E sai bene che non mi tirerò
indietro- conclusi, continuando a guardarlo con attenzione.
Mi sorrise e annuì,
compiacente.
-Lo so. Lo so bene-
Sospirai e mi avvicinai,
sedendomi sul letto. La stanchezza che avevo non mi permetteva comunque di
stendermi e chiudere gli occhi, avrei di sicuro perso tantissimo tempo nel
rimuginare.
Mi tirai su i capelli,
sospirando.
Lo vidi tendersi e portarsi
una mano alla bocca con un gesto così veloce che non lo avvertii se non
concluso. Inarcai le sopracciglia e feci per parlare, ma lui alzò un'altra mano,
facendomi segno di tacere. Obbedii e rimasi a fissarlo.
Aveva smesso di respirare, lo
vidi alzarsi e chinare leggermente la testa, visibilmente irritato.
-Perdonami... non posso
rimanere...-
Non risposi e continuai a
fissarlo. Il mio odore. Dovevo immaginarlo.
Annuii, facendogli intendere
che lo capivo e che non doveva preoccuparsi. Scocciato uscì, borbottando
qualcosa contro di sé.
Lasciai vagare lo sguardo per
un po', finché alle sei del mattino, come indicava un pendolo accanto
all'armadio, non crollai.
Sognai i miei figli quella
notte e mi ripetei che tutto questo lo facevo per loro. Anche per loro.
Aro venne da me la notte dopo.
Avevo ormai preso degli orari assurdi, ma non avevo la benché minima voglia di
modificarli. Gli occhi erano così accesi che quasi mi spaventarono: doveva aver
cacciato molto.
-Scusami per ieri: duemila
anni e ancora non riesco a sopportare un odore- commentò acido.
Sorrisi e gli dissi che non mi
importava, e che conoscendomi io non avrei resistito. La battuta non gli piacque
e mi lanciò un'occhiata tremenda.
-Dovrai resistere. Ricorda che
creare neonati è sempre una presa di responsabilità. Diventare vampiro è una
presa di responsabilità- rettificò, si sedette nuovamente sulla stessa poltrona
e capii che di sicuro quella era la sa preferita e che probabilmente l'aveva
fatta portare lì da qualche suo studio, tanto ci si trovava a suo agio.
-Scherzavo, Aro. Lo sai meglio
di me che userò tutta la mia forza per concentrarmi- risposi, leggermente
irritata.
Lui mi guardò, poi rise e
allungò una mano verso di me. Sospirai e gli porsi la mia. La strinse
delicatamente, poi ne baciò il dorso. Mi guardò con occhi più affettuosi e
dolci, mormorando: -perdona anche il mio modo di fare, mi scordo di quanto possa
risultare brusco, a volte-
-Ti facevo più gentiluomo-
scherzai, sedendomi sul bracciolo e fissandolo.
Rise, una risata leggera e
ammaliante, dovetti sbattere più volte gli occhi per non cadere in trance.
-Con te mi lascio andare
troppo spesso, è un gran peccato- sospirò.
Gli sorrisi e gli spostai una
ciocca di capelli dal viso. Il volto freddo e perfetto sembrava quello di un
angelo di Michelangelo o, più precisamente, quello di qualche infernale diavolo
di Caravaggio. Sì, più oscuro.
-O una gran fortuna, sei
sincero... non è cosa da poco- ritirai la mano e rimasi in silenzio.
Lui sorrise a quelle parole e
annuì. Poi mi guardò e disse: -pensavo di trasformarti la prossima settimana. Ci
saranno meno guardie, meno scandalo- iniziò.
Lo stabilire la data rese la
cosa ancora più concreta e perciò trasalii, quasi realizzando in quel momento la
gravità dell'azione.
Inarcò un sopracciglio sottile
e perfetto, studiandomi.
-Laura?-
Mi alzai, come se la sua
presenza mi facesse male, come se all'improvviso la sua pelle fosse diventata
bollente e io ne fossi rimasta bruciata. Lo guardai per un attimo e gli diedi le
spalle.
-Tu perché lo fai?- domandai,
sentivo la voce che si modulava a suo piacimento, facendogli notare ogni mio
singolo umore. Pensai, nello stesso tempo, che ormai doveva essere tanto esperto
che voce o no, avrebbe comunque capito il mio stato d'animo.
-Che domanda... stupida, se
permetti- commentò, inacidendosi un poco. Non mi voltai, non ne ebbi il
coraggio; ripetei nuovamente la domanda e lui sospirò.
Nonostante ormai fossi adulta
e che probabilmente lui risultava quasi più giovane di me, mi sentivo a disagio.
Avvertivo ogni singolo anno, esperienza, situazione che ci rendeva
differenti.
E, come sempre, mi sentii
debole.
Così dannatamente umana.
-Non volevi, cosa ti ha fatto
cambiare idea, Aro?- questa volta lo guardai, passandomi una mano nei capelli a
disagio.
-Sai bene perché non
volevo...-
-No, non lo so affatto. Non mi
hai mai spiegato il perché. E, sinceramente, non capisco neanche quale possa
essere. Potrò comunque vedere il sole, stare con i miei figli, con mio marito,
fare una vita completamente normale- parlavo concitata, non fermandomi sulle
parole, facendomi travolgere da quel discorso che da anni volevo affrontare con
lui. Non su sterile carta, ma faccia a faccia. Osservandolo, cercando di
capire.
-Quindi per te uccidere uomini
per nutrirti sarebbe normale?- iniziò a parlare lento, guardandosi le
unghie così particolari. Sembravano risplendere, lucenti, era la prima volta che
le notavo così, lo fissai stranita.
-Ho scordato di metterci sopra
della cenere... sono così fastidiose alla vista- storse il naso, aprendo e
chiudendo subito quella piccola parentesi. -Allora. Questa normalità?-
Lo inchiodai con gli occhi e
dissi, seria: -sai bene che non ucciderò nessun uomo. Lo sai.- scandii le ultime
due parole quasi con rabbia. Lui scosse la testa tra di sé, come un genitore
troppo paziente.
-Laura, quando verrai
trasformata dubito fortemente che riuscirai a pensare con tanta lucidità...
siamo in pochi a...-
-Tu ci sei riuscito, no?-
tagliai corto, avvicinandomi e serrandolo alla poltrona. Gli occhi gli
brillarono, estasiati: le mie azioni, i miei modi di fare gli piacevano, me lo
aveva sempre detto.
-Sì, ma non siamo tutti
uguali- il tono era basso, quasi non lo sentii.
-Non ho mai fallito in nulla,
Aro- commentai acida, allontanandomi.
-Vorrei correggerti e
ricordarti in quale situazione ci incontrammo- ridacchio, quella risata
argentina, che allo stesso tempo mi affascinava e raccapricciava.
-Non lavoravo da sola-
ribattei subito, ma la sola idea di quel lontano giorno mi aveva messo addosso
un'ansia e una tristezza improvvisa. Scacciai subito dalla testa quei ricordi e
gli risposi.
-Aro, non mangerò umani, a
costo di passare i prossimi cento anni in Siberia-
-Neanche una volta?- si chinò
in avanti, afferrandomi delicatamente per un polso, costringendomi di nuovo a
sedermi sulle sue gambe. Smaniai un poco, ma non opposi vera e propria
resistenza.
Sospirai e lo guardai
stancamente.
-No. Lo devo a mio marito e
alla mia famiglia. Lo faccio per loro- conclusi decisa.
Sorrise e mi prese le mani tra
le sue, iniziò a giocarci con movimenti lenti. Sembrava deliziato dalle mie
dita, quelle dita che tanto odiavo. Passò l'indice sulle piccole fossette che si
venivano a creare all'altezza delle nocche.
-Sei curiosa tanto quanto me-
mormorò.
Deglutii e sospirai: -non mi
interessa sapere il gusto del sangue- la voce mi tremava e io stessa non ero
sicura della mia risposta.
-Non è una questione di
sapore, Laura e tu lo sai bene. SI tratta di sensazioni, è ben diverso.
C'è gente che ucciderebbe per
provare l'estasi di una sorsata, gente che crede in noi, ovviamente- aggiunse
con fare saccente, quasi divertito dall'idea.
-Non io, Aro- sussurrai,
facendo per alzarmi, scossa da quella conversazione.
Riusciva sempre a demolire
tutto, lo fissai in piedi e sentii un pizzicorio agli occhi. Dovevo
piangere.
-Aro, ho una famiglia e... e
tutto questo lo faccio per l'egoistica pretesa di rimanere con loro; di non
diventare cenere, di non... di non far sì che io sia lasciata indietro. I miei
figli, se vorranno, potranno vivere in eterno, così mio marito. Perché io non
potrei?-
Tremavo di rabbia, e mi resi
conto che iniziai a piangere copiosamente, eppure lui non si alzò. Continuò a
guardami, l'attenzione rivolta alle mie lacrime.
-Non potrai piangere- mormorò
sottovoce -tuo marito ti troverà gelida e fredda nel suo letto; detesterai
l'odore dei tuoi figli, la tua piccola casa, il tuo lavoro... quello sì che
diventerà cenere. Morirai nel preciso istante in cui il mio veleno entrerà nelle
tue vene. Non sarai tu a svanire, ma tutto il resto-
Si era alzato e mi fissava, la
voce si era addolcita, perdendo l'asprezza iniziale e ora mi sfiorava una
guancia, asciugando le lacrime.
Mi chiesi perché non si
gelassero sulle sue mani.
Quando ero con lui mi ponevo
molte domande stupide.
-Io non voglio diventare
cenere- sussurrai.
Credo che in fin dei conti
l'immortalità ruoti intorno a questo desiderio incostante di esistere. Con tutti
i mezzi; si può giocare sporco o pulito, ma il fine è sempre lo stesso: la
vita.
-E' per questo che ti
trasformerò- si era chinato e mi disse ciò all'orecchio, con voce soave e
completamente priva di artefici.
Mi baciò il collo e si ritirò
su. Mi sorride e uscì, lasciandomi sola.
Eppure, senza dire nulla mi
aveva posto la domanda cruciale: fino a dove arrivava la mia famiglia?
I giorni seguenti non disse
nient'altro. Si rivelò l'amabile ospite che voleva essere; mi portò ogni sera a
cena fuori, scordando quasi il suo ruolo di regnante e sollevando la curiosità
comune.
Mi ritrovai perfino Marcus in
camera un pomeriggio. Non disse nulla, semplicemente mi studiò, uscendo dopo
circa un'ora, con la faccia stralunata.
Quella settimana passò troppo
in fretta o troppo lentamente. Le notti le passai insonni, nonostante
desiderassi a tutti i costi dormire. Mi resi conto che i sogni mi sarebbero
mancati nella mia nuova vita.
Più volte fui tentata di
chiamare i miei figli ed Embry, ma sapevo bene che farlo avrebbe significato la
fine di ogni mio piano.
Sapevo che Abraham avrebbe
capito più di tutti, i gemelli erano di vedute così aperte che non costituivano
un problema... ma Embry. Oh, Embry era la grande incognita di tutto quel
carosello che avevo costruito.
Non sapevo in che modo avrebbe
preso la mia decisione, se l'imprinting sarebbe stato abbastanza potente per
fargli scordare la mia situazione o se, al contrario, ogni mia scelta sarebbe
stata da lui condannata.
Per di più la lontananza
aveva, in qualche modo, allentato quella stretta amorosa nella quale per anni
ero vissuta.
L'imprinting non è un obbligo
al matrimonio, questo credo sia chiaro. E' bensì l'attaccamento di uno a un
altro, ma non obbligatoriamente viceversa.
Si ricambia perché si vuole,
non perché si è obbligati da qualche legge naturale.
E io, che sin dal principio
avevo trovato qualche problema nell'integrami all'interno di questo schema, ora
che non avevo più il suo sguardo unico e speciale a fissarmi... mi sentivo più
libera.
Mi resi conto che la
trasformazione avrebbe dato inizio a una nuova concezione dell'imprinting da
parte mia e che quell'affetto smisurato che in tutti quegli anni avevo provato
per Embry stava sbiadendo, con la semplice lontananza.
Lo amavo, lo avevo amato con
tutta me stessa, ma mi rendevo anche conto che era qualcosa indirizzato e
pilotato, poco... naturale.
Aro, inoltre, aveva subito
carpito questi miei pensieri e non faceva che gettare benzina sul fuoco.
Come a sedici anni avevo dubbi
esistenziali, della stessa gravità e importanza, solo che questa volta ci
andavano in mezzo tre figli.
Era venerdì sera quando Aro
entrò in camera, ben vestito. Si era concesso una camicia bianca senza cravatta
e un paio di pantaloni di cotone neri; potei notare che, come sempre, indossava
un piccolo accessorio color porpora, in questa occasione si trattava di un paio
di gemelli. Due minuscoli rubini, che potrei giurare avessero il valore dello
stipendio annuale di un normale essere umano.
Gli sorrisi, ero seduta
davanti al tavolo da toletta. Era un oggetto che a casa non possedevo -andavo
sempre così di corsa!-, ma del quale ero rimasta affascinata.
Continuavo a scrutarmi in
continuazione, sfiorandomi la fronte, solcata da leggere rughe.
Mi domandavo se sarebbero
rimaste o se il suo veleno mi avrebbe concesso un piccolo lavoro di chirurgia
plastica. Si avvicinò e fece scivolare le mani sulle mie palpebre, obbligando a
chiudere gli occhi.
Sorrisi flebilmente e lo
lasciai fare, sentendo cadere in mezzo ai seni un pesante ciondolo. Quando fui
di nuovo libera di guardare abbassai lo sguardo e presi quel magnifico
gioiello.
Era un medaglione piuttosto
grande; tondo e di oro puro, così brillante da sembrare falso. Era ruvido,
probabilmente non lavorato dai moderni orafi, ma di più antica fattura. Potei
notare i classici lavori dell'arte etrusca e lo guardai interrogativa.
-Sulpicia non l'ha mai
apprezzato, ma a me è sempre piaciuto- mi spiegò -mi perdonerai se ho
“riciclato” questo dono-
Scossi la testa e lo guardai,
poi fissai di nuovo il medaglione e sorrisi entusiasta. Mi alzai e lo abbracciai
con tutta me stessa, posando le labbra sul suo collo, così tremendamente
freddo.
Si gelò, immobilizzandosi.
Deglutì e fece scivolare le dita magre tra i miei ricci, sempre scomposti e
indomabili.
Lo avvertii accarezzarmi la
testa delicatamente, impicciandosi con i boccoli e sorridendo.
-Mi piacciono tremendamente-
commentò sottovoce, con dolcezza.
Sorrisi e mi scostai.
-Grazie mille, mi piace
tantissimo- volevo continuare la frase, aggiungendo quanto la moglie fosse
stupida a non gradire un regalo del genere.
Lui capì e scoppiò a ridere,
tirò fuori dal taschino della camicia un paio di occhiali da sole, il modello
d'aviatore, e li indosso con eleganza unica.
-Glielo regalai in seguito
all'ennesimo tradimento. Tentò di strozzarmici- ironizzò, aprendo la porta. Io
ero andata a infilarmi le scarpe, lo guardai stralunata, e trattenni le
risate.
-Strozzarti?-
-Oh, sì. E ci era quasi
riuscita. Se non fossi immortale ora come ora sarei morto un migliaio di volte
in seguito a tutti gli attentati da parte di mia moglie- si poggiò allo stipite,
mantenendo spalancata la porta.
-Smetterai di tradirla?- risi,
superandolo e aspettandolo poi. Mi raggiunse e con sguardo furbo mi fissò per un
poco.
-Dubito. Se veramente diverrai
immortale, dubito fortemente- ridacchiò, lasciando in sospeso quella questione,
e facendomi sospirare profondamente.
Chissà se Embry avrebbe
cercato di strozzarmi con il laccio della macchinetta fotografica.
Aro guidava da dio. O
meglio... la macchina che guidava era qualcosa di favoloso. Le strade della
campagna a quell'ora erano praticamente deserte e lui poteva scivolare
tranquillamente, semplicemente sfiorando il volante dell'auto sportiva.
Avevamo mangiato in un piccolo
borgo lì vicino, diceva che la maggior parte dei turisti italiani ci passava
almeno una volta prima di finire a Volterra.
Solo dopo qualche ora mi resi
conto di quanto fosse tremendo quello che aveva detto.
Aro non mangiò nulla né
l'ordinò. Rimase a fissarmi compostamente, intavolando discussioni interessanti
e che più volte mi fecero scordare il resto del mondo.
Stando con lui, dimenticando
la sua natura di regnante e assassino senza scrupoli, mi sentivo nuovamente me
stessa. Approfondivo argomenti che da sempre mi interessavano, parlavo
liberamente, potevo sentire le sue idee così articolate e solide.
Aro, era innegabile come cosa,
era la mia anima complementare.
Certo il fatto che a volte
uccidesse unicamente per divertimento era una cosa piuttosto... inquietante, ma
non mi importava.
In quel momento non mi
importava più nulla.
Desideravo stare con lui. Con
lui e basta. Provavo questa voglia di stare in sua compagnia, sentirlo parlare,
vederlo gesticolare con eleganza mentre mi spiegava antiche e nuove teorie.
Per la prima volta dopo tempo
scordai Embry.
Aro mi chiese dei miei figli e
si interessò molto ad Abrahaam e al suo modo di fare. Era affascinato dai suoi
comportamenti, questo me lo scriveva anche nelle lettere, e rimasi piacevolmente
stupita nel vederlo completamente assorto nelle mie parole.
Lo interessavo. Io interessavo
una mente volubile ed estremamente portata per l'annoiarsi come la sua.
Passando il tempo con lui,
seguendolo anche nella sala maggiore, potei notare alcune piccolezze che mi
resero facile il capire quando era sincero e quando no.
Quando era sincero era serio,
tremendamente serio e calmo. Il viso era disteso e poteva suggerire quasi
severità e fastidio, ma più volte mi assicurò che non era affatto così,
semplicemente, disse scherzando, doveva far riposare i muscoli.
Ritornammo nella mia camera
che era ormai notte inoltrata, mi sedetti pesantemente sul letto e mi buttai
giù, sorridendo.
Ero stanca ma tremendamente
felice. Il pensiero del mio egoismo mi aveva abbandonato per tutta la serata e
per la prima volta dopo giorni mi sentii leggera, senza preoccupazioni.
Pensai che Abraham mi avrebbe
sostenuto, che i gemelli avrebbero riso della cosa e che Embry mi avrebbe
capito. Che avrebbe capito che tutto ciò ci avrebbe reso più felici.
Avvertii il letto abbassarsi
ancora un po': Aro si era seduto accanto a me. Fece scivolare una mano sulla
mia, ma si bloccò; la ritirò e sussurrò: -mi puoi dire cosa stai pensando?-
Rimasi stupita da quella
richiesta, ma gli spiegai tutto e lui sorrise tra sé.
-Mi dispiacerà quando te ne
andrai, queste mura diventeranno nuovamente noiose e grige. Proverò di nuovo
invidia per tuo marito e ti continuerò a scrivere chiedendoti perché hai scelto
quel luogo umido e privo di vita, anziché queste solari colline-
Capii tutto d'un tratto che,
in tutti quegli anni, nelle sue lettere, aveva inteso altro.
Lui mi voleva. Aveva
scavalcato quel ricordo di Didyme, e era riuscito a focalizzarsi unicamente su
di me. Senza secondi fini, voleva me.
-Perché ho scelto lui invece
che te, vero?- mormorai, tirandomi su, con uno scatto di agitazione.
Logicamente avevo accarezzato
l'idea di noi due, devo essere sincera. Ma il piccolo anello d'oro sul mio
anulare mi aveva sempre bloccato.
-Meno elegantemente...-
scherzò, la voce era un soffio, aveva chinato la testa e mi guardava.
Sorrisi a disagio e provai a
scostarmi.
Non ci riuscii: non so se fu
il suo tocco leggero sul mio viso, le mani che mi sfioravano le labbra, oppure
la mia stessa volontà di non andarmene.
Lo volevo. Volevo tutto ciò e
lo volevo per me.
Avvicinai il mio viso e sentii
la sua mano scivolare sul mio collo, delicata e finalmente baciarmi.
Il contatto con le sue labbra
mi fece rabbrividire, ma non mi spostai, anzi, presi più sicurezza e lo strinsi
a me, portando la mano tra i suoi capelli e slegandoli.
Caddero in avanti: erano
pesanti, folti e scuri. Ali di corvo, sorrisi tra me.
Mi scostai, avevo la bocca
fredda e il respiro affannato, lui mi guardò con un sorriso così tremendamente
felice da spiazzarmi.
Non riuscii a dire nulla, non
guardai nient'altro che lui, nella paura di far cadere il mio sguardo sulla
fede.
Continuai a baciarlo e
continuai a farmi sfiorare. Sembrava come se mi conoscesse, come se ogni punto
del mio corpo che veniva toccato fosse pronto a donarsi a lui.
-Sei un fiore che sta
sbocciando, Laura- mi sussurrò all'orecchio. Ormai nudi stavamo l'uno stretto
all'altra, baciandoci il collo, il petto, ovunque.
Anni di carta avevano portato
a questa necessità di contatto, come mai ne avevo avuta in tutta la mia
vita.
Risi sommessamente e mormorai:
-sono sfiorita, Aro, da qualche anno-
-Non sempre l'età porta
decadenza- soffiò al mio orecchio, portandosi su di me e iniziando a scendere
sui miei seni.
Fremetti e mi tesi, gli
sfiorai le braccia; pallide e asciutte.
Non avvertii il freddo del suo
corpo, ma solo un calore unico e prorompente.
Poi il dolore, il morso,
quella strana sensazione di estasi mentre beveva da me, quel misto di dolore e
piacere che si provava solo poche volte nella vita.
Fremeva anche lui e non si
voleva staccare. La vista mi si appannava, il soffitto a cassettoni della stanza
era sempre più sfocato e la mia voce veniva meno.
Ricordo che continuai a
sussurrare il suo nome, pregandolo di staccarsi.
-Embry, ricordati di prendere i giochi dei
gemelli- urlai, mentre chiudevo la porta.
C'era il sole a La Push, Abraham ci aspettava
composto in macchina, affondando il viso in un libro.
I lamenti di Neka e Kenai erano così acuti che
non riuscivo a capacitarmene.
C'era Aro e io gli facevo segno di andarsene,
che lo avrebbero visto i vicini. Lui scoppiò a ridere e mi rispose che i vicini
erano peggio di lui.
Uscì Sam dalla casa e mi guardò, lo sguardo
vacuo e di quel colore dorato.
Non capivo. Cosa avevo fatto.
Abbassai lo sguardo e i corpicini di Neka e
Kenai giacevano esangui tra le mie braccia.
Cosa avevo fatto?
E all'improvviso fui nuda, tentando di
coprirmi. Jake mi guardava, sconvolto e con il viso contrito.
-Cenere-
Non sapevo chi lo diceva, Aro era
sparito.
La casa bruciava. Perché?
-Cenere-
Io ero fredda, di marmo, ma tutto bruciava.
Avevo paura del fuoco.
Abaharam continuava a leggere ignaro di tutto
ciò, come isolato da tutto e tremendamente al sicuro.
-Aro, brucia- lo sussurravo
continuamente.
Avvertii la mano fredda sulla
fronte, poi le sue parole, sempre più confuse.
Infine caddi in un sonno
infernale per tre lunghi giorni.
Solo una cosa, ragazze: fatevelo bastare .-." io sto ancora tentando di rimettere in chiaro le idee. Questo capitolo enorme è opera di Laura, e spero lo commenterete almeno per dirle grazie di essersi impegnata tanto anche per aiutare me e far continuare questa storia^^
Nient'altro.
Grazie ancora a tutte voi.
Da Sam