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Autore: keska    05/07/2010    29 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Svitai il tappo e la prima cosa di cui mi accorsi fu l’odore copertina
 

Bella

 

La testa mi pulsava dolorosamente, proprio lì, alla base della nuca. Ma questo non era il male peggiore, affatto. Il calore opprimente e nauseante confondeva i miei pensieri, amplificava la mia angoscia, mi rendeva schiava della confusione.

Osservai attentamente i gesti di mio marito, mentre sollevava la fiaschetta argentata. Era lì la risposta ad uno dei miei mille quesiti? Come aveva potuto il professore cambiare in quel modo il suo corpo? Eppure, ora pareva essere ritornato proprio come l’avevo sempre ricordato…

Sul viso di Edward comparve una smorfia. Il naso accostato al collo della fiaschetta di arricciò.

Lo fissai, confusa, tentando di comprendere cosa avesse scoperto. Pareva essere disorientato anche lui. Mi voltai velocemente a scrutare il professor Philip.

«Cos’è?».

Strinse le labbra, guardandomi. Sollevò le sopracciglia e diresse lo sguardo nel vuoto. «Sai cosa succede se il veleno di voi vampiri entra in contatto con del sangue umano?» chiese pacato.

Mi portai una mano alla tempia, deglutendo. «L’umano si trasforma» dissi, evidenziando l’ovvio.

Scosse lentamente il capo, fermandosi per fissarmi. «Non ho detto nel caso in cui il vampiro morde l’umano. Se il veleno di vampiro entra in contatto con del sangue umano, fuori da un corpo, si ottiene ciò che è contenuto in quella boccetta».

Edward s’irrigidì sotto di me, stringendola.

Carlisle fissò Philip, a dir poco sorpreso. Di certo la sua mente lucida funzionava più velocemente della mia. «Vuole dire che si è iniettato questo composto?».

Sobbalzai, fissando Philip a bocca aperta.

Annuì con riluttanza. «É un antidito, testato da diversi secoli».

«Non si sarebbe dovuto trasformare, a questo punto?!» sbottò Emmett, stringendo Rosalie a sé.

«No, affatto» sputò il professore. «Pensavo che almeno dei vampiri fossero più svegli» borbottò, e dovette ringraziare il fatto che Rosalie fosse ben imprigionata fra le braccia di suo marito.

Mi portai entrambe le mani sul pancione, sospirando confusa. «Io… non capisco…».

Philip alleggerì la sua espressione. «Ho usato del veleno di vampiro che avevo, un dono di tanto tempo fa» mormorò, perso con gli occhi nel vuoto degli anni «bisogna mescolarci il sangue della persona a cui si intende iniettarlo. Tutto il veleno deve reagire con questo sangue, e se ne ottiene questo composto, un sangue più forte, trasformato. Quello che viene iniettato è inerte, non reagisce con l’atro sangue, tuttavia conserva la sua proprietà di guarire i tessuti. Rimane in circolo per pochi giorni, massimo una settimana».

Sussultai, e sentii le braccia di Edward stringermi a sé. Mi accarezzò la fronte calda. Mi voltai verso di lui, osservando la sua espressione. Sembrava sorpreso quanto me, pur sforzandosi di non darlo a vedere.

«É come un vaccino?» chiese Alice.

Philip si voltò verso di lei. «In senso molto lato, ma si. Neutralizza la funzione primaria, mantenendo quella secondaria, o indiretta. Ovviamente non mancano gli aspetti negativi».

«Aspetti negativi?» chiese ancora Carlisle, estremamente attento.

«Li può facilmente immaginare, dottore. L’effetto è solo temporaneo, finché il sangue non viene smaltito. E bisogna avere una perfetta precisione nelle dosi, per evitare di avere effetti indesiderati. Produce… conseguenze estremamente imprevedibili. E malgrado guarisca alcuni organi e tessuti, ne danneggia altri. Fegato, milza, reni…».

Gli occhi di mio suocero si strinsero. «Certo, capisco» fece compassato.

Come avrei voluto dire lo stesso anch’io. Capisco, certo, è tutto chiaro. Niente, niente era chiaro nella mia testa in quel momento. Fosse stata solo una la domanda senza risposta, solo uno il problema non risolto.

Mi accarezzai il pancione, stanca e confusa.

Edward mi strinse più forte da dietro la schiena. «Vuoi andare a riposare?».

«No» mormorai, voltandomi e stringendomi a lui. Avevo la nausea, e un senso di bruciore alla gola. Sicuramente stare coricata non avrebbe giovato, affatto, e finché non avessi chiarito ogni cosa non sarei mai stata in pace. Volevo sapere, tutto.

Quello che il professore aveva sempre saputo e aveva scelto di non dirmi. Non lo biasimavo, non totalmente, perché sapevo e sentivo che l’aveva fatto con le migliori intenzioni. Ma come avevo potuto rimanere allo scuro di tutto quello che succedeva? Di tutto quello che stava vivendo mia figlia?

Mi strinsi le mani alla pancia, sentendo la piccola muoversi. Non osavo neppure pensarlo. Avevo rischiato di perderla. Lo stavo scegliendo io stessa.

Gli occhi chiari di mio marito mi fissarono, in apprensione. Mi scostò una ciocca di capelli dal viso. «Sei sicura? Forse la febbre sta risalendo ancora» mormorò, fissandomi con preoccupazione. Potei solo provare ad indovinare quale potesse essere l’espressione del mio viso. Non sapeva nulla della parte più dolorosa del mio sogno, non riuscivo ad aprire bocca…

Scossi il capo, voltandomi nuovamente verso Philip. «Mi deve dire» sussurrai agitata «mi deve dire come faceva a sapere tutto! Perché noi non sapevamo niente, e lei si! Non lo conosceva neppure quel… quel… Jacob» gemetti, mordendomi il labbro.

Mio marito provò a placare la mia ansia. «Bella» fece rassicurante.

«No Edward, no» mormorai querula, «io devo capire. Devo capire prima di impazzire… Non ce la faccio altrimenti…».

La voce del professore interruppe il mio balbettare frenetico. «Stai calma Isabella. Ti dirò tutto quello che vuoi sapere» disse con serietà. «Calmati, ora. Non è il caso di agitarsi ancora».

Presi dei respiri, lasciando che fosse Edward a occuparsi di accarezzare il pancione.

«Tutto» deglutii, seria «voglio sapere tutto».

Ci fu una brevissima battaglia di sguardi, da cui uscì fiaccamente sconfitto. Non gli piaceva lasciarsi andare così davanti ai vampiri. E pensare, che avevo immaginato fosse morto… I miei sentimenti erano così confusi e contrastanti in quel momento.

«Ricordi la leggenda che ha citato il mostro?» non aveva problemi a chiamarlo tranquillamente così. «I suoi antenati avevano la possibilità di separare il corpo dall’anima e di andare in un’altra dimensione, in cui tutti riescono a comunicare con la mente, perché sono solo spiriti e non conoscono i confini del corpo. Questa dimensione non è completamente spopolata Isabella. Non c’era solo lo spirito del mostro…» disse, con una punta di dolore negli occhi.

«Chi altro?».

«I discendenti degli altri spiriti guerrieri, per esempio. Il mondo sovrannaturale è molto più ricco di quanto tu possa immaginare, e ci sono altri tipi di anime lì» mormorò, rigirandosi la fede al dito, lo sguardo basso. Lo sollevò su me. «Prima, ho parlato di conseguenze imprevedibili… l’afflusso dell’antidoto al cervello porta una di queste. Per me».

Aggrottai le sopracciglia.

Mi sorrise con mestizia, sollevando la mano bianca e indicandomi la vera nera al dito. «Ti ricordi? Lei ha messo i suoi poteri qui dentro, la sua essenza. Il veleno che ho usato per creare l’antidoto era il suo. La sua anima non se n’è mai andata Isabella… Lo spirito di mia moglie è sempre rimasto con me» mormorò fissando il cerchietto nero «Il suo veleno e il mio sangue, insieme, ci permettono di comunicare. É lei che mi ha detto di Jacob, è lei che mi aiuta a trovare la nostra Kate…».

Portai una mano alle labbra, stringendomi a Edward.

L’ansia e la confusione non scemarono affatto con quella rivelazione. Ad una prima schiarita seguirono una serie di dubbi, incertezze, turbamenti. Cedetti a mio marito, decidendo che basta, ne avevo avuto abbastanza per un po’, almeno per un giorno.

«Shh… Tranquilla» mi sussurrò, massaggiandomi la schiena con delicatezza. «Cerca di dormire… Hai bisogno di un altro cuscino?».

Gemetti, voltandomi verso di lui e stringendomi al suo petto. Era tutto così strano e impossibile, ancora. Avevo accavallato quello che avevo visto nel sogno con la realtà, tanto che ora anche questa mi pareva assurda e estremamente improbabile.

Non riuscivo ad accettare veramente l’idea della celere comparsa e definitiva morte di Jacob. Non riuscivo ad accettare il ruolo che mia figlia aveva avuto in tutto questo. Non riuscivo e non potevo capire come avessi potuto decidere, seppure in un sogno, di separarla da me, anche se per il suo bene.

Mi faceva male solo il pensiero.

«Credo» sussurrai, accarezzandomi il grembo, «di aver bisogno di Carlisle» socchiusi le palpebre «ho un po’ male alla pancia».

Mio suocero mi raggiunse immediatamente, richiamato da Edward. Non volevo allarmare tutti, ma io stessa, spaventata, sentivo un peso al cuore. Ero terribilmente angosciata, oltremisura…

«Calma Bella, va tutto bene» mi rassicurò mio marito vedendomi in quello stato angoscioso. Mi baciò il capo, cullandomi fra le sue braccia. «Ti devi rilassare… É tutto finito, va bene? Non c’è motivo di essere così agitati».

«Sono solo delle piccole contrazioni» mi rassicurò da parte sua Carlisle, «ora ti do qualcosa e quasi certamente andranno via». La sua espressione era comprensiva. Sapeva che tutto questo, questa ansia, era qualcosa di incontrollabile per me. «Prova a dormire, ti potrebbe fare bene».

Edward mise fra di noi una coperta, e mi cullò silenzioso fra le sue braccia. Ero stanca e intorpidita per via della febbre, eppure l’ansia che mi attanagliava m’impedì di scivolare completamente nel sonno, anche dopo molto tempo.

 

«Cosa facciamo? Volete tornare a casa?».

«No, Rosalie, non è prudente spostarla in queste condizioni. Con la febbre e il resto rischieremmo di aggravare notevolmente la situazione». La seconda voce era di Carlisle.

Le braccia di mio marito ripresero a cullarmi. Forse avevo detto qualcosa nel sonno. «Desiderava trovarla. Eppure, per come è evoluta la circostanza, converrà anche lei che la scelta migliore sia quella di andarsene. É all’ottavo mese, ormai, non possiamo più aspettare che Kate spunti fuori» il suo tono si abbassò «e non mi va che resti qui, corriamo troppi rischi» la sua voce s’incupì a quella parola, ma il mio cervello annebbiato non riuscì ad andare oltre quella stranezza.

«Aspettiamo che la situazione diventi stabile e che la febbre le passi. Appena ne avremmo l’occasione torneremo a casa».

La mattina seguente, con gran fortuna, le contrazioni sembravano scomparse. Ripetei la terapia della sera precedente, e provai a fidarmi di Carlisle quando mi disse che se fossi stata tranquilla non sarebbero ricomparse.

«La febbre è scesa, hai solo qualche linea. Per qualsiasi cosa mi puoi chiamare, sono di là. Ma per oggi riposati, va bene?» mi sorrise, accarezzandomi una guancia.

Annuii brevemente, silenziosa.

Dopo pranzo chiesi a mio marito di fermarci nel soggiorno, più arieggiato e soleggiato della nostra stanzetta buia. Ci eravamo sistemati su una di quelle sdraio di vimini che mi piacevano tanto, che Esme non aveva potuto fare a meno di inserire nel pittoresco arredamento. Ero così allegra e spensierata, quando, arrivata, glielo feci notare, litigando con Emmett per chi dovesse avere la precedenza. Il pancione me la garantiva su molte sedie e divani…

Sospirai, fissando la grande vetrata che dava sul bosco, appena davanti a noi.

Edward, sotto di me, giocherellava con le dita della mia mano. Lo fissai, posando con calma il capo sulla sua spalla, osservando il suo gioco. «Sai, ieri ho pensato una cosa assurda» esordii, continuando a fissare le nostre mani.

«Che cosa?». Il suo tono era calmo, come il mio, eppure non mi era sfuggito il brevissimo sussulto delle sue dita. Temeva l’argomento di cui avrei voluto parlare.

«La bambina» dissi, «e… Jacob. Erano… erano legati dall’imprinting. Eppure lui voleva ucciderla, e lei…» deglutii «l’ha fatto. Com’è possibile?».

La sua mano si fermò, intrecciando le dita alle mie. «Non so cosa lui ti abbia detto sull’imprinting. Ma i licantropi danno per scontato che siccome la donna riceve tutte le più perfette attenzioni che possa mai avere da un uomo, automaticamente lo ami», fece, aspro.

Annuii, comprensiva. Non sapevo come comportarmi di fronte a quella chiarificazione. Ero egoisticamente sollevata, perché non riuscivo a pensare che mia figlia potesse amarlo. Ed ero felice perché non era stata costretta a compiere del male verso colui che amava, ma… in questo modo, dovevo accettare l’idea che fosse entrata in contatto con quell’essere che le aveva riservato solo odio.

«La nostra piccola…» sussurrai, sentendo gli occhi bagnarsi «come può averla odiata tanto? Come può averle fatto questo?» piagnucolai.

Mi prese il viso fra le mani, facendomi voltare verso di lui e baciandomi. «Shh… Calma amore, sta calma…» disse, accarezzandomi il ventre.

Strinsi i capelli morbidi fra le mani, nascondendo il viso sulla sua scapola.

Mi baciò il capo. «L’imprinting è una forza incredibile e ineluttabile, a cui nessuno può sottrarsi. Ma… quanto è breve la distanza fra odio e amore?» sussurrò con gentilezza, abbassando il capo per guardarmi negli occhi. «Sono così vicini…».

Annuii debolmente sulla sua spalla. «Si…» sospirai, «si». Il destino di quel mostro era odiare con tutto se stesso mia figlia. Mia figlia, che ancora non era neppure nata. Che non aveva mai visto la luce del giorno…

«Come è possibile?» chiesi ancora «che fossero così…» deglutii «legati? Lui non l’ha mai vista…».

Si guardò attorno nella stanza, in cerca di qualcosa o qualcuno. Poi, piegò il capo, guardando in basso, verso la piccola. Posò un dito sul pancione, premendo con delicatezza. «Penso che dipenda da quello che ha detto Philip».

Mi voltai per guardarlo negli occhi, appositamente per valutare la sua reazione in relazione a quel nome. Non l’avrei biasimato se ce l’avesse avuta con lui. Eppure io potevo comprendere Philip…

Ma il suo sguardo era indecifrabile persino ai miei occhi. «Mentre lui era spirito, non c’era nessun ostacolo a impedirgli di entrare in contatto con lei».

«Ma lei non…» borbottai.

«É univoco» mi accarezzò la guancia, alleggerendo il tono «ricordati che è univoco».

Sospirai, annuendo. Mi portai entrambe le mani al pancione, su quelle di mio marito, tornando a fissare il verde davanti ai miei occhi. «Ti fa male?» chiese. Scossi il capo, continuando ad accarezzarlo. Posò il mento sulla mia spalla, consentendomi di continuare ad accarezzargli i capelli. «Non riesco a vederti così» farfugliò, e soffrii io stessa sentendo la sua disperazione. «É tutto finito, dobbiamo andare avanti…».

«Mi dispiace» singhiozzai sorda, cercando di trattenermi, «non… non riesco a immaginare… la nostra bambina…».

Mi strinse a sé, come lo faceva sempre quando voleva comunicarmi tutto il suo affetto, le braccia così strette eppure così timorose di farmi del male. «Le faremo dimenticare tutto questo. Lo giuro Bella, farò di tutto per fare come se non fosse mai esistito… Ci sarò io per lei, per entrambe».

Mi voltai a posargli una mano sulla mascella. Mi baciò il palmo della mano, guardandomi negli occhi. «No» mormorai. «Per lei. Anch’io ci sono per lei… E…» sospirai «non sai quanto possa essere felice del fatto che abbia te come padre. Lo so, io già lo so. Sarà la bambina più fortunata del mondo, solo per questo» dichiarai commossa.

Se non avessi avuto Edward accanto a me, non avrei neppure osato dare uno sguardo a quel futuro che ora pareva terrorizzarmi. La mia forza d’animo e il mio coraggio si erano forse consumati come una cometa?

Malgrado fossi confusa il disorientamento si stava diradando, portando man mano con sé un angoscioso senso di vuoto. Non riuscivo neppure a riconoscere ciò a cui il mio animo stava agognando.

Carlisle mi aveva rassicurato sulla gravidanza, e le contrazioni sembravano essere andate via. Eppure, Edward era preoccupato. Lo sapevo, lo leggeva nei miei occhi il tormento che ci legava.

La febbre bruciò ancora la mia testa e le mie membra, per vari giorni. Ancora non sapevamo nulla del rapporto che Jacob aveva con i licantropi, e ben presto capii che questa era la seconda reale fonte di preoccupazione per Edward. Temevo non volesse rendermi partecipe del pericolo per paura di farmi agitare. Eppure, l’unica volta che avevo provato a parlargliene, avevo visto nei suoi occhi il dolore, che mi aveva subito fatta desistere. Si sentiva in colpa per non aver accattato il loro aiuto.

«Credo che dovreste preoccuparvi del branco di La Push» disse il professore, preparando i bagagli per partire. Era debole e ancora malato, e Carlisle gli aveva giustamente consigliato di approfittare del suo momentaneo buono stato per intraprendere il viaggio di ritorno. «Mi sorprende che non siano intervenuti, né da un lato, né dall’altro».

«Prenderemo le opportune precauzioni e ci metteremo in contatto quanto prima» ribatté Jasper, sempre restio a fidarsi delle sue parole.

Edward richiamò alla mia mente le stesse parole che Jacob, in un tempo molto lontano, mi aveva riferito. Lui era di diritto l’alfa del branco, e non potevamo sapere quanto e come questo ne fosse stato influenzato. Comunque, ora che lui era scomparso per sempre, non c’era nulla di cui preoccuparsi seriamente. Così aveva liquidato le mie domande, deciso a non riaprire l’argomento, almeno non con me.

Barcollai sulle gambe, trascinandomi il pancione dal bagno verso la camera da letto. Sospirai, accarezzandolo in tutta la sua rotondità. Mi concessi un piccolo e breve sorriso, e un po’ di quiete interiore, atta a rassicurare la piccola.

Il suo peso mi gravava sulla schiena inarcata e sulla base della pancia, facendomi presto stancare mentre ero in piedi.

«Bella» mi chiamò la voce di Alice, aldilà della porta «posso entrare?».

Mi strinsi nella vestaglietta sul pigiama, muovendomi verso il bordo del letto. «Si, entra».

Si richiuse dolcemente la porta alle spalle, venendo presto ad aiutarmi a sedere. Mi sentivo a disagio a stendermi davanti a lei, eppure i polpacci erano così doloranti che non riuscivo a rinunciare all’idea di farli riposare sul materasso. Vedendo la mia incertezza mi ordinò perentoriamente di stendermi, e non volle sentire alcuna scusa, né io fui tanto brava da fornirgliene.

Eppure, mentre accarezzava il pancione guardandolo fisso, mi pareva ci fosse qualcosa di strano nella sua espressione. Temevo che avesse visto qualcosa.

«Questo pigiama ti sta d’incanto, sono davvero contenta che ti piaccia» mormorò, continuando silenziosa a sfiorarmi con le punte delle dita.

Sussultai leggermente, portando una mano a stropicciare il morbido cotone chiaro sulla pancia.

La sua testa scattò verso l’alto, velocemente. «Tutto bene?» chiese, scrutandomi preoccupata.

Scossi lievemente il capo. «Solo un calcio… mi fai il solletico» mormorai, riappoggiando la schiena sui cuscini, posati sulla testiera del letto. Eppure, quell’espressione non aveva abbandonato il viso di mia sorella. «Hai visto qualcosa?» chiesi, senza nascondere il mio turbamento, guardandole fisso il viso per cercare di leggervi qualsiasi cosa. «La… bambina?».

Si affrettò a scuotere il capo. «No, no. Sai, ora che… lui non c’è più… vi vedo più chiaramente. Eppure, niente parto in vista almeno per un mese. Stai tranquilla» mi rassicurò, prendendomi le dita con le sue, sottili.

Sospirai, troppo stanca, lasciandomi andare sul materasso. Chiusi gli occhi. «Niente coperte Alice, te ne prego». Odiavo il fatto che ovunque mi addormentassi ci fosse qualcuno pronto a coprirmi. Stavo già per cadere nel sonno, stremata…

Eppure, le sue dita si erano irrigidite sulle mie. Aprii gli occhi, e incontrai i suoi, persi nel vuoto. Due istanti più tardi, Edward entrò velocemente in camera, venendo accanto a me.

«Che cosa ha visto?» chiesi agitata.

Alice sbatté le palpebre, fissando il fratello. Lui indugiò solo un attimo prima di stringermi. «Torneremo presto a casa. Fra tre giorni».

Lo guardai con ansia, deglutendo. Aveva davvero visto quello? Solo quello?

Mi prese il viso fra le mani, accarezzandomi la guancia con il pollice. «Ehi, tranquilla… Stavi per addormentarti, vero? Rimango con te…». Mi rassicurò, sedendosi sul letto e prendendomi fra le braccia.

«Vado a dirlo agli altri» disse velocemente Alice. I suoi occhi erano sinceri, non mi pareva che stesse mentendo.

Annuii con riluttanza, posando il capo sul petto di Edward. «Va bene» sussurrai, e quando chiusi gli occhi fu davvero difficile resistere al sonno, con i sussurri di mio marito all’orecchio e i suoi baci lasciati sul viso.

Ma non appena i miei sensi furono abbastanza annebbiati da consentirmi di scorgere immagini irreali e abbastanza irrazionali, ai miei occhi comparve ciò che non avrei voluto vedere.

Ero sola, ed ero a casa, a Forks. Avevo paura. Sentivo quel consueto senso di vuoto, irrequietezza, agitazione, che mi aveva accompagnato negli ultimi giorni. Quando guardai in basso, scoprii di essere meno sola di quanto avessi immaginato.

La mia pancia era piatta, ma fra le mie braccia si celava un piccolo fagottino. Non appena un ringhio mostruoso ci raggiunse, cominciai a scappare correndo da una stanza all’altra, cercando di proteggere in ogni modo la bambina. Ma non ci riuscivo, i miei passi erano troppo lenti e sapevo che lui era alle mie spalle, ci stava raggiungendo. Caddi a terra. Ci avrebbe trovate, ci avrebbe prese. Mi raggomitolai su mia figlia, provando a proteggerla.

Immediatamente, mentre ero lì, tremante, a terra, capii il motivo della mia paura, del mio senso di vuoto.

Avevo paura che potesse tornare da un momento all’altro. Sempre. Mi sentivo minacciata. E per quanto potessi credere alle parole di mio marito, non riuscivo ancora a realizzare quello che era successo troppo velocemente.

Quando l’angoscia si fece folle e sentii il tocco di una mano pur consciamente inesistente, mi svegliai, urlando.

Lo lessi facilmente negli occhi consapevoli di mio marito che era proprio quello, che solo pochi minuti prima era stato visto da Alice. Quantomeno, niente di più preoccupante. Dovetti fare pressione su me stessa e esercitare tutto il controllo che pensavo di poter possedere per riuscire a calmarmi e regolarizzare il respiro.

«Va tutto bene» ripeté ancora Edward, stringendomi la mano fra le sue.

Mossi il capo di lato, sul cuscino, gli occhi ancora chiusi. E pregai perché le lacrime rimanessero lì intrappolate fra le ciglia. «Non va tutto bene Edward» dissi a bassa voce per cercare di mantenere il controllo del mio timbro.

Subito si agitò, tentando di convincermi. «Si, invece, non c’è niente di cui ti debba preoccupare!» affermò concitato, baciandomi le punte delle dita. «I licantropi non sono un problema, davvero. Non c’è niente che possa mettervi in pericolo, niente…».

Riuscii a posare un dito sulle sue labbra, e aprii gli occhi. L’ultima cosa che avrei desiderato vedere era la tristezza e l’angoscia che albergava nei suoi. Spostai la mano al lato del suo viso, accarezzandogli la guancia. Volevo fargli capire quello che sentivo, quello che davvero stavo provando. «Edward… É successo tutto così velocemente. Io…» sospirai «sono così confusa… Ho visto tutte quelle cose, e credevo realmente che fossero vere. E… poi è scomparso. Di nuovo, così velocemente» spiegai cauta.

Aggrottò la fronte, fissandomi crucciato.

«Tu me lo ripeti sempre. É tutto finito. Se n’è andato. Non tornerà più. Ma anche prima. Anche prima Edward, non sarebbe dovuto più ritornare. Posso credere a te. Ma come faccio a credere a me stessa?».

Sospirò, desolato, prendendomi fra le braccia e stringendomi a sé. Sospirò, ma non parlò. Cominciò ad accarezzarmi i capelli, calmandomi e calmandosi. Pensai che stesse scegliendo le parole migliori, o che, addirittura, non sapesse cosa dirmi. Sperai tuttavia che avesse compreso il mio stato d’animo.

«Lo so. Lo so quello che vuoi dire. Ma io come faccio?» mormorò agitato. M’irrigidì, colpita. Attese un secondo, e la sua voce ritornò calma e melliflua. «Posso fare tutto, tutto, per te. E voglio, fare ogni cosa che posso per farti stare meglio. Ma… questa volta… posso dirti solo che non tornerà più…».

Il cuore mi batteva forte quando mi ritrassi per guardarlo negli occhi. Indirizzai nel mio sguardo tutta la mia maggiore forza persuasiva, e tutto il sentimento che in quell’istante mi dominava. «C’è qualcosa che puoi fare» mormorai.

Quando gli esposi la mia richiesta fu immediatamente sconvolto. Vederlo, vedere il suo immondo corpo esanime. Come lui aveva potuto fare, come tutti gli altri avevano potuto fare. Quello era ciò che mi serviva per accettare ogni cosa.

«Come puoi chiedermi una cosa del genere?!» chiese nervoso, sollevandosi e cominciando a camminare troppo velocemente per la stanza. «Ti rendi conto? Puoi solo immaginare quello che mi stai chiedendo?!». Aveva le mani fra i capelli.

Abbassai il capo sul copriletto. «Tu mi hai chiesto… cosa… io…».

La porta della camera si aprì, rivelando la figura di Jasper. Entrò velocemente, fissandoci circospetto. Gli occhi angosciati di Edward erano ancora su di me.

«Cosa succede?» chiese cauto suo fratello. Subito dopo sentii il torpore e la calma avvolgermi.

Lui scosse velocemente il capo, come se stesse tentando di sbarazzarsi dell’ipnotico potere del fratello. Lo guardò con astio, e Jasper rispose con un’occhiata decisa.

Edward strinse i denti e sibilò con rabbia: «Non è una cosa per un umano. Non è una cosa per una donna. Non è una cosa per una donna incinta. Non è una cosa per Bella. Lei non lo vedrà» dichiarò con fermezza.

Gli occhi dispiaciuti di Jasper incontrarono i miei, e subito voltai il capo per nascondere le mie lacrime. Mi raggomitolai su me stessa, proteggendo il pancione fra le braccia.

Altre persone entrarono in camera, cominciando a discutere. Non volevo che succedesse tutto questo, non volevo creare tanta tensione, soprattutto con mio marito. Eppure… non riuscivo a pensare all’idea di una vita nel terrore e nell’angoscia. Volevo provare, provare a stare meglio…

Mi sentii prendere fra le braccia di colei che subito riconobbi e accettai come Esme. Mi rassicurò, dicendomi di stare calma. Accettai quello che mi portò alle labbra senza protestare.

«É un’idea assurda! Sono l’unico ad avere ancora del buon senso qui?» la voce di Edward era nervosa, ansiosa. Mi faceva male sentirlo così.

«No, sei l’unico ad essere cieco. Lo sai benissimo che accettare la morte di qualcuno non è un processo psicologico immediato. Entrare in contatto con il defunto è fondamentale».

«Non mi fare la lezione di psicologia su mia moglie Rosalie» gridò alterato «non te lo permetto. Dovresti sapere, quando la metti in questi termini, quanto possa essere traumatico… questo. Non lo permetterò. É una follia».

«Edward, nessuno vuole dire niente qui» cercò di rabbonirlo suo padre. «Dobbiamo solo cercare di capire qual è la scelta migliore per lei, possiamo discuterne con calma».

Sentii un ringhio, sicuro preludio di un’altra esclamazione di mio marito, eppure un’altra voce, tranquilla, squillante, lo interruppe. «É la sua la scelta migliore» disse tintinnante e serena, «l’hai sempre detto. E se non fossi così annebbiato lo diresti ancora. Lei prende sempre la scelta migliore».

Non sentii la voce di mio marito, così mi asciugai le lacrime, osservando la scena davanti ai miei occhi. La guardava in cagnesco, la fronte aggrottata, e lei sosteneva con la massima tranquillità il suo sguardo, altrettanto seria.

Chiuse gli occhi e sospirò. Quelli di Edward si spalancarono, sorpresi.

Presi un respiro, affrettandomi a sostenere il pancione per sollevarmi velocemente dal letto. Corsi da mio marito, fermandomi a meno di mezzo metro da lui. Passarono pochissimi secondi di silenzio, e i suoi occhi passarono da Alice, alle mie spalle, a me, mettendomi a fuoco.

Sollevò la mano, posandola sulla mia guancia. Non c’era ira, furia, o rabbia nei suoi occhi. Solo desolazione e tristezza. Avanzai un passo verso di lui, posando due dita sulle sue labbra. Mi bastava leggere nei suoi occhi per sentirmi meglio. Per sentire la mia pelle accarezzata da brividi delicati.

Sospirò, spostando la mano dalla guancia alla nuca, accarezzandomi i capelli. Si avvicinò ancora, posando le labbra sulla mia fronte.

«Non è un bello spettacolo».

«Lo so».

«Quell’immagine potrebbe albergare nei tuoi incubi per molto tempo».

«Meglio che vivere per sempre nell’angoscia».

«Devo decidere».

«Cosa?».

«Qual è la cosa peggiore».

«Più aspetteremo peggio sarà».

La sua mano aumentò la presa sui miei capelli, e si allontanò con il viso per guardarmi negli occhi, sofferente.

Si strinsero in due fessure e scattarono di nuovo alle mie spalle. «Ho capito Alice, basta» mormorò, la mascella serrata.

Mi voltai a guardare mia sorella, perplessa. Il suo viso non tradiva nessuna emozione. E neppure, voltandomi, ne lessi alcuna in quello di Edward.

Mi prese il viso fra le mani, attirandomi a sé e baciandomi senza indugi. «Io lo faccio per te…» soffiò sulle labbra.

«Cosa ha visto?» chiesi, tremante.

I suoi occhi si congelarono nei miei. «La mia scelta» sussurrò, chiudendo le palpebre.

Un’ora e mezza più tardi, protetta dal vento freddo che spirava fra gli alberi del bosco da più e più strati di maglieria pesante, aspettavo tremante e con un nodo allo stomaco. Ovviamente, tutte le preoccupazioni di Edward non potevano non essere anche le mie. Ma volevo farmi coraggio e essere forte. Liberarmi per sempre dei miei demoni.

E speravo che questa volta per sempre fosse davvero per sempre.

I miei occhi caddero sulla figura taciturna di Esme. Anche lei, come Edward, vedeva più gli aspetti negativi che quelli positivi di quello che stavo per fare. Non voleva imporre un suo pensiero sulla mia scelta, ma, apprensivamente, non riusciva ad approvarla.

«Ascoltami» mi chiamò Edward, stringendo più forte la mano che aveva fra le sue, «in qualsiasi momento volessi tirarti indietro, puoi farlo. Hai tutto il tempo che vuoi, mi basta un cenno, e ci fermiamo».

Jasper venne da noi in un lampo. Più avanti i ragazzi stavano preparando tutto. Presi un respiro cauto. «É tutto pronto, Edward» fece interrompendolo «è tutto apposto» disse, scambiandosi col fratello un’occhiata densa di significati. «La temperatura è stata bassa questa settimana, e l’avevamo isolato con l’erba secca». Si accorse della mia ansia e preferì procedere con una comunicazione mentale.

Mi strinsi più forte a Edward e guardai senza vedere nulla alle spalle di Jasper. Era lì. Dovevo farlo, dovevo rendermi conto, accertarmi io stessa.

«Bella» mi richiamò ancora mio marito. Mi prese il capo fra le sue mani, sistemandomi le ciocche di capelli dietro le orecchie e aggiustandomi il cappellino di lana. Mi guardò negli occhi. «Se ti senti male o hai la nausea devi dirmelo, va bene?» chiese serio.

Annuii.

Sospirò. «Tappati il naso».

Ci avvicinammo con cautela, nel silenzio più assoluto delle persone circostanti. Sentivo i loro occhi puntati addosso, compresi quelli di Edward, stretto dietro di me. I miei occhi erano concentrati sulla figura scura posata sul fogliame, ancora a qualche metro da me. Così concentrati, che l’odore acre mi raggiunse improvvisamente.

Dovetti irrigidirmi, perché immediatamente la mano di Edward corse davanti alla mia bocca, facendo quello che non avevo ancora fatto. Deglutii, e mi ritrovai con le orecchie tappate. Ci eravamo fermati.

«Vuoi smettere?». La voce mi giunse chiara e persuasiva all’orecchio destro.

Scossi maldestramente il capo, imponendo io stessa alle mie gambe tremanti di andare avanti. Mi mossi per alcuni metri, rassicurata dalla costante presenza di mio marito a contatto con la mia schiena.

Serrai gli occhi quando fui troppo vicina. Un pugno mi aveva colpito lo stomaco, facendo risalire un sapore acido lungo la gola. Il cuore mi batteva fortissimo. Avevo paura. E lui lo sentiva. Tutti, lo sentivano. Probabilmente più che il battito forsennato sarebbe bastato il mio tremolio o il certo odore di adrenalina che doveva aleggiare nello spiazzo insieme a quel tanfo…

Mi strinse più forte, posando una mano sul pancione e accarezzandolo. «Bella… Possiamo ancora tornare indietro…». Mia figlia era stata forte, e aveva fatto tutto, tutto per me e per noi. Era stata l’unica con il potere di salvarci. Non potevo essere meno forte di lei.

Aprii gli occhi e osservai la figura davanti a me. Era lui, lo stesso mostro che mi aveva perseguitata nella radura. In pochi, rapidi e profondi battiti di cuore, registrai i dettagli.

La pelle nera velata di uno strato biancastro, la rigidità, il gonfiore delle pelle.

Era morto. Morto. Per sempre.

Agitata, mi voltai verso Edward lanciandomi fra le sue braccia e stringendomi a lui convulsamente, respirando in modo affannoso.

Mi accarezzò i capelli, traendomi a sé e indietreggiando notevolmente, con velocità. Mi cullò fra le sue braccia, ansioso. L’immagine era ancora troppo vivida nella mia mente perché potessi in qualsiasi modo sminuire il mio stato.

Fare quello che avevo fatto sarebbe potuta sembrare una follia, solo una pazzia. Non avevo nessun gusto per il macabro. Nessun interesse a vedere un cadavere. Nessuno, ancora, a vedere quello che era stato un amico e che si era poi rivelato il mio peggior nemico, così, ridotto in quello stato.

Repressi un altro conato di vomito.

«Tutto bene?» chiese mio marito, guardandomi in volto.

Annuii con cautela, una mano alla bocca.

Le sue labbra si strinsero. Era pentito di avermi permesso di farlo, glielo leggevo in faccia. Eppure, non osava dirmelo. Alice doveva avergli mostrato quanto peggio sarebbe stato non farlo. «Ti viene da vomitare?».

Feci una smorfia ma non dissi nulla. Mentre tutti gli altri si erano affollati verso il luogo della riesumazione, Carlisle e Alice vennero verso di noi, appena in tempo perché potessi piegarmi sulle gambe, in preda ai conati.

Quando le mani di Edward che mi sorreggevano strette mi consentirono di sollevare il viso mi accorsi degli sguardi che si scambiava con Alice. Carlisle mi distrasse, passandomi un fazzoletto pulito e chiedendomi come stessi.

Edward sospirò, concentrandosi nuovamente su di me e stringendomi fra le braccia. «É tutto finito» disse, e pareva piuttosto tranquillo quando mi baciò la tempia.

Fare quello che avevo fatto sarebbe potuta sembrare una follia, solo una pazzia.

«Si» dissi, convinta «è tutto finito».

Una follia che mi aveva per sempre liberata dai miei demoni.

 

 

 

 

‘Giorno.

Perdono per il ritardo.

Ecco, spero solo non abbiate trovato il capitolo troppo macabro. Per scriverlo ho dovuto leggere un testo sulla decomposizione, e persino io, che per queste cose ho “lo stomaco forte”, dico che non è stato bello. No, affatto. :S

 

Comunque, spero vivamente di non aver offeso né disgustato nessuno, volevo solo fare intendere quanto fosse importante per Bella fare quello che ha fatto. E non voglio giudicare, in qualsiasi caso, il comportamento di una persona di fronte ad una problematica del genere. Perché qualsiasi scelta porta i suoi lati negativi. (Io sarei probabilmente scappata via).

Però Bella è una persona forte, e ho pensato giusto che prendesse la decisione che ha preso. Non vuol dire che l’abbia presa a cuor leggero, o che non le abbia fatto o le faccia male.

 

Bene. Posso dire a occhio e croce che manchino quattro capitoli alla fine della mia storia. Tutto dipende con che agevolezza e velocità riuscirò a superare l’ultimo ostacolo, per ora non riesco a fare una stima più precisa.

 

Per quanto riguarda lo scorso capitolo e la scelta di presentare il tutto come un’illusione.

É stata una scelta azzardata, e ne sono perfettamente consapevole. So della scelta che ho fatto, e me ne assumo le responsabilità. Vi è piaciuta? Sono contenta. Non vi è piaciuta? Mi va bene anche così, è giusto anche che me l’abbiate detto (GiovaneStella non ti preoccupare, apprezzo la tua sincerità).

E, non vorrei che dal mio edit fosse emerso qualcosa di diverso da quello che volevo comunicare. Non sono “arrabbiata” o “delusa” se non avete capito. Non voglio turbare la vostra attenzione più di quanto non sia lecito, più di quanto non mi sia consentito richiedervi.

Evidentemente, se non avete capito, era poco comprensibile. Punto. Inutile girarci intorno.

 

Dovete scusarmi se non rispondo alle vostre bellissime recensioni. Ho avuto dei problemi, ultimamente, che mi costringono a scrivere il meno possibile, pur avendo davvero tanto da scrivere. Mi dispiace, ma vi ringrazio sinceramente una ad una.

 

Rispondo in breve alle questioni che avete sollevato:

 

|-_ Jacob è morto per sempre (spero di averlo fatto sufficientemente capire) e non tornerà più!

|-_ Il professore ha scambiato Bella per Kate perché era fra i deliri della febbre, prima della morte.

|-_ Per chi non avesse ancora capito la questione del sogno, rimando all’edit del precedente capitolo, e se ancora ci fossero dubbi, chiedete pure. Ma: il professore non è mai morto, Jacob non è mai scappato.

|-_ «l’ambrosia di cui vi nutrite vi avrebbe portato la morte. Semplice…». É il sangue di Jacob la cosa più pericolosa per i vampiri. La cosa che li attrae di più sarebbe stata quella che li avrebbe uccisi, perché la sua essenza cos’era? Puro odio verso di loro.

|-_ Il corvo è uno, e c’è solo una volta, in realtà. Poco dopo che Bella ha usato il potere della bambina. Lui si trova lì, nello spiazzo. Quando Bella si risveglia, il corvo è lì. É solo un elemento narrativo, usato per rendere più semplice il salto temporale.

|-_ Il sogno di Bella è dovuto alla battaglia che la bambina e Jacob combattono, e le sensazioni che la piccola invia alla madre. Il dolore di Bella, e le sue reazioni, sono in parte ciò che anche la piccola prova, in parte invece cioè che Bella riceve come sensazioni dalla bambina.

|-_ Flavour of Love è stata terminata. :)

 

Come sempre il mio nick su twitter è: @Keska92. Aggiungetemi se vi va.

 

PS. Grazie Ely_11 per BRAINORI, mi hai fatto morire di risate ;)

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

   
 
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