Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Ely79    05/07/2010    2 recensioni
Quante volte abbiamo sognato un lavoro diverso da quello che ci tiene occupati ogni giorno? Un lavoro che ci faccia sentire felici, gratificati, pieni di passione verso quel che facciamo? Ed ecco che ad Amelia, frustrata progettista, si palesa l'occasione di una vita. Ma cosa c'è dietro questa porta spalancata su una grande opportunità?
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Tavola IV - Contesto
Odiava essere toccato. Detestava la pressione esercitata dalle dita altrui sul suo corpo, su ogni parte di esso.
Ascoltò lo strusciarsi di quelle forme morbide, che pian piano risalivano tentatrici verso il suo volto. Mani che stringevano affamate, labbra che cercavano con insistenza, un respiro ansante che ne bramava un altro a cui mescolarsi. Uno stringersi appassionato, avido, possessivo, che si dischiudeva su un umido abisso, cupo e seducente come la notte intorno.
Jarvis socchiuse appena gli occhi, incontrando la nivea curva di una gola.
Combatté con il desiderio di affondarvi i denti, di assaporarne la consistenza, la tensione spasmodica del respiro che l’attraversava, di succhiarla fino ad insozzarne il candore con marchi lividi. Non avrebbe dovuto cedere a quell’impulso. Non attese oltre, penetrandola senza tante cerimonie. La carne gridava il desiderio di vuotare le proprie energie in altra carne, avvolto in quell’abbraccio caldo e appassionato che gli cingeva i fianchi non più fasciati dall’abituale divisa. Strinse i denti, cercando di ridare ordine ai pensieri, frastornati dalla tempesta degli appetiti sessuali che imperversava in lui.
Aveva una sola definizione per ciò che stava facendo: sbagliato. Non c’era niente di più sbagliato che trovarsi lì, immerso, sprofondato fra quelle gambe in cerca di puri piaceri corporali. Eppure ne aveva bisogno, un bisogno disperato e lo mise ben in chiaro facendola sobbalzare, sistemandosela meglio addosso.
Strinse forte, perché lei non facesse altrettanto. La sentì curvarsi in cerca della sua bocca e si ritrasse.
«Non toccarmi» ordinò in un ansito, mentre i loro fianchi prendevano a danzare all’unisono.
Sentì i suoi abiti strusciare contro il torace nudo, graffiandolo prima di aderire e modellarsi in una carezza invitante. Il colletto della camicia gli sfregava la nuca, inseguendo l’abbandonarsi del corpo che teneva fra le braccia. Rispose con spinte violente, sostenendosi con una mano a qualcosa di freddo e duro che gli stava accanto. Chinò il capo, arrivando a sfiorare con le labbra le ondeggianti rotondità dei seni. Si mosse dentro di lei con rabbia, mischiando piacere e colpa ad ogni affondo. Udiva a malapena i suoi sospiri, le mezze parole che pronunciava. Non l’ascoltava. Non gl’interessava.
Un fremito lo scosse. Era il segnale che attendeva, una voce intima che gli strappava dai lombi ogni brandello di desiderio, riversandolo torrenziale nel possesso di quella donna. Una donna che offriva il corpo maliardo in sacrificio alle brame della ruvida libidine di Jarvis.
A quella prigione di ossa, sangue e tendini che si faceva ogni giorno più ampia, man mano che la sua essenza avvizziva, il maggiordomo concedeva rapidi sfoghi. Sfoghi deliziosi, palpitanti, intensi ed al tempo stesso vergognosi, detestabili, indegni di lui. Sfoghi che ormai diventavano sempre più frequenti. Biasimava sé stesso per la sua incapacità di farne a meno, ed al tempo stesso tentava di convincersi che quella fosse l’unica via per non impazzire.
«Tu sei…» sospirò languida e triste la donna, scivolandogli intorno.
Si muoveva sospesa fra lui e il prato, i capelli allargati in un’aureola dal colore indefinito. Pareva nuotasse a mezz’aria, leggera, priva di peso, inconsistente. Si appoggiò alle sue spalle, accostando le labbra dal colore scuro e sbavato al suo orecchio.
«Tu sei. E non sei» bisbigliò.
Lui non rispose, gli occhi chiusi, ascoltando gli ultimi spasimi quietarsi fra le anche. Premette una mano sul petto, facendola scendere lentamente verso l’inguine, quasi a sincerarsi delle proprie condizioni. Il palmo era sporco e bagnato: ne percepiva l’alone trascinarsi dall’alto in basso, ripercorrendo la traccia ancora tiepida di quelle labbra che continuavano a sussurrare domande.
«Dov’è lui? Dove?»
Gli occhi bruni dell’uomo si volsero appena, incontrando il volto allungato e magro dalle fattezze femminili. Sinuosa come un serpente, la creatura scivolò sulla sua spalla e di nuovo di fronte a lui. Giocherellò con le unghie nelle asole e lungo le cuciture della stoffa, aggrappandovisi come ad un ancora di salvezza mentre avvicinava il viso al suo.
«Chi sei tu?» soffiò sulle sue labbra.
«Vattene» rispose in un respiro roco.
Con gemito prolungato e stanco, quella creatura lasciva e infelice svanì. Jarvis rimase immobile, la camicia scesa a metà delle braccia, i pantaloni raccolti in maniera indecorosa alle caviglie. A terra, la giacca s’andava inzuppando della guazza notturna.
A poco a poco, dal buio riemersero le file di mattoni incrostati di muschio ed edere a cui si era appoggiato e più sopra, quattro alti pilastri, in tutto e per tutto identici a quelli che s’incontravano entrando nella proprietà.
Una brezza lieve e indiscreta scivolò sulla sua pelle, rammentandogli che ora fosse e quanto poco somigliasse all’austera immagine che tutti conoscevano. Con gesti calmi e misurati riabbottonò gli abiti ed infilò la giacca, dopo averla ripulita dai fili d’erba che vi si erano impigliati.
La mole della villa lo sovrastava. Le finestre, a malapena visibili nella notte stellata, lo fissarono severe accendersi una sigaretta mentre risaliva lungo il leggero declivio erboso. Raggiunse la vetrata che chiudeva il salone del piano terra e rimase lì, appoggiato fra il muro e l’infisso, fumando e prestando orecchio alle tenebre, quasi che nulla fosse accaduto.

***

Passi frettolosi riecheggiarono nel corridoio, obbligandolo ad abbandonare la lettura dei documenti. Attese. L’eco si avvicinò e cambiò direzione, consentendogli di meditare sul da farsi. Fissò a lungo la stilografica d’argento, che brillava inserita nel supporto d’identico prezioso metallo. Sospirò, arreso e indispettito. Strinse gli occhi in due buie fessure, prima di accennare un movimento appena percettibile della mano, animando la penna che fluttuò rapida su un biglietto.

Desidero informarla che in questa nobile dimora non è uso far baccano nei corridoi a proprio piacimento.
J.A.C.

Jarvis ignorava il motivo di tanta agitazione, cosa che francamente non destava il suo interesse, ma aveva riconosciuto la presenza dell’Archimaga in quel trambusto. Pareva che la signorina Veneziani avesse qualche difficoltà nell’assimilare le regole di Villa dei Gelsi, tanto che si era costretto a rifornirla costantemente di appunti a riguardo. Appunti cui lei replicava con foglietti quadrati dai colori sgargianti e dotati di una fastidiosa striscia appiccicaticcia sul retro. Ormai, le loro conversazioni stavano prendendo la forma di un epistolario.
Se avesse avuto il buon senso di affacciarsi, probabilmente Amelia si sarebbe risparmiata quella corsa.
Inseguiva una delle Misuratrici da quasi venti minuti. Era intenta a rilevare il fronte est, quando la sfera scarlatta si era sollevata ondeggiando. L’aveva fissata sbalordita per qualche secondo, affrettandosi a controllare che a terra non venisse segnalato alcun picco o sigillo. Niente. Decisa a far chiarezza aveva cercato di afferrarla, ma quella era partita di gran carriera, infilandosi nella porticina delle cucine. L’aveva rincorsa attraverso le stanze, il cui numero pareva essersi moltiplicato all’infinito, evitando d’un soffio di travolgere Francesca e Luisa che andavano a pulire qualche stanza. Non era riuscita ad afferrare quel che le aveva gridato Ang, seduto a cavalcioni di una finestra, né tantomeno il lamento della signora Romilda quando l’aveva vista sbucare di nuovo in cucina.
La sfera era scomparsa nel nulla e con quella la possibilità di rilevare in maniera completa la facciata dell’avancorpo est. Come se non avesse dovuto subire abbastanza ritardi. Sconsolata ed accaldata, andò a sedersi in cima ad uno degli scaloni.
Appoggiata alla balaustrina di pietra, nella fresca penombra del pianerottolo, ripassava mentalmente quanto era riuscita a rilevare quel giorno. Praticamente niente. Aveva a malapena terminato di stabilire i punti fissi per le misurazioni, che dalle cucine avevano chiamato l’ora di pranzo. Si era lasciata trascinare in una discussione sulla gestione del bucato con Luisa, che l’aveva rimproverata per come riusciva a ridurre i suoi jeans da lavoro e che di proposito faceva lavare solo nel fine settimana. Ovviamente le sue giustificazioni sul non voler pesare troppo sull’economia domestica della dimora erano rimaste inascoltate. Inascoltate almeno quanto il far notare che aveva con sé un numero esiguo di capi di vestiario per potersi permettere cambi frequenti. Così, quando a pomeriggio inoltrato era riuscita a tornare al rilievo, ecco che la Misuratrice se la svignava.
Sospirò abbattuta, poggiando la fronte sulle ginocchia.
«Ah, mi ci vuole un cane da riporto…» piagnucolò.
Udì una risatina lì accanto. Probabilmente una delle domestiche doveva trovarla particolarmente ridicola in quelle condizioni. Si voltò, pronta a sopportare l’ennesima dose di sardonica ilarità, e restò meravigliata nello scoprire che chi rideva era una bambina. Non doveva avere più di sette o otto anni. Indossava un abito che pareva uscito dal Carnevale di Venezia, tutto nastri e merletti di un tenue rosa. Qua e là erano ricamati mazzolini di fiori rossi e sul davanti, una cortina di mussola ricamata formava una sorta di grembiule che arrivava a sfiorarle i piedi. Assomigliava molto al personaggio di uno dei quadri che aveva scorto in pinacoteca giorni addietro.
La bambina rise ancora, notando la sua sorpresa.
«E tu chi sei? Da dove sei uscita?»
Nessuno le aveva detto che avrebbero ricevuto la visita della nipotina del Duca. Men che meno che il Duca avesse una nipotina. O una famiglia. Comunque, ecco spiegata la sparizione della Misuratrice: una streghetta in erba se ne era appropriata, divertendosi a farla correre per tutto il palazzo come una stupida.
«Non si dice così! Prima ci si presenta, maleducata!» ribatté con piglio da maestrina.
«Oh, c-certo. Mi dispiace. Il fatto è che mi hai spaventata»
La bambina rise di gusto, premendo le mani sulla faccia. I lunghi capelli biondi ondeggiarono lievi sulle sue spalle minute. Era molto graziosa, una specie di bambolina da carillon a grandezza umana.
«Sei buffa!» esclamò e Amelia sapeva che doveva essere vero.
«Immagino di sì» ammise alzandosi e tendendo la mano. «Io mi chiamo Amelia, molto piacere»
Lei rispose facendole un bell’inchino, curvandosi appena in avanti come si conveniva alle signorine dell’alta società.
«Il mio nome è Isadora Clara Blanca Maria Visconti y Torres de Villa, figlia del Duca Michelangiolo Alessandro Maria Visconti y Torres de Villa del Ducato di Milano. Lieta di conoscerti» recitò pomposa.
Doveva essersi esercitata parecchio per ricordare a menadito tutta quella solfa.
«Ripeti! Come mi chiamo io?» trillò raddrizzandosi.
Amelia rimase spiazzata per un paio di secondi.
«Ehm… I-Isa-dora Clara… Bla.. Blanca? Non credo di ricordarmelo tutto. Scusami» disse con un’alzatina di spalle.
La nuova venuta la squadrò, facendo una smorfia strana.
«Sei un po’ sciocchina»
«No, direi stanca. E sai perché?» sospirò, appoggiandosi al parapetto con l’aria di chi stava rivelando un gran segreto.
Improvvisamente interessata, l’altra prese a fissarla, inclinando la testa da un lato.
«Perché credo di aver corso come un unicorno imbizzarrito su e giù per tutta la villa, inseguendo… te!» e l’additò sorridendo.
Isadora ridacchiò ancora.
«Mi piaceva la pallina!» ammise birichina, dondolandosi sui talloni.
«Sì, lo immagino. Sono molto belle le mie Misuratrici. Ora però mi servirebbe. Puoi ridarmela?»
Un broncio apparve sul visino tondo.
«Uffa, voglio giocarci io! Adesso è mia!» protestò incrociando le braccia.
Ecco cosa succedeva ad intavolare un discussione seria con gente di quell’età: capricci.
«E se poi, una volta finito di usarla, te la riportassi? Potresti giocarci ancora»
«No! È mia!»
«Isadora, per favore… Quella pallina, coma la chiami tu, non è un giocattolo. Mi serve per lavorare, ne ho bisogno»
«Ci voglio giocare io!» s’impuntò.
«Senti, perché non vieni con me? Così ti faccio vedere come si usa» propose accomodante.
La damina girò sui tacchi, dandole le spalle offesa. Non aveva intenzione di prendere in considerazione un’idea diversa dalla sua.
«Vuoi dirmi che non sei neppure un po’ curiosa di vedere come si usa?» tentò di blandirla avvicinandosi, le china in avanti con le mani sulle ginocchia.
Guardandola meglio, si accorse che quella bambina aveva qualcosa di strano. Una riga pareva tagliare in due la sua figura, dalla spalla in giù, proseguendo fino a terra la linea dello stipite dietro di lei. Un momento. Quella non era affatto una piega sull’abito o una riga lasciata da chissà che. E neppure un’ombra o una ragnatela caduta dal soffitto. Quello era lo spigolo della porta! Stava guardando attraverso la bambina!
Amelia avrebbe dovuto essere preparata all’idea di poter incontrare un fantasma, le era già capitato durante l’università, ma erano fantasmi di adulti o di persone anziane. Mai tanto giovani. Dava per scontato che ai ragazzini una sorte tanto infausta toccasse solo di rado.
«Ti fa male la pancia?» domandò la piccola, fissandola da sotto in su.
Senza accorgersene Amelia era arretrata di un passo ed era impallidita vistosamente. Non era preparata ad affrontare una simile situazione.
«N-no, no. S-sto b-benissimo»
«Meglio così»
La voce di Jarvis rimbombò sulle pareti lisce dello scalone, facendole trasalire entrambe. La figura alta e scura riempiva la porta alle loro spalle, al capo opposto del ballatoio. Il freddo emanato dal minuscolo spettro si mischiava a quello della penombra ed allo strano brivido che la percorreva ogni qualvolta il maggiordomo compariva dal nulla, silenzioso e tetro. Non riusciva ad abituarsi a quei suoi modi distaccati e gelidi.
«Lascia in pace la signorina» disse, immobile sulla soglia.
Irritata, Isadora scosse il capo arruffando i capelli e batté i piedi, senza emettere alcun suono.
«Io voglio giocare!» strillò serrando i pugni.
Inutile opporsi alla volontà del mastro di corte. Ciò che decideva era legge e tutti dovevano obbedire.
«Lasciala stare. Ti ho avvisata» fu l’ordine perentorio.

***

Romilda aveva ascoltato il racconto dell’Archimaga con le mani sprofondate nell’acquaio, terminando di mondare le verdure per la cena.
«Mia cara, non fatevene un cruccio» disse, rivolgendole un sorriso quieto, materno. «Il nostro Jarvis è un po’ severo con Isadora, ma lo fa per il suo bene»
«Ma signora Romilda, l’ha fatta piangere!» obbiettò a mezza voce.
Si rese conto un secondo dopo di aver detto una sciocchezza: i fantasmi non potevano piangere, non avevano lacrime da versare. Tuttavia era quello che credeva d’aver visto, quando la piccola Visconti era fuggita via, passando attraverso il muro. Avrebbe voluto dirne quattro a quell’insensibile, ma quando si era voltata Carew si era già eclissato, annullando qualsiasi possibilità di replica.
La cuoca si avvicinò, asciugando le mani nel grembiule da cui pendeva una grossa mannaia. Il metallo della lama era lucido e pulito, al punto che si sarebbe potuto dubitare l’avesse mai utilizzata.
«Figliola, datemi retta. Le passerà presto. Succede sempre così fra quei due. Lui la sgrida, lei si arrabbia, gli tiene il muso, poi se ne dimentica e torna a giocare» le spiegò, poggiandole una mano ossuta sulla spalla.
Il gesto la rincuorò un poco, era la prima volta in venti giorni che quella donna osava tanto. Forse avrebbe continuato a darle del lei, ma di certo aveva preso a vederla sotto un’altra luce.
«Ecco qui, nonna. Ti bastano?» fece Ang, entrando con le braccia cariche di bottiglie di vino. «Uh, che brutta faccia! Cosa posso fare per farti sorridere? Un po’ di coccole? Un bacio? Due?» domandò ammiccando, nonostante i rimproveri della vecchina.
Amelia abbassò lo sguardo sul bicchiere di succo d’arancia, arrossendo meno del solito. Il pensiero era rivolto all’infelice ectoplasma che vagava afflitto per la villa. Non era riuscita a trovarla da nessuna parte, anche se l’aveva sentita gemere. Probabilmente era in una delle stanze chiuse a chiave o nel sottotetto.
Notando la sua espressione dispiaciuta ed assorta, lo stalliere pretese di conoscere l’accaduto.
«Oh, la nonna ha ragione, fragolina. Si sistemerà tutto, come sempre» la rassicurò dandole un buffetto sulla guancia.
«È quel che ho detto anch’io» fece eco la donnina, intenta a controllare le etichette. «Alzati di lì, scansafatiche! Queste devono essere sistemate! Non ci vanno da sole in dispensa»
Con un rantolo, Ang lasciò andare scompostamente testa, braccia e gambe ai lati della sedia su cui aveva appena preso posto, poi si rialzò, tamburellando con le mani sul tavolo. Quasi avessero udito un ordine, le bottiglie tintinnarono e presero a sfilare a mezz’aria come tanti soldatini scarlatti, dirette al grande armadio in fondo alla stanza.
«Quando è successo? Quando è…»
Cielo, non riusciva a dirlo. La sola idea la riempiva di tristezza. Ad esprimere quel concetto pensò il garzone mentre controllava le operazioni di rifornimento.
«Morta? Non saprei. Quando sono arrivato infestava il palazzo già da un bel pezzo»
«Potresti evitare di definirla “infestante”? È solo una bambina!»
«È un fantasma, Amelia»
Era odioso doverlo ammettere, ma aveva ragione anche lui.
«È anche un fantasma, Angelo» ribadì Romilda, asciugando una grossa pentola.
«D’accordo nonna, come vuoi. Resta il fatto che tale è»
Rattristata, Amelia chinò il capo.
«Su, vieni» disse tendendo la mano e ricevendo in cambio uno sguardo interrogativo. «Non vuoi conoscere tutti gli abitanti di questo posto?»

***

«Perché nessuno mi ha detto di Isadora?» fece ad un tratto.
Lo stalliere accalappiò un gattino, allungandoglielo mentre camminavano tra i box dove gli andalusi sonnecchiavano placidi. Dal canto suo la bestiola miagolava sommessamente per essere riportata a terra, i minuscoli artigli sfoderati per aggrapparsi alla maglietta di Amelia.
«Ang?» lo sollecitò.
Lui sospirò, levando gli occhi sulle travi impolverate.
«C’entra il signor Carew, non è così?» domandò sedendo su una balla di fieno, suscitando la sua ilarità.
«Non chiamarlo signor Carew, ti prego! Mi fa ridere!» sghignazzò, ricomponendosi subito dopo e prendendo posto lì accanto. «Le aveva chiesto di starti alla larga. L’hai vista, prende a prestito le cose per non restituirle più. Credo ci siano un sacco dei suoi “prestiti” sparsi in giro. Ogni tanto ne troviamo uno e vai a sapere a chi apparteneva o a cosa serviva! Jarvis non voleva che ti desse fastidio, tutto qui. Sa quant’è difficile il tuo lavoro»
L’Archiamga annuì, lasciando andare il gattino che immediatamente tornò dai fratellini. Chissà come, aveva la netta impressione che dietro quel cortese pensiero del maestro di palazzo non ci fosse un briciolo di effettiva preoccupazione per il suo operato.
Ang le stava a pochi centimetri, tanto che le loro mani si sfioravano. Lo scrutava con la coda dell’occhio, incerto. Temeva che  potesse attuare i suoi  propositi, ora che si trovavano soli. Carew non sarebbe accorso in suo aiuto, poteva scommetterci.
Ed ecco che dal portone che guardava ad ovest, entrò un cavallo. Era enorme, di un bel marrone scuro e lucente, con lunghi crini neri e ondulati. Sembrava uscito da una di rivista specializzata.
«Ah, eccoti qui! Si può sapere dove ti eri cacciato?»
Lo stallone avanzò tranquillo, puntando occhi e orecchie sulla donna. La nuova presenza l’aveva incuriosito, al punto da spingerlo ad avvicinarsi, più di quanto gli altri cavalli avessero fatto. Sembrava molto socievole, quasi cercasse la vicinanza delle persone.
«Amelia, ti presento Malcanto»
L’equino sbuffò, raspando con l’anteriore sul cemento.
«Di nuovo a mangiare, eh? Mi offendi quando fai così. Io divento pazzo per non farti mancare niente e tu te ne esci a rimpinzarti di robaccia!»
«Ehi, ciao bello» salutò sommessa l’Archiamga, tendendo la mano per accarezzarlo.
Mano che venne intercettata dallo stalliere.
«No, no, no. Ti sconsiglio di toccarlo. Non farlo mai, per nessuna ragione»
«Perché?»
«Primo: ha appena mangiato e non credo ti farebbe piacere sporcarti le mani con queste porcherie» e indicò il muso bruno.
Lei seguì con lo sguardo dove portava.
«Ang… che roba è?» chiese inorridita, indicando una cosa grigiastra che sporgeva dalla bocca dell’animale.
Lo stalliere si avvicinò, esaminando le dita tozze ed unghiute.
«Una nutria. E bella grossa. Sai, sono la sua passione» rispose battendogli una mano sul collo muscoloso.
«Ma i cavalli non mangiano le nutrie!»
Malcanto scrollò il testone e inghiottì l’avanzo di roditore, spalancando una bocca incredibilmente più ampia del normale, munita di zanne bianchissime ed aguzze. Non proprio la dentatura di un erbivoro.
«Secondo: Malcanto non è un cavallo»
Strabuzzando gli occhi per lo spavento, Amelia era indecisa sul chi dei due guardare: se l’elfo biondo che le stava facendo da cicerone o la splendida creatura simil-equina che l’annusava con respiri di inquietante profondità.
«Ma cosa…»
«Guardalo bene»
Se la stava prendendo in giro con qualche incantesimo, ci stava riuscendo alla perfezione: gli zoccoli di Malcanto erano simili a quelli delle capre e degli unicorni, di un allarmante bruno rossastro. E gli occhi parevano più grandi del nomale, più vivi, astuti, intelligenti. Di un’intelligenza diversa, non animale.
«Hai capito cos’è?»
«No» ammise, temendo di conoscere la risposta.
«Malcanto è un Incubo»
Un padrone assente, un maggiordomo arcigno, un elfo seduttore, la servitù poco incline ad accettarla, una fantasmina dispettosa ed ora anche un Incubo nelle scuderie. Cos’altro le era stato taciuto su Villa dei Gelsi e i suoi abitanti?


Un grazie ai lettori tutti, chiunque siate! Spero di veder crescere la lista dei nomi e dei recensori.
Per Emrys: accidenti quanta fretta! Lasciami il tempo di scrivere! Se Amelia non ha tirato una debita rispostaccia alla madre, come avrai capito, è solo perché è una persona fondamentalmente molto buona, al punto che persino per aver ragione di Jarvis non le occcorre alzare la voce. E' vero, il contrappunto tra il maggiordomo e lo stalliere è abbastanza evidente e continuerà ad esserlo, anche se l'intento non è proprio di rencere Ang un "grillo parlante". Che mi dici ora dell'ospite?
Per Gaea: lo so, sembra assurdo il fatto di introdurre così il mondo della magia, ma ci sarà tempo per approfondire la cosa. Ang per cosa sta? Uhm, tu che dici? Per un elfo il nome è poco scontato, almeno quanto i suoi poteri. Su Malcanto avevi visto giusto, ma ormai mi conosci, sai che sono solita a certe sorprese! Inclusi i... bambini fantasma.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Ely79