Rieccomi! Stavolta sono stata veloce, non potete negarlo :P
Grazie per le numerose letture al primo capitolo :)
Se vorrete lasciarmi un commentino, anche piccolo, anche solo per dirmi
quanto è brutta questa FF, ve ne sarò grata e vi
risponderò!
Alla prossima FF!
Ciry
CHAPTER 2: La danza regolare di tutti i tuoi respiri su di me
In camera, Georg le aveva prestato una T-Shirt per
lei enorme, così che potesse usarla come un pigiama; sopra il letto
matrimoniale a gambe incrociate, gli era sembrata ancora più minuta di quanto non fosse in
realtà, ed era rimasto intenerito dalla premura con cui accarezzava il tessuto
di quella T-Shirt.
“Se vuoi andare per prima in bagno, fai pure” le
aveva detto “Io mi fermerò con i ragazzi qui per un po’ e volevo disfare meglio
i bagagli…”
Lei aveva tirato su i pollici con un sorriso ed era
sparita dietro la porta dopo aver congiunto le mani in segno di ringraziamento.
Dopo essersi cambiata e lavata i denti con l’aiuto
dell’indice impiastrato di dentifricio, Sophia era riuscita a togliere con
delle salviette umide il trucco dagli occhi, ma aveva deciso di non far fare la
stessa fine al fondotinta.
Non gli aveva detto niente.
Non gli aveva detto dei vetri del parabrezza che, scagliati
contro il suo viso nell’incidente, ne avevano stravolto i lineamenti.
Non gli aveva detto che non aveva mai potuto
permettersi i soldi per un’ulteriore operazione chirurgica, la seconda dopo
quella alla gola, esosa e soprattutto fallita.
Non gli aveva detto che il denaro speso per la
denuncia contro i medici era stato tanto, forse troppo persino per la sua
famiglia, che non era povera, ma neanche miliardaria.
E non avrebbe mai voluto dirgli niente di tutto
ciò.
Sarebbe stata attenta: avrebbe dormito con una mano
sotto la guancia per non macchiare il cuscino, e lui non si sarebbe accorto di
niente.
Davanti allo specchio, per un momento, il suo
riflesso lo aveva fatto innervosire.
Lo stava aspettando a casa, a Amburgo.
Si fidava ciecamente di lui, era la sua natura.
Era l’opposto di Sophia: mora, con gli occhi verdi,
come i suoi, e formosa.
Quando parlavano al telefono e lui lamentava di
essere stanco o abbattuto, lei lo tirava sempre su, dandogli mille motivi per
pensare positivo.
Era quasi fiabesca, e forse era anche per questo
che qualche mese prima ci si era messo insieme.
Gli metteva allegria. E poi era carina, molto
carina.
“Sei una merda…” si era detto.
Nessuna delle due meritava di essere ingannata.
Di lui, Georg.
Non di lui, il bassista dei Tokio Hotel.
Almeno, così sperava.
Anche se una voce, piccola e fastidiosa dentro di
lui, gli diceva di non farlo.
Ovviamente, Sophia gli aveva tirato un cuscino,
fingendosi scandalizzata e scrivendo LONDRA a caratteri cubitali sul blocchetto.
Per tutta risposta, lui aveva ribattuto, fingendosi
offeso: “E pensare che ti ho anche ospitata! Bella la tua gratitudine!”
Aveva sentito una fitta allo stomaco, come un
avvertimento, un monito, ma non ci aveva voluto far caso.
Neanche il buio quasi totale aveva permesso ai loro
sguardi di separarsi: quelli di Sophia brillavano come due lucciole, e Georg ci
si era perso dentro mentre stava sopra di lei, cercando di farla sentire a
proprio agio, chiedendole se fosse stata sicura…
Lei aveva annuito, allungando il collo per poterlo
baciare di nuovo.
La sentiva ansimare, questo sì. A ritmo accelerato.
E la poca luce arancione che, da un lampione, filtrava nella stanza, illuminava
parzialmente il suo viso.
Insolito, singolare.
L’aveva sfiorata, senza che lei avesse fatto la
minima resistenza, presa com’era dal piacere che stava provando.
E allora aveva cominciato ad intuire…
Ma non ci aveva pensato per più di qualche secondo,
perché non gli importava.
Profumava di vaniglia, il suo respiro affannoso e
lussurioso era pura goduria per le sue orecchie, i suoi occhi erano la fine del
mondo.
Era perfetta, non le mancava niente.
Le sue espressioni lo facevano impazzire: ora a
occhi chiusi, ora con le iridi puntate nelle sue, si manifestava in una
meravigliosa danza dei lineamenti, facendogli capire che era sua, che ne voleva
di più, che lo desiderava con tutta l’anima.
Anche se a malapena si conoscevano.
A nessuno dei due importava.
E dato che dopo quella notte non avrebbero più
avuto modo di incontrarsi ancora, tanto valeva sfruttare quel qualcosa al
massimo.
Perché era bello, perché li faceva sentire bene,
perché sentivano che non avrebbero mai più potuto fare una cosa del genere.
Georg aveva poi passato la notte tra il sonno e la
veglia, tra i sensi di colpa, l’incredulità e il senso di novità che lo aveva
preso alla sprovvista.
Ma non riusciva a rimproverarsi, in fondo.
Anzi, era contento che Sophia dormisse tra le sue
braccia.
Fare l’amore con lei.
Aveva pensato, fortemente convinto, che era stato
molto meglio che con la sua ragazza.
E non perché ci fosse stato quell’ormai ben noto
brivido della consapevolezza di avere un certo ascendente su una fan, una ragazzina
che per lui avrebbe smosso il mondo.
Era stato qualcos’altro.
Qualcosa che era partito anche da lui.
Perché altrimenti non avrebbe perso la testa per
lei.
“Sophia… Non m’importa di
com’è la tua faccia” le disse, continuando a stringerla a sé.
Lei si staccò
dall’abbraccio e camminò velocemente verso la camera per prendere il block
notes; dopodiché, ci scrisse sopra…
“Abbiamo quasi fuso la
penna a furia di scrivere, magari qualcuno ci ha pure scambiati per due
perfetti coglioni, però a me non è importato. Perché stavo bene, perché ero con
te e mi andavi bene così com’eri. Anche stanotte… ho fatto una cosa che non è
da me, perché io non vado in giro per il mondo per portarmi a letto la prima
che capita! Ma stanotte c’eri tu… e quando ho visto la tua faccia, non me ne è
importato niente, neanche in quel caso. Ho dormito accanto a te! Adesso mi dici
come potrei arrivare a mentirti, dopo tutto quello che è successo? A cosa mi
servirebbe? Cosa credi? Che ti abbia voluta scopare?”
Lui si arrabbiò ancora di
più: se solo avesse saputo quanto aveva pensato alla loro situazione, non
avrebbe messo il muso.
Gli occhi sbarrati di
Sophia lo fecero sprofondare dalla vergogna.
La ragazza scoppiò in
lacrime.
Il suono sordo e
innaturale di quella gola muta che non riusciva a produrre nessun tipo di
singhiozzo lo distrusse.
Georg si sdraiò subito
accanto a lei, abbracciandole il busto nonostante la sua resistenza, e cominciò
a parlarle piano all’orecchio, con la voce spezzata da un magone insostenibile…
Si calmò.
Si calmarono entrambi nel
giro di pochi lunghissimi minuti.
Sophia smise di piangere e
si voltò lentamente verso Georg, che nel frattempo non era riuscito, come lei,
a trattenere le lacrime: aveva gli occhi gonfi e lo sentiva tirare su con il
naso.
Lo fissò, immobile, come
se fosse in attesa.
Lasciò che il ragazzo sfiorasse
con le dita il suo profilo martoriato. E sospirò, chiudendo gli occhi.
Georg sentì la pelle secca
e indurita sotto i polpastrelli; seguì alcune delle tante linee irregolari che
solcavano lo zigomo; disegnò un’invisibile linea di confine che separava la
parte superiore del viso da quella inferiore, la prima un po’ più arrossata
dell’altra.
Sophia si tirò su a sedere
e scrisse, per poi mostrare la sua replica con uno sguardo confuso…
“Mi fido di quel che mi hai detto, va
bene così!” gli scrisse.
Georg annuì e tacque con
un sorriso, sollevato in un certo senso: a pensarci bene, non voleva parlare
delle sue notti brave, non con lei. Di sicuro, ci sarebbe rimasta male. E lui
non voleva farla stare male, non un’altra volta.
Georg la lasciò fare,
ormai abituato e, anzi, compiaciuto dalle sue lunghe occhiate enigmatiche e
affascinanti.
Si sorrisero. Lei appoggiò
la testa sulla sua spalla e fece schioccare un bacetto a stampo sul suo collo.
Il bassista l’abbracciò,
baciandola sulla guancia destra, senza sorridere.
La vide mangiare con molto
appetito, chiedendosi dove sarebbe andato a finire il suo pranzo, vista la sua
minuta magrezza.
Pranzarono sulla terrazza
della camera, in silenzio.
Lei era serena, lui invece
pensieroso.
Sophia annuì lentamente,
con un sorriso triste. Non scrisse niente.
Il bassista sospirò un “Mi
dispiace”, che però non la smosse.
Se gli avesse rifilato uno
schiaffo, non avrebbe protestato: se lo sarebbe meritato.
Aveva bisogno di
dirglielo, di parlargliene, di capire.
Lei lo guardava, in
attesa, tranquilla, per niente preparata.
Poi trovò il coraggio di
alzarli su di lei.
Non aveva mosso un
muscolo.
La brezza le agitava i
capelli, ma il suo viso era il ritratto della fissità.
Le labbra socchiuse, gli
occhi che lo penetravano, le mani affusolate rilassate sulla tovaglietta
americana.
Lei glielo allungò sotto
il naso.
La trovò in piedi,
appoggiata con i fianchi alla balaustra. Gli sorrideva, le braccia incrociate
sotto il seno.
Sophia lo interruppe con
un sospiro, divertita dal suo incespicare, e scrisse qualcosa sulla propria
mano per poi mostrargliela.
Ancora una volta, si
scrisse sulla mano.
Annuì, rispondendo: “Molto
poco…”
Si perse un’altra volta in
quei grandi fari scuri, fatti d’acqua per la commozione.
Si lasciò stringere e, per
la prima volta, fu lui a rifugiarsi tra le sue braccia.
Ti è
importato qualcosa di me?
Georg lesse il biglietto
e, diffidando del tassista, rispose scrivendo.
Il taxi era fermo dietro
la piccola villetta.
Con uno sguardo, Sophia
pregò Georg di accompagnarla alla porta: non voleva salutarlo di fronte ad un
estraneo.
Lui non ci pensò due
volte.
Con la chiave infilata
nella serratura, si voltò a guardarlo.
Era serena, nonostante gli
occhi lucidi.
Il ragazzo accarezzò il
suo zigomo destro, privo di trucco come il resto del viso.
D’un tratto, le staccò un
ultimo biglietto dal block notes e cominciò a scrivere. Lui la abbracciò da
dietro e lesse parola dopo parola…
Io ti ho
amato.
E non perché suoni
in un gruppo famoso.
Non
cerchiamoci mai più, ti prego.
Ti auguro
tutto il meglio.
La baciò sulla nuca.
“Sei proprio sicura?”
mormorò, sperando di avere una risposta diversa da quella che conosceva.
Sophia si voltò a
guardarlo, indicò la frase “Non
cerchiamoci mai più” e poi puntò il dito verso di lui.
“Io?” interpretò il
ragazzo.
“… Credo tu abbia ragione.
Sarà meglio per tutti e due. Sì.”
Si sorrisero, pacati.
Poi lei allungò le braccia
verso di lui e si aggrappò alla sua schiena.
Il bassista cacciò
indietro le lacrime e ricambiò l’abbraccio, incurvandosi sulla sua figura
minuscola.
Ancor prima che potesse
chiedersi come avrebbe dovuto salutarla, lei sporse scherzosamente le labbra e
chiuse gli occhi.
Sentì il suo sapore di
vaniglia per l’ultima volta, a lungo, poi la lasciò andare.
La vide sparire dietro la
porta di servizio e in taxi si lasciò andare ad un paio di lacrime, né di
tristezza, né di rimpianto.
Era felice.
Gli dispiaceva solo di non
averle potuto dire “Grazie”.
Per averlo aiutato a
capire, finalmente.
“Sei tornato!!!”
“Dimmi com’è andata,
dài!!!” lo spronò la sua ragazza, stringendogli le mani.
Non l’aveva vista per
quasi un mese.
Come poteva trattarlo in
quel modo, dopo che lui l’aveva inevitabilmente trascurata in maniera
esponenziale?
Ultimamente, per lei era
sempre stato stanco. Anche al telefono.
Per questo le loro
conversazioni erano durate poco più di cinque minuti.
Ma lei non se la prendeva
mai.
Scosse la testa e le diede
un bacio veloce prima di ribattere: “No, non sono stanco… Vieni qui…”
Era al settimo cielo, come
lei.
“Una fan?” chiese l’altra,
senza nascondere una punta di gelosia nel tono di voce.
Georg sorrise.
“Sai cosa è successo con
lei?”
“Sentiamo…”
“Mi ha chiesto
l’autografo… mi ha offerto da bere… io le ho detto di te… e lei mi ha fatto
capire che…”
“Cosa?” lo interruppe la
ragazza, tirandosi su a sedere con aria sospettosa.
“Che dovrei stare più
attento a te! Tutto qui!”
La verità, anche se
taciuta in gran parte, aveva funzionato.
Andava benissimo così.
Ma le sue labbra non sapevano di vaniglia.
THE END
I Tokio Hotel, Georg Listing compreso, non mi appartengono (magari).