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Autore: pizia    18/07/2010    2 recensioni
Sauron ha di nuovo l'Anello, ma qualcosa gli impedisce ancora di sferrare il suo attacco definitivo alla Terra di Mezzo
Genere: Drammatico, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 14

TROPPO TARDI...

 

La battaglia era finita.

I pochi orchetti rimasti ancora in vita si diedero ad una fuga disordinata che il più delle volte non li salvò dalla morte. La piccola pianura antistante Osgiliath era ricoperta di cadaveri e di pile di corpi accatastati che bruciavano. Gli uomini di Gondor e Rohan separavano i loro morti dalle carcasse dei nemici, per poter offrire una degna sepoltura ai primi e dare invece in pasto al fuoco i secondi.

Eomer era inginocchiato accanto al corpo di suo zio e piangeva senza vergogna: nelle spazio di un pomeriggio aveva perso la sua famiglia. Prima suo zio, poi sua sorella. Quando aveva sentito Aragorn gridare il nome di Eowyn aveva desiderato, per un attimo, di poter morire anche lui insieme ai suoi cari. Non capiva come avesse potuto non accorgersi del fatto che insieme all’esercito ci fosse anche lei. L’aveva creduta al sicuro ad Edoras, e questa certezza lo aveva tranquillizzato: in realtà quel Rohirrim così strano e chiuso lo aveva insospettito fin dal primo momento, ma aveva preferito non indagare per non rischiare di vedere incrinate le poche certezze che gli permettevano di andare avanti. Ed ora si sentiva terribilmente in colpa per questo: Eowyn avrebbe potuto essere sana e salva a Meduseld in quel momento invece che nelle mani del nemico, probabilmente morta.

Gandalf gli si fece vicino, cercando di infondergli un minimo di conforto, ma anche lui era stravolto, stanco e ormai rassegnato: dopo l’Anello, anche Aragorn era infine caduto nelle mani del nemico e solo i Valar potevano sapere cosa sarebbe accaduto ora. Gli sembrava talmente assurdo che tutti i loro sforzi fossero stati completamente vani. Si ripeteva che poteva ancora sperare nell’integrità morale di Aragorn, ma presto si rese conto che il ramingo si sarebbe trovato a dover combattere da solo contro l’origine stessa del male: la sua lealtà non era in discussione, ma non sarebbe bastata. Era tutto finito: avevano vinto tutte le battaglie, ma questa volta Sauron aveva vinto la guerra.

Dalle strade di Osgiliath giunse Faramir: l’uomo sorrideva, evidentemente ignaro della cattura di Aragorn. Non appena vide i volti stravolti dei suoi amici tuttavia il volto del Sovrintendente di Gondor si rabbuiò: vedendo le lacrime di Eomer, istintivamente, prese a guardarsi intorno alla ricerca della figura di Eowyn, preso da un’ansia che, anche volendolo non avrebbe potuto mascherare.

“Dov’è Eowyn?” chiese, non vedendola.

Eomer alzò gli occhi su di lui, lo sguardo sofferente e minaccioso al tempo stesso: “Tu sapevi che lei era qui?” chiese trattenendo a stento la rabbia. “Tu sapevi che era qui e non hai fatto nulla per allontanarla da questa follia?” urlò di nuovo, alzandosi di scatto e cominciando a strattonare in malo modo Faramir.

“Eomer basta adesso!” intervenne Gandalf. “Faramir non ha alcuna colpa! E poi cosa penserebbero i vostri soldati se vi vedessero mettervi le mani addosso! La guerra contro Sauron è già abbastanza penosa, non c’è alcun bisogno di aggiungerne un’altra tra Gondor e Rohan!”

Il Rohirrim sembrò calmarsi, e dopo un attimo prese a scusarsi con Faramir: “Mi dispiace amico mio. Perdonami, ma sono sconvolto: in poche ore ho perso prima mio zio e poi mia sorella, e non so darmi pace per questo…”

Il fratello di Boromir sentì tutto d’un colpo l’aria mancargli dai polmoni, come se qualcuno lo avesse colpito violentemente in pieno petto: tutto quello che riuscì a fare fu di abbracciare Eomer, nel tentativo di alleviare così la pena di entrambi.

“L’ho riconosciuta solo questa mattina, quando eravamo già sul campo di battaglia. Per un po’ abbiamo combattuto fianco a fianco, poi però un’ondata di orchetti ci ha separati. Hai ragione Eomer avrei dovuto allontanarla dalla battaglia. Mi dispiace, non puoi nemmeno immaginare quanto…”

Fu Gandalf ad intervenire: “Ora bisogna radunare i nostri eserciti e fare ritorno a Minas Tirith: Minas Morgul è di nuovo libera, sono stati gli spettri dei Sentieri Morti a riconquistarla, quindi dobbiamo organizzare l’attacco a Mordor. Aragorn non potrà resistere a lungo al potere dell’Anello, ma ci concederà un po’ di tempo: non dobbiamo sprecarlo.”

 

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Entro sera i due eserciti erano in marcia verso la capitale di Gondor in cui arrivarono a notte fonda. La città tuttavia non dormiva, ed al loro arrivo sentirono le trombe e le campane suonare a festa, mentre la gente si riversava felice nelle strade a salutare coloro che li aveva salvati: avevano visto le orde di orchetti fuggire sotto i colpi dei loro eserciti e avevano pensato che la guerra fosse ormai vinta. Quello che stavano tributando a Faramir e ai suoi alleati era un autentico trionfo. Nessuno, nella folle gioia di chi ha visto dissolversi un orrendo incubo, si rese conto dei volti tirati e sconfortati degli uomini che facevano ritorno a casa. Restarono tutti un po’ delusi quando il loro Sovrintendente non si fermò nel grande piazzale a salutarli e ad aprire ufficialmente le celebrazioni per la vittoria, come era sempre stata tradizione in città, ma attribuirono quella mancanza alla grande stanchezza che sicuramente gravava su tutti loro e così non protestarono, continuando tuttavia a festeggiare proprio come se Faramir avesse dato il via ai festeggiamenti.

“Hanno diritto di sapere la verità, Faramir” gli disse Gandalf, non appena si ritrovò per un attimo da solo con il figlio minore di Denethor. “Ed è tuo dovere dirgliela!”

“Non possono festeggiare per almeno una notte? Sauron non attaccherà certo oggi...” chiese il giovane, ben sapendo che quella non era una grande idea. Eppure aveva visto la sua gente felice, dopo tanto tempo che sui loro volti non aveva visto altro che sorrisi tirati, e non se la sentiva di infrangere tutti i loro sogni.

“E’ una felicità basata su una menzogna Faramir: credono che sia tutto finito e che da domani potranno tornare a vivere la loro vita, ma sappiamo tutti che è un’illusione e che ormai abbiamo ben poche speranze di riuscire a sconfiggere il nemico. E’ loro diritto conoscere la verità. So che vuoi solo il bene della tua gente, ma illuderli, anche solo per una notte, non sarà il loro bene. Minas Tirith non è caduta sinora anche grazie alla determinazione dei suoi abitanti: non possono abbassare la guardia proprio ora che ne abbiamo più bisogno, o la città sarà persa prima ancora che tutto questo orrore finisca.”

Faramir sospirò profondamente: riconosceva l’assoluta verità nelle parole dello stregone, ma avrebbe preferito di gran lunga tornare sul campo di battaglia a combattere contro un’altra intera orda di orchetti piuttosto che affrontare quell’ingrato compito.

Scese di nuovo nella piazza principale della città antistante il palazzo, e quando la gente si accorse di lui lo accolse con grandi acclamazioni, quindi tacque quasi improvvisamente per ascoltare quello che il loro Sovrintendente aveva da dire.

Per Faramir non fu facile affrontarli: vide la gioia man mano spegnersi nei loro occhi per lasciare il posto prima alla delusione e all’incredulità, poi all’amarezza, alla rabbia, e infine alla disperazione.

Parlò loro anche di Aragorn e di tutto ciò che aveva fatto prima di cadere nelle mani del nemico: spiegò loro che egli era l’erede di Isildur, l’ultima pedina che mancava a Sauron per realizzare i suoi piani di conquista. Da tempo la notizia della ricomparsa di un legittimo erede al trono di Gondor circolava in città, ma tutti avevano sempre pensato che non si trattasse di altro che una leggenda: da secoli non c’erano più re a Minas Tirith e quando anche il regno di Arnor, nel Nord, era infine caduto, si era quasi addirittura persa memoria dei Numenoreani. Un silenzio quasi irreale regnò sulla città mentre la gente, persa qualsiasi voglia di fare baldoria, tornava alle proprie case e ai propri incubi.

Rientrato nel palazzo Faramir trovò sveglio solo Gandalf, con il quale si fermò a parlare per un po’, cercando di dar sfogo a tutto quello che provava, proprio come quando era più giovane e lo stregone veniva a fargli visita.

“Ora andiamo a riposare per quello che rimane della notte, amico mio. Domani dovremo organizzare l’attacco a Mordor e possibilmente metterci già in marcia: è una missione totalmente suicida, ma se non la intraprendiamo moriremo comunque. E poi non mi piace l’idea di abbandonare Aragorn in balia di Sauron senza nemmeno fare un tentativo per aiutarlo...” disse infine Gandalf.

Faramir annuì convinto: considerava ormai Aragorn un amico, prima ancora che il suo re, e nel suo cuore covava la speranza che Eowyn fosse ancora viva. Accompagnò lo stregone in quella che una volta era stata la stanza di suo padre, quindi si ritirò nella propria, concedendosi di scoppiare a piangere solo poco prima che il sonno lo cogliesse.

 

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Nella loro avanzata verso Barad-dur, Legolas, Gimli e i pochi componenti del loro manipolo non incontrarono grandi resistenze. Il nemico ormai sapeva della loro presenza, ma sembrava non potersi occupare di loro: avevano visto intere squadre di orchetti ed Uruk-hai abbandonare di corsa quelle terre morte dirigendosi verso ovest e verso nord, segno inequivocabile che l’attacco congiunto stava sortendo gli effetti desiderati.

“Non so se sentirmi più contento o più offeso per questa totale mancanza di considerazione” bofonchiò Gimli, strappando un sorriso a Legolas e Mariel.

“Credo che arriverà fin troppo presto il momento in cui potrai brandire la tua ascia amico mio” disse l’elfo. “Guarda, ecco là la Nera Torre: siamo vicini alla meta e alla resa dei conti!”

Avanzarono veloci e in silenzio fino ai cancelli della costruzione, e qui si arrestarono, nascosti dietro ad un’imponente conformazione rocciosa, in attesa che l’oscurità celasse le loro mosse. Fu proprio durante questa attesa che videro un’orrenda creatura alata fendere il cielo nero di Mordor, lanciando nell’aria urla di morte e di vittoria: gli occhi elfici di Legolas e Mariel non ebbero difficoltà a riconoscere i corpi, apparentemente senza vita, di Aragorn ed Eowyn tra gli artigli del mostro. Legolas represse un grido di orrore e Mariel e Gimli ebbero il loro bel da fare per impedire al principe del Mirkwood di precipitarsi verso la torre. Il nano non aveva ancora compreso cosa avesse sconvolto tanto l’amico, ma era chiaro che doveva impedirgli quella follia suicida, qualunque fossero i motivi che lo stavano spingendo a compierla.

“Lasciatemi!” gridava Legolas, dimenandosi furiosamente. “Dobbiamo aiutarli! Non possiamo abbandonarli così!”

“Non li abbandoneremo, ma non li aiuteremo di certo facendoci ammazzare!” esclamò imperiosamente Mariel, dando uno strattone più forte degli altri al suo amato, riuscendo apparentemente a farlo calmare un po’.

“Cosa è successo? Perché d’improvviso tutta questa agitazione? Chi dobbiamo aiutare?” chiese Gimli trafelato.

Fu Mariel a rispondere, dato che Legolas sembrava ancora decisamente troppo scosso: “Quella orribile creatura di poco prima stringeva tra gli artigli Aragorn ed Eowyn. E’ chiaro a questo punto che non possiamo aspettare che cali la notte: dobbiamo avanzare adesso, ma dobbiamo farlo con raziocinio…” disse la guerriera guardando storto Legolas. “La truppa di guardia alla porta è ben  fornita, ma se agiamo con astuzia e attenzione potremmo riuscire ad eliminarne una metà prima ancora di giungere in un corpo a corpo. Mentre tu e i tuoi nani avanzerete cercando di tenervi sempre al riparo delle rocce, noi arcieri usciremo allo scoperto e li tempesteremo di frecce: loro non dispongono di armi da distanza e quindi dovremmo essere relativamente al sicuro. Quando si organizzeranno e ci attaccheranno interverrete voi: se ci attaccheranno in massa lascerete che facciano e poi li prenderemo tra due fuochi; se invece ci attaccherà solo un piccolo gruppo lo lascerete a noi e vi dedicherete al resto della guarnigione.”

“Credo che possa funzionare” disse Gimli. “Ma niente colpi di testa…” disse guardando Legolas che annuì rassegnato. “Perdere un amico come Aragorn sarebbe un duro colpo, ma perderne due sarebbe peggio!” concluse il nano, battendo una mano sul braccio dell’elfo, riuscendo a farlo sorridere nonostante tutto.

Il piano venne effettuato proprio così come era stato programmato e il piccolo manipolo di Elfi e Nani riuscì così a penetrare nella torre senza riportare danni troppo grossi. Purtroppo però era stato dato l’allarme e da quel momento in poi la loro avanzata sarebbe stata una lotta continua, ma il sapere Aragorn ed Eowyn nelle mani del nemico aveva stravolto tutti i loro piani e quello era il prezzo da pagare.

 

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Aragorn riaprì lentamente gli occhi: per un attimo si chiese se fosse vivo o morto, ma il dolore che proveniva da ogni parte del suo corpo lo convinse di essere ancora nella Terra di Mezzo. Era disteso su un duro tavolo di legno grezzo e quando provò a muovere gambe e braccia scoprì di essere legato. Non riusciva ancora a realizzare cosa fosse successo e dove si trovasse in quel momento: non appena mosse la testa fu colto da un violento attacco di nausea e la stanza intorno a sé cominciò a ruotare vorticosamente. Perse di nuovo i sensi per qualche tempo.

Quando qualche minuto dopo si riprese e fece di nuovo per tentare di muoversi, una voce che gli sembrava giungere dal cuore di una nebbia fitta ed ovattata, gli giunse alle orecchie: “Io non proverei di nuovo a muovermi, figlio di Isildur. Purtroppo quando la cavalcatura del Nazgul ha lasciato la presa sul tuo corpo sei caduto a terra sbattendo violentemente la testa. Non era nostra intenzione procurarti un simile danno, ma è capitato ed ora se non vuoi svenire di nuovo ti consiglio di non fare troppi movimenti.”

Aragorn non riusciva a vedere il suo interlocutore, ma il sarcasmo della sua voce era inequivocabile.

“Chi sei? E dove sono? Cosa vuoi da me?” chiese il ramingo, senza comprendere sino in fondo dove avesse trovato la forza di parlare.

“Saruman il Bianco è il mio nome, e sei nella Nera Torre di Barad-dur: ormai hai finito di opporti al volere di Sauron, Aragorn figlio di Arathorn. Devo riconoscere che tu e i tuoi amici ci avete dato del bel filo da torcere, ma ora è tutto finito. Quello che vogliamo da te è il tuo corpo in modo che l’Oscuro Signore possa di nuovo avere una dimensione fisica e la tua capacità di comandare l’Unico Anello” disse lo stregone.

“Tu sei pazzo!” ringhiò Aragorn. “Io non ho alcun potere sull’Anello di Sauron.”

“Questo è quello che credi tu, e quello che credeva Sauron prima di scoprire di non poterlo più comandare. Quello che hai chiamato Anello di Sauron è in realtà ormai l’Anello di Isildur: è il tuo illustre avo colui che l’ha usato per l’ultima volta. I suoi intenti, almeno inizialmente, erano probabilmente buoni, ma il contatto costante con quel piccolo cerchio di metallo lo ha piano piano corrotto, fino a diventarne schiavo, oltre che padrone. L’Anello si è fuso con la sua stessa anima ed ha riconosciuto in lui un nuovo nero padrone. Ora il sangue di Isildur scorre nelle tue vene, e l’Anello riconosce te come suo unico e legittimo padrone. Sauron non è stato molto contento quando lo ha scoperto, ma non si è perso d’animo e ha cominciato a cercarti: è stato un vero colpo di fortuna che tu stesso ti sia rivelato a lui attraverso il Palanthir… Ora finalmente Sauron ha sia l’Anello che l’erede di Isildur: nulla più si potrà opporre alla sua vittoria, nemmeno i tuoi valorosi compagni. Tutti vostri sforzi sono stati vani e tutte le vostre vittorie effimere: avete vinto molte battaglie, lo devo ammettere, ma la guerra la vinceremo noi…”

Aragorn sorrise amaramente: “La guerra la vincerà Sauron, non ‘voi’… Possibile che un uomo della tua intelligenza non abbia capito che ti ha solo usato? Credi davvero che Sauron dividerà con te la sua vittoria? Immagino che lui ti consideri forse ancora addirittura meno di quanto tu consideri quell’essere abbietto che è Grima Vermilinguo. Si è servito di te, Saruman il Bianco, e se otterrà quello che desidera tu sarai probabilmente il primo a venir spazzato via: non posso credere che tu abbia creduto alle sue parole…”

“Taci!” gli ordinò Saruman. “Non sai nemmeno di cosa stai parlando! Non riuscirai ad indebolirci dividendoci: il tuo è stato un goffo tentativo, ma io non sono uno stupido!”

“Io credo di sì!” disse Aragorn, provocandolo e schernendolo volutamente.

“Come osi!” disse lo stregone a denti stretti.

Aragorn non poteva vedere il suo volto contratto dalla collera, ma poteva sentire lo stridore dei suoi denti digrignati, e quindi decise di continuare: “Se avessi avuto anche solo un briciolo di buon senso avresti fiutato subito l’inganno, proprio come ha fatto Gandalf: probabilmente morirà anche lui, ma almeno lo farà con onore, non come te che creperai quando più ti senti al sicuro e convinto di aver vinto! Sei molto peggio di uno stupido, Saruman, e mi chiedo come per millenni tu possa essere stato a capo degli Istari al posto di Gandalf!”

“Adesso basta, insolente mortale che non sei altro! Ti chiuderò la bocca una volta per tutte!” disse Saruman puntando contro di lui il suo bastone.

Aragorn chiuse gli occhi.

“Fermo mio signore!” intervenne Vermilinguo, entrato nella stanza proprio in quel momento. “Non capite che sta cercando di provocarvi! Se lo uccidete tutti i nostri piani andranno in fumo e la collera di Sauron sarà incontenibile: è esattamente quello che lui vuole, non cadete nella sua trappola!”

Lo stregone sembrò lentamente ritornare in sé.

“Avrei dovuto lasciare che Re Theoden ti uccidesse Grima” disse Aragorn maledicendo il piccolo omuncolo che aveva mandato all’aria il suo piano.

“Probabilmente avresti dovuto, ma ti ringrazio di averlo fermato…” gli rispose Vermilinguo con un ghigno. “Ora se non ti dispiace ho ospiti più gradevoli con cui intrattenermi, e devo organizzare le mie nozze con la Bianca Dama di Rohan, l’unico bel ricordo del mio soggiorno a Meduseld.”

Aragorn si irrigidì visibilmente, dando diversi ed inutili strattoni alle catene che gli immobilizzavano mani e piedi. Ancora una volta cercò di muovere la testa, e ancora una volta si sentì sopraffare dalla nausea, ma strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi della mani pur di non perdere i sensi un’altra volta. Quando riprese il controllo su se stesso, Grima Vermilinguo aveva già abbandonato la stanza.

“Lei come sta?” chiese senza alcuna espressione nella voce.

“E’ stata curata e si riprenderà: devo ammettere che non è una donna comune…” gli rispose Saruman sbeffeggiandolo. “Ovviamente se lei è qui non è perché possa sposare Grima, anche se lui  lo crede. Lei è qui per assicurarci la tua collaborazione: le mie spie mi hanno riferito con fin troppi particolari che l’immagine della signora di Rohan ha cancellato da tempo quella della Stella del Vespro dal tuo cuore, e stai tranquillo che se non collaborerai con noi lei sarà la prima a pagare le conseguenze della tua ribellione. Non vorrai per caso che il suo bel sorriso angelico si debba spegnere per sempre a causa tua, vero Aragorn?”

“Sbagli Saruman, nessuno potrà mai cancellare Arwen dal mio cuore. Non so cosa ti abbiano riferito le tue spie, ma Eowyn non significa molto per me. Certo è un’amica, e potrei anche definirla una piacevole distrazione, ma se credi che venderò l’intera Terra di Mezzo per salvare lei o me stesso ti sbagli di grosso. Arwen è ormai al di là del mare e non potete farle alcun male: il resto non mi importa. Di Eowyn di Rohan non mi importa…”

Saruman rimase interdetto: era certo che l’uomo stesse mentendo, eppure sembrava assolutamente sincero e sicuro di ciò che stava dicendo.

Dal canto suo Aragorn sentì la nausea che tornava a sopraffarlo, e questa volta non aveva minimamente mosso la testa. Le parole che aveva appena pronunciato ferivano le sue stesse orecchie e aprivano ferite mai chiuse nel suo cuore: il ricordo di Arwen era ancora molto doloroso, e ancora più dolorosa era la consapevolezza che il suo nemico aveva perfettamente ragione quando affermava che l’aveva dimenticata fin troppo in fretta per Eowyn. Si sentiva dannatamente in colpa, e allo stesso tempo in lui cresceva la certezza di amare la dama di Rohan: quando l’aveva vista crollare al suolo dopo aver ucciso il Re Stregone aveva pensato che il mondo intorno a lui avrebbe anche potuto essere distrutto, che non gli importava più nulla, e che l’unica cosa che desiderava era che lei riaprisse gli occhi, gli sorridesse e lo baciasse. Ora tuttavia non poteva permettere che ritorcessero su di lei le sue resistenze e quindi doveva convincerli che lei contava meno di zero per lui, doveva convincerli che non si sarebbero potuti servire di lei per ottenere quello che volevano. L’idea che Vermilinguo potesse anche solo sfiorarla gli faceva in realtà ribollire il sangue nelle vene, provocandogli un ronzio nelle orecchie che minacciava di sopraffare ogni altro rumore, ma per il bene di Eowyn doveva dissimulare tutto quello che provava e sperare che Saruman fosse davvero tanto stupido da cadere un’altra volta nella sua trappola.

Saruman continuava a fissarlo interdetto, ma deciso a non lasciarsi sconfortare dalla situazione: se davvero all’erede di Isildur non importava nulla della nipote di Theoden avrebbero trovato un altro modo per fiaccare la sua resistenza.

“Bene Aragorn, se ti interessa tanto poco di lei immagino che non ti dispiacerà troppo se la eliminiamo: è ancora viva solo perché credevamo potesse servirci, ma se ci sbagliavamo…”

Aragorn per qualche attimo non disse una parola. Sentiva il cuore battere talmente violentemente da minacciare di schizzargli fuori dal petto, ma al tempo stesso tentava di imporsi di non reagire in maniera troppo violenta, per non tradirsi e per non tradire Eowyn: tuttavia si trovava in un vicolo cieco, e se ne rendeva conto fin troppo bene.

Se avesse continuato nella sua finzione Eowyn sarebbe stata uccisa; se invece si fosse ribellato la sua messa in scena sarebbe stata smascherata e la donna avrebbe pagato ogni sua azione. Avrebbe potuto parlare con Vermilinguo tentando di far presa sui suoi sentimenti, ma era un piano troppo rischioso: primo non poteva avere la certezza di riuscire a parlare con l’uomo da solo e secondo non si fidava di lui più di quanto si sarebbe fidato di un serpente a sonagli.

Continuare a mentire avrebbe solo peggiorato la situazione e quindi sussurrò a denti stretti: “Provate a torcerle un capello e non esisterà luogo nella Terra di Mezzo o in qualsiasi altro mondo in cui io non vi perseguiterò!”

“Adesso ti riconosco re di Gondor!” esclamò Saruman, scoppiando in una risata denigratoria e sguaiata. “Basterà che tu faccia tutto quello che ti diremo e alla Bianca Dama di Rohan non verrà fatto alcun male. Adesso riposati ancora un po’, ci servi relativamente in forze. Intanto però comincia a familiarizzare con il tuo nuovo amico: spero che andrete d’accordo perché presto sarete un tutt’uno…”

Così dicendo si avvicinò minacciosamente all’asse di legno su cui Aragorn era disteso, frugando nelle tasche della sua veste alla ricerca di qualcosa.

Quando Aragorn comprese quale fosse l’oggetto della sua ricerca strinse entrambe le mani a pugno con tutta la forza possibile proprio mentre Saruman estraeva l’Unico Anello.

“Così non va bene, erede di Isildur: devi collaborare o sarò costretto a sfigurare il bel faccino di Lady Eowyn…”

Quando vide che i pugni di Aragorn continuavano a restare serrati cominciò a percuotere il suo avambraccio destro con il bastone, con una violenza sempre crescente che costrinse il ramingo prima ad urlare per il dolore e poi a dischiudere il pugno.

Era esattamente ciò che lo Stregone voleva, e non perse tempo, non appena la mano di Aragorn si aprì, ad infilargli al dito l’Anello del Potere.

Vedendo che Aragorn, una volta indossato l’anello, non spariva alla sua vista, Saruman sorrise trionfante: “Questa volta Sauron non si è sbagliato: se tu non fossi stato il legittimo proprietario dell’Anello ora il suo potere avrebbe vinto su di te e tu saresti sparito alla mia vista. Ma il tuo potere su di lui è grande, tu sei il suo padrone e l’Anello ti ha riconosciuto come tale, e quindi non è lui che ha effetto su di te, ma sei tu che lo comandi… o che imparerai a comandarlo… Ora dobbiamo solo attendere che tu e lui diventiate di nuovo una cosa sola e che l’Oscuro Signore possa finalmente riavere un corpo, e poi la vittoria sarà totale, più nessuno potrà opporsi al nostro potere. Ti conviene passare subito dalla nostra parte, dalle parte dei vincenti, Aragorn, e tutto sarà più semplice per tutti.”

Aragorn si dimenava furiosamente, tentando inutilmente di sfilarsi dal dito quel cerchio di freddo metallo di cui già avvertiva distintamente il potere.

“Tu sei pazzo se credi che io potrò mai passare dalla vostra parte! Scordatevelo! Mi ammazzo con le mie stesse mani piuttosto!” sibilò furiosamente il ramingo.

“Bisogna sempre vedere se ci riesci…” lo schernì lo Stregone, divertendosi come rare volte gli era accaduto prima. “E comunque non abbiamo bisogno del tuo consenso per fare quello che dobbiamo fare: lo dicevo solo per te, per rendere la cosa per te e per Eowyn un po’ meno penosa. Ti ho dato una possibilità, così come a suo tempo l’avevo data a Gandalf, ma a quanto pare tu sei persino più sciocco di lui. Fai come vuoi: come ti ho detto, non ci serve il tuo permesso…”

Ad Aragorn parve che la catena che gli immobilizzava il polso destro si facesse via via più stretta, ma si rese presto conto che era in realtà il suo braccio che si stava gonfiando a causa delle percosse subite: muoveva la mano e quindi qualsiasi frattura era da escludersi, eppure il gonfiore aumentava e con esso il dolore. Le fitte alla nuca diventavano poi sempre più violente causandogli ondate di nausea che lo lasciavano sempre più debole e alla mercé dell’Anello. Non voleva svenire perché sapeva che la sua mente, durante il sonno, sarebbe stata più vulnerabile alle lusinghe e alle promesse di potere e grandezza che avevano già sopraffatto un uomo valoroso e giusto qual era stato Isildur; voleva assolutamente essere vigile e opporre la forza della sua volontà a quella dell’Anello.

Non voleva perdere i sensi, ma fu quello che accadde quando Saruman, vedendolo lottare, lo strattonò violentemente per i capelli, scuotendogli la testa già dolorante, esclamando: “Ho detto che è ora di riposare un po’!”

 

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Gimli imprecò per l’ennesima volta: erano più di due ore che tentavano di salire, combattendo per conquistare ogni singolo gradino, verso l’alto della torre, ma l’intrico di rampe di scale che partivano dalla base formavano un autentico labirinto. Inoltre qualche sortilegio doveva essere all’opera dato che sebbene continuassero a salire e a sentire la fatica affollarsi nella loro gambe, ogni tre o quattro rampe si ritrovavano inesorabilmente al punto di partenza, davanti al portone di ingresso della torre. Ogni volta dovevano ricominciare da capo, trovando sempre nuove creature e nuove trappole ad attenderli: se avessero continuato in quel modo ci sarebbero potuti voler giorni interi solo per riuscire ad arrivare al primo piano.

“Di cosa ti sorprendi Gimli?” gli chiese Legolas furioso. “Saruman è riuscito a scatenarci contro una tempesta senza pari sul Caradhras: questo in confronto sarà un trucchetti da principianti…”

“Se almeno ci fosse Gandalf…” brontolò il nano.

“Ma Gandalf non c’è! Quindi forza e coraggio e ricominciamo: una via per salire ci deve essere senza dubbio e noi la troveremo!” esclamò Mariel riprendendo a salire sui primi gradini di una delle tante scalinate che partivano dall’androne di ingresso.

Un passo falso e la pietra su cui poggiò il piede si abbassò sotto il leggero peso dell’elfa. Mariel si guardò intorno, cercando di scoprire da che parte sarebbe giunto il colpo azionato dalla trappola, ma tutto quello che successe fu che l’ampio portone alle loro spalle si chiuse con un profondo tonfo. A nulla valsero i tentativi di elfi e nani di riaprirlo: erano in trappola.

“Se volevi convincerci a riprovare, Mariel, ci sei riuscita perfettamente…” la prese bonariamente in giro Gimli. “Ora non ci resta che trovare questa unica via che ci porterà in cima alla torre… Coraggio allora: si ricomincia!”

 

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La lotta si era spostata dalle Dagorlad al passo di Morannon: gli eserciti di Saruman erano in ritirata, ma il Nero Cancello rappresentava ancora una barriera invalicabile e ben lungi dall’essere conquistata.

Era apparentemente deserto e incustodito, ma i suoi battenti erano sprangati e non sarebbe bastato un esercito dieci volte più numeroso di quello che era ai comandi di Elrond, Celeborn, Thranduil e Thorin  per aprirlo a forza bruta o per abbatterlo.

L’unica alternativa era quella di scalarlo e, una volta arrivati in vetta comprendere quale meccanismo ne consentisse apertura e azionarlo in modo che il resto dell’esercito avesse libero accesso a Mordor. Il piano tuttavia era molto rischioso. Il primo morivo di rischio era che i Monti Cenere non erano montagne che si lasciassero scalare facilmente: le loro pareti nei pressi del cancello erano costituite da costoni di roccia nuda e scivolosa a causa dei muschi che vi crescevano dato che, essendo esposte a nord, non venivano mai illuminate e riscaldate dalla luce del sole; inoltre l’esposizione ai forti venti aveva reso affilati e taglienti i bordi delle rocce, così che un solo passo falso sarebbe stato sufficiente a morire con l’osso del collo rotto o con il ventre squarciato.

In secondo luogo nessuno si fidava minimamente dell’apparente abbandono del cancello: era semplicemente assurdo che Sauron lasciasse completamente sguarnita la principale via d’accesso al suo regno. Di sicuro numerosi orchetti rimanevano ancora a sorvegliare il passaggio e di certo non sarebbero stati a guardare mentre un piccolo gruppo di elfi e nani spianava la strada verso Barad-dur all’esercito nemico.

Inoltre il tempo non era un fattore che giocasse a loro favore: avevano sentito le trombe di Minas Tirith squillare a festa celebrando la vittoria, ma poi la figura del Nazgul e dei suoi due prigionieri non era sfuggita nemmeno a loro, e la gioia era morta nei loro cuori.

Elrond in particolare era rimasto molto scosso nel constatare la cattura di Aragorn: aveva sempre affermato, anche con se stesso, di amarlo come un figlio, ma solo in quel momento si rese conto di quanto le sue parole fossero vere. Soffriva all’idea del destino mortale che glielo avrebbe portato via; soffriva all’idea di non poterlo portare con sé oltre il mare, a Valinor; soffriva nella consapevolezza di avergli inferto un brutto colpo allontanando per sempre da lui Arwen; e soffriva nel sapere che, se avessero vinto, la vita che lo attendeva era ben lungi dall’essere quella che Aragorn aveva sempre desiderato per sé.

Ora poi tremava all’idea della lotta che avrebbe dovuto sostenere per non soccombere al volere del nemico: non dubitava della sua integrità e sapeva con certezza che avrebbe lottato fino allo stremo delle forze prima di arrendersi, ma sapeva anche che un uomo, per quanto forte e giusto fosse, non poteva opporsi, da solo, a Sauron.

Una volta era successo, con Isildur, ma era stato frutto del caso: il figlio di Elendil era diventato eroe per un colpo di fortuna. Aveva cercato di difendere se stesso e suo padre morente e aveva distrutto l’Oscuro Signore. Isildur non aveva avuto nessuna intenzione di staccare il dito in cui Sauron aveva tenuto l’Anello del Potere: aveva brandito ciò che restava di Narsil in un gesto istintivo di autodifesa e i Valar avevano guidato la sua mano ad infliggere l’unica ferita che avrebbe potuto annientare il nemico. Isildur era diventato il salvatore della Terra di Mezzo quasi senza averlo voluto, ed ora aspettarsi che un simile colpo di fortuna potesse ripetersi era francamente attendersi troppo. Anche se Aragorn ne avrebbe veramente avuto bisogno e lo avrebbe meritato molto di più di quanto non lo avesse meritato Isildur.

Il suo cammino era stato molto più lungo, travagliato e pericoloso di quello di Isildur: Aragorn non lottava per salvare la sua vita o quella di coloro che amava. Aveva accettato un destino che non voleva solo ed esclusivamente per il bene di tutti, sacrificando tutto ciò che era importante per lui in nome del bene della Terra di Mezzo.

Se i Valar gli avessero concesso di sopravvivere a quella guerra, anche lui sarebbe diventato un eroe, ma non per caso.

Lui era la speranza di riscatto per la razza degli Uomini ai quali sarebbe stata affidata la Terra di Mezzo una volta che tutti gli Elfi l’avessero abbandonata per le Terre Immortali: al momento gli Uomini non erano ancora pronti per un simile compito, ma Aragorn avrebbe avuto la forza e il potere di riunirli e di guidarli nella loro missione. Le speranze di sopravvivenza di Arda erano riposte in lui e il suo compito più difficile sarebbe iniziato in realtà solo dopo aver sconfitto Sauron, perché a quel punto sarebbe rimasto solo: valorosi amici lo avevano affiancato per gran parte della sua lotta contro Sauron, ma se avessero vinto sarebbe stato lui solo a diventare re di Gondor e a caricarsi sulle spalle il fardello di condurre la sua razza all’unità, alla saggezza e alla consapevolezza necessarie per salvare la Terra di Mezzo.

Li conosceva bene entrambi, ed Elrond non aveva nessuna difficoltà a riconoscere che Aragorn fosse di gran lunga migliore di Isildur, e l’idea di vederlo soccombere a Sauron gli straziava il cuore persino di più di quanto glielo avesse straziato il tradimento del suo illustre antenato. Se avessero perso Aragorn, sconfiggere Sauron, ammesso che ciò fosse possibile, sarebbe servito a poco dato che avrebbe solo rimandato la rovina della Terra di Mezzo che, abbandonata nelle mani della razza degli Uomini, sarebbe perita nel giro di poche centinaia di anni, distrutta dal loro stesso odio.

Per questo motivo, oltre che per l’affetto paterno che nutriva nei confronti di colui che, nella sua mente, spesso chiamava ancora con il nome Estel, il Nero Cancello rappresentava per Elrond una barriera ancora più insopportabilmente invalicabile. L’essere a pochi chilometri dalla meta e non riuscire a raggiungerla nello stesso momento in cui Aragorn avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di tutti i suoi amici, gli risultava inaccettabile e fu così che, dopo l’ennesimo tentativo di scalata andato male, decise di tentare lui stesso quell’impresa.

Almeno non resterò con le mani in mano mentre lui lotta da solo contro Sauron!” pensò selvaggiamente mentre si apprestava alla scalata.

A nulla valsero le parole di Thranduil e Celeborn che tentarono di dissuaderlo dal suo proposito, e che alla fine dovettero arrendersi ad osservarlo inerpicarsi sulla parete praticamente verticale. Un paio di volte si ritrovò a rovinare di nuovo a terra, fortunatamente non da una grande altezza e procurandosi solo uno brutto squarcio in un polpaccio. Tuttavia non rinunciò e alla fine, dopo quasi un’intera giornata, insieme ad altri tre elfi, riuscì finalmente a raggiungere la cresta all’altezza del passatoio sopra al cancello.

Gli bastò un semplice sguardo per comprendere che l’apertura e la chiusura del cancello erano consentiti dalla forza brutale di due troll di caverna incatenati che, al suono di un corno, prendevano a far girare una pesante ruota che azionava l’apertura del cancello. Quello che lo lasciò sorpreso fu il constatare che il cancello era veramente incustodito: evidentemente anche il gruppo scelto era riuscito a penetrare a Mordor e a richiamare per affrontarlo anche quegli orchetti che ancora vi rimanevano. Probabilmente avevano ritenuto che la morfologia stessa del terreno intorno al cancello e la sua massiccia pesantezza fossero sufficienti a scoraggiare qualsiasi tentativo di intrusione: ripensando alla fatica fatta e agli uomini persi duranti la scalata, Elrond non si sentiva di dare completamente torto ai suoi nemici, anche perché il loro arrivo sarebbe stato comunque inevitabilmente annunciato dal suono del corno necessario a far muovere i troll… Quello era un problema a cui non avrebbero potuto rimediare nemmeno escogitando una soluzione alternativa fino alla fine dei secoli: i troll di caverna erano forse gli esseri più stupidi presenti nella Terra di Mezzo, e se quelli presenti al cancello erano stati addestrati, o meglio, costretti ad aprire il cancello al suono del corno, lo avrebbero aperto sempre e solo in quella maniera. Non c’era modo di indurli a farlo in altro modo. Quando avrebbero aperto il cancello tutto Mordor lo avrebbe saputo: era inevitabile e significava che avrebbero dovuto combattere di nuovo per poter avanzare. Così, senza poter far nulla di diverso, Elrond soffiò nel corno e un suono basso ma molto potente di diffuse nell’aria, dando poi l’impressione di venir amplificato a dismisura dalle pareti delle montagne che circondavano il passaggio: i troll cominciarono a muoversi, e il cancello ad aprirsi quasi per magia. Senza farselo ripetere due volte l’esercito di Elfi e Nani fece così il suo ingresso a Mordor: quello era veramente l’attacco decisivo e tutti ne erano estremamente coscienti. A poca distanza da loro vedevano stagliarsi il Monte Fato e, poco più in là, la torre di Barad-dur: anche se il cancello rimase aperto alle loro spalle, tutti seppero che ormai era troppo tardi per tirarsi indietro. Così avanzarono verso il nemico e il loro destino, in aiuto di Aragorn e della Terra di Mezzo.

 

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Un’altra giornata stava passando lentamente.

Aragorn era ancora completamente solo, legato all’asse di legno che gli faceva da letto, in completo isolamento. Ormai non sentiva più nemmeno il dolore delle articolazioni delle spalle, delle braccia e delle ginocchia, immobilizzate nella stessa posizione da troppo tempo.

Per impedirgli di riprendere forze con cui continuare ad opporsi all’Anello non gli portavano da mangiare, e solo una volta al giorno qualche immondo orchetto gli portava un po’ d’acqua da bere.

Oltre all’indebolimento fisico miravano a raggiungere anche quello psicologico, e il completo isolamento era la tattica che avevano deciso di adoperare: senza aver modo di distrarsi o di parlare con qualcuno, non gli restava che ascoltare la voce dell’Anello che continuava a lusingarlo con immagini di potere e grandezza incontrastati.

Da dopo il colloquio con Saruman solo una volta Vermilinguo era passato nella piccola stanza che gli faceva da cella: gli aveva chiesto come stesse Eowyn e lui non gli aveva risposto, ma dal suo sguardo aveva compreso che la sua situazione non era migliorata e che la ragazza continuava a non risvegliarsi. Aveva allora dato a Grima della Foglia di Re che portava sempre con sé in un piccolo sacchetto di pelle che teneva legato alla cintura. Gli spiegò come utilizzarla, ringraziando, per una volta, che l’uomo fosse innamorato di lei. Da allora non lo aveva più visto e non aveva saputo più nulla riguardo alla salute di Eowyn: conosceva bene gli effetti della pianta medicinale quando le sue foglie erano fresche e si augurò che l’effetto ridotto che si otteneva da quelle secche fosse comunque sufficiente a riportarla indietro e a salvarla.

La preoccupazione per Eowyn, il ricordo dei suoi compagni e i suoni di battaglia che ogni tanto gli giungevano attutiti attraverso la finestra erano le sole cose che permettessero alla sua mente di non soccombere al potere dell’Anello: lo avvertiva tentare di insidiarsi nella sua mente in maniera quasi fisica.

Ogni volta che sentiva il potere farsi più minaccioso erano i ricordi dei sorrisi di Eowyn o Legolas, dei brontolii di Gimli, delle risate degli hobbit o della purezza dei boschi di Lorien e Gran Burrone ad aiutarlo a superare quei momenti.

A volte si sorprendeva ad immaginarsi come fosse la vita di Arwen a Valinor, comprendendo che ormai quei pensieri era solo dolci e teneri, non più venati da alcuna tristezza o malinconia: comprese che avrebbe custodito per sempre  il ricordo della Stella del Vespro nel cuore, ma che ormai i sentimenti che lo avevano legato a lei si erano trasformati anche quelli in ricordo, un piacevole calore in grado di scaldarlo quando ripensava a lei, ma non più quell’amore che credeva infinito e che l’aveva spinto a lottare per anni ed anni. Ora quando ripensava ad Arwen era sinceramente e totalmente felice per lei, senza nessun rimpianto e senza alcun rancore. Non avrebbe mai dimenticato Arwen, ma ora si sentiva pronto a concedersi di aprire di nuovo il suo cuore, senza sentirsi in colpa, senza pensare di star tradendo la sua fiducia. In un momento in cui la sua mente fu ancora sufficiente lucida prese una decisione: se entrambi fossero sopravissuti a quella prova, una volta sconfitto Sauron avrebbe chiesto ad Eowyn di aiutarlo a regnare su Gondor, di essere la regina al suo fianco. Era conscio di quante poche possibilità avesse di realizzare quel progetto, dato che minime erano le speranze di riuscire a vincere quella battaglia, ma nonostante tutto non voleva rinunciare a quel sogno: chissà se Eowyn sarebbe stata d’accordo…

Tuttavia, man mano che le ore scorrevano gli risultava sempre più difficile pensare a qualcosa: l’Anello si stava lentamente ma inesorabilmente insinuando in lui, nella sua volontà; si stava fondendo con la sua stessa anima e le sue resistenze servivano solo a ritardare la sua opera. Sapeva che i suoi amici era là fuori che combattevano per riuscire a portargli aiuto, e per questo continuava a non volersi arrendere, ma ogni ora diventava più difficile.

Se solo riuscissi a sfilarmelo dal dito…” pensava spesso.

Quella sarebbe forse stata la sua unica via di salvezza, ma si era scorticato un polso contro l’anello di cuoio ruvido e ferro battuto che gli cingeva il polso nel tentativo di fare con la mano movimenti che potessero permettergli di liberarsi dell’Anello, ma quello sembrava veramente dotato di vita propria e per nulla intenzionato ad abbandonare il suo dito.

Fino a quando non avesse accettato di poterlo comandare, sarebbe stato l’Anello a comandare lui; e quando avesse accettato di comandarlo, Sauron avrebbe ottenuto la sua vittoria.

Se si fosse lasciato vincere dall’Anello sarebbe presto diventato uno spettro, proprio come era accaduto ai nove re degli Uomini che erano diventati i Nazgul; se avesse accettato di comandarlo sarebbe diventato un tutt’uno con lui, venendo inesorabilmente contagiato dalla sua malvagità. Non si illudeva infatti di poterlo piegare al suo volere: non era uno sciocco come Isildur e aveva visto Boromir soccombere a causa dello stesso errore. L’Anello era stato creato dal Male per il Male, ed era pura follia pensare di poterlo usare a fin di bene. Se avesse accettato il ruolo di Signore dell’Anello sarebbe inevitabilmente passato dalla parte di Sauron, offrendogli il suo corpo in modo che l’Oscuro Signore potesse tornare a vivere e, grazie a lui, a comandare l’Anello. Comunque andassero le cose per lui non c’era speranza: l’unica possibilità consisteva nello sperare di riuscire a resistere al potere dell’Anello fino a quando qualcuno non fosse giunto a separarlo da lui.

Sentiva i rumori della battaglia provenire dalla landa circostante la torre in cui era prigioniero, ma sebbene fossero rumori in avvicinamento sembravano ancora decisamente troppo lontani.

Ogni tanto sentiva che la sua mente veniva sfiorata dal tocco leggero, delicato e rinfrancante di qualcuno che tentava di aiutarlo e sostenerlo: non riconobbe subito il nuovo intruso, ma poco a poco riconobbe la voce della Signora di Lorien che tentava di mettersi in contatto con lui per offrirgli un minimo di tregua. Quei momenti erano un autentico toccasana per Aragorn, un’oasi di pace in un mondo di guerra, ma man mano che il potere dell’Anello faceva più presa su di lui era sempre più difficile per Galadriel riuscire a mettersi in contatto con lui, e quindi quegli attimi si facevano sempre più radi e brevi.

Lentamente Aragorn avvertiva che persino la sua volontà di opporsi all’Anello veniva meno, ed era solo la sua rabbia a permettergli di opporsi ancora.  Sentiva che nonostante tutti gli sforzi stava soccombendo e che presto sarebbe stato solo un burattino nelle mani di Sauron…

Solo un colpo di fortuna avrebbe forse potuto salvarlo, e questa non era certo una prospettiva che potesse rallegrare Aragorn e aiutarlo a continuare nella sua lotta.

 

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Eowyn riaprì lentamente gli occhi, mentre una mano fredda gli cambiava la pezzuola sulla fronte rovente.

Nell’aria respirava una strana e piacevole fragranza, e si rese conto che era stato proprio aggrappandosi a quel profumo, pungente eppure gradevole, che aveva ritrovato il modo di ritornare in sé stessa, richiamata dal terrificante mondo di ombre e nebbie in cui l’aveva fatta precipitare il tocco del Re Stregone.

Riconobbe quel profumo come quello della Foglia di Re, una pianta che Aragorn le aveva insegnato a riconoscere durante il loro viaggio da Gran Burrone ad Edoras, illustrandole anche le sue proprietà curative. Aveva sempre creduto che il ramingo scherzasse, o quanto meno esagerasse, quando affermava che mettere in infusione quella pianta in acqua bollente e lasciare che il suo profumo si sprigionasse avrebbe avuto il potere di riportare gli spiriti ai propri corpi, ma ora, dopo averlo provato in prima persona, dovette ricredersi.

“Ben tornata fra noi, mia adorata” disse una voce viscida e melliflua, che giunse alle sue orecchie come un suono del tutto indesiderato.

Era ancora troppo debole, confusa e con la mente offuscata dalla febbre per riconoscere a chi appartenesse quella voce, ma istintivamente decise che non poteva essere un amico, nonostante le parole che le aveva rivolto, e così tentò di scuotersi, in modo da ottenere almeno quel minimo di lucidità che le sarebbe stata necessaria e riconoscere la natura del pericolo che avvertiva in quella voce.

“Per qualche giorno ho temuto che non ce l’avresti fatta, poi il tuo amico mi ha dato questa pianta e mi ha spiegato come usarla e a quanto pare ha funzionato: certo, la febbre che ti è venuta dopo non è stata meno pericolosa del tocco del Nazgul, ma io sapevo che eri forte e così non ho mai disperato, e ho avuto ragione…” disse Grima Vermilinguo, con gli occhi lucidi di folle gioia. “Ora più nulla ci separerà: tu sei la cosa più bella che sia capitata nella mia miserabile vita, ma quando ti avrò al mio fianco come mia legittima moglie ti assicuro che non ci sarà più nulla di miserabile nella nostra esistenza: anzi, quando Sauron trionferà, anche noi parteciperemo alla spartizione del bottino e tu diventerai regina di molto più che il semplice regno di Gondor o di Rohan… tu sarai regina di tutta la Terra di Mezzo! Io posso offrirti molto di più di quello stupido ramingo che si è illuso di poter essere un giorno re!” concluse.

Eowyn era rimasta alla primissima parte del discorso: un amico l’aveva aiutata, e quell’amico non poteva essere altri che Aragorn. Questo significava che l’erede di Isildur era ancora vivo: Eowyn non aveva la più pallida idea di dove si trovasse e conservava solo vaghi e confusi ricordi della battaglia davanti ad Osgiliath, tuttavia le avevano appena detto che Aragorn era molto probabilmente ancora vivo e questo le bastava per sentirsi già molto meglio.

Piano piano cercò di mettere a fuoco le immagini intorno a lei: si trovava in una piccola stanza, illuminata solo da qualche candela e da una piccola finestra dalla quale peraltro non entrava molta luce, come se all’esterno fosse sera o una giornata in cui il cielo è coperto di nubi. La stanza era completamente spoglia e fredda, ma il letto in cui era adagiata era tutto sommato abbastanza accogliente e le lenzuola vecchie, ruvide, ma stranamente pulite. L’unica cosa di cui era assolutamente certa era che non aveva mai visto quella stanza prima d’ora.

Poi la voce ricominciò a blaterare con il suo suono odioso parole per Eowyn completamente prive di senso, costringendola infine a fissare la sua attenzione sull’uomo che stava parlando: nonostante la febbre lo riconobbe all’istante. Quello che le stava sussurrando parole dolci all’orecchio era l’essere più viscido, subdolo e disgustoso che avesse mai conosciuto in tutta la sua vita, colui che aveva avvelenato la mente di suo zio, aveva esiliato suo fratello e aveva tormentato i suoi sogni con incubi orribili in cui era costretta a sposarlo: Grima Vermilinguo le si stava avvicinando per rimetterle una pezzuola fredda sulla fronte e lei, istintivamente scostò violentemente da sé la sua mano, facendo volare il piccolo fazzoletto bagnato dall’altra parte della piccola stanza.

“Non ti avvicinare mai più a me!” disse sforzandosi di parlare. “Tu rappresenti tutto ciò che io disprezzo nella razza umana! Credevo di essermi liberata di te, ma se mi hai curata solo per impormi di nuovo la tua presenza, portami per favore un pugnale perché io possa uccidermi!”

Per un attimo il volto dell’uomo divenne una maschera impenetrabile di rabbia e furia; le sue mani si serrarono in pugni tanto stretti che le sue nocche, già pallide di natura, divennero mortalmente bianche.

Fu solo un attimo però, ed un espressione comprensiva e paziente gli apparve sul volto: “Sei ancora molto debole mia amata, e la febbre alta ti porta ancora a delirare e a dire cose che in realtà non pensi. Per un attimo mi sono adirato, e ti chiedo scusa per questo, ma dato che ti amo e ti capisco meglio di chiunque altro potrebbe fare, non presterò ascolto alle tue parole e tra noi andrà tutto bene, come se tu non le avessi mai pronunciate…”

“Beh, allora resterai deluso perché io ti ripeterò ogni singola parola ogni singolo attimo in cui mi costringerai a subire la tua oltremodo sgradevole compagnia! Ora vattene, non ti voglio mai più rivedere! Io ti odio come forse non odio nemmeno Sauron in persona!” ribatté ancora Eowyn, che tuttavia sentiva le forze venirle meno anche solo per lo sforzo di parlare, mentre la febbre riprendeva a salire colorandole di rosso le guance.

Vermilinguo, in un raptus, la colpì violentemente al viso con il dorso della sua mano: “Tu sei mia signora di Rohan, che la cosa ti piaccia o no! Sei viva solo perché io ho chiesto che così fosse: mi devi la vita e, che i Valar mi siano testimoni, io mi prenderò ciò che mi spetta!”

Con un movimento fulmineo le immobilizzò entrambe le braccia e prese a baciarla con violenza, sfogando anni di desiderio e di frustrazione. Eowyn tentò di divincolarsi dalla sua presa e allontanarlo da sé: la sola idea delle sue labbra appoggiate sul suo corpo la faceva impazzire, dandole modo di attingere ad una risorsa di energie che non credeva nemmeno di possedere. Ma l’uomo, in preda alla follia era incredibilmente forte, come mai avrebbe creduto che il viscido consigliere di suo zio potesse essere. Più Eowyn si dimenava e più si rendeva conto di non riuscire ad opporsi al suo aggressore: mentre le forze le venivano meno, sentiva la stretta della mani dell’uomo farsi più accentuata, mentre la sua bocca si spostava dalle sue labbra, al suo collo fino alla scollatura della semplice tunica che indossava senza che lei potesse opporvisi.

Sentì le lacrime scorrerle sul viso e non fece nulla per trattenerle: aveva cominciato quella avventura per non finire in una gabbia, alla mercé della lussuria e della crudeltà dei suoi aguzzini, ed ecco che si ritrovava esattamente prigioniera, senza potersi opporre alla violenza del desiderio di un uomo, pregando solo di morire sul colpo. Se non fosse stato che stava vivendo realmente tutto quell’orrore, forse si sarebbe messa a ridere di fronte all’inevitabilità del destino.

D’un tratto le venne in mente Aragorn e il bacio che si erano quasi scambiati quella sera in riva al fiume, e il dolore si fece ancora più intenso: se almeno si fossero davvero baciati quella sera, lei avrebbe dato il suo primo bacio all’uomo che amava, invece che riservarlo a quello che più odiava e che se lo era preso con la forza…

Dall’esterno della stanza arrivavano suoni concitati, come se una grande agitazione fosse scoppiata tutto d’un tratto, ma Vermilinguo sembrava non accorgersene: stava finalmente realizzando il sogno della sua vita, e null’altro gli importava, mentre ad Eowyn restava solo la forza per piangere.

 

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“Presto! Sono riusciti a superare i primi piani della torre! Sbarrate loro la strada e fate preparare i destrieri dei Nazgul in cima alla torre!” urlò Saruman rivolto al capo degli orchetti che presidiavano la torre. “Io intanto mi occupo del prigioniero: volente o nolente verrà con me al Monte Fato e lì porremo finalmente fine a tutta questa faccenda una volta per tutte!” disse dirigendosi verso la stanza in cui era tenuto prigioniero Aragorn.

Un attimo prima di entrare nella stanza tuttavia si fermò un istante a riflettere: “Spero solo che non sia troppo presto, o sarà ugualmente la fine.. ma non quella che mi aspettavo…

Con uno scossone della testa scacciò dalla mente quei dubbi ed entrò nella stanza quasi trattenendo il fiato.

Nell’udire aprirsi la porta, quello che una volta era stato un semplice ramingo voltò la testa verso l’entrata della stanza: Saruman poté notare un’espressione tranquilla nel suo sguardo, come se attorno a lui non stesse accadendo nulla di strano.

“Slegami!” ordinò imperiosamente.

Saruman portò istintivamente lo sguardo alla mano di Aragorn, dove brillava l’Anello de Potere.

“Ti ho detto di slegarmi!” ripeté seccamente pochi istanti dopo Aragorn.

“Sei pronto a seguirmi… mio signore?” chiese Saruman ancora n po’ diffidente.

“Non sei nella condizione di fare domande, Saruman il Bianco! Sei tu che seguirai me, non il contrario!”

Un ghigno di trionfo si disegnò sul volto dello stregone: quella di Aragorn non era una recita. L’Anello lo aveva infine sconfitto e si era impossessato di lui. Ora al Monte Fato Sauron avrebbe finalmente potuto reincarnarsi nel suo corpo, tornando a dominare l’Unico e più nessuno avrebbe potuto opporsi alla loro vittoria.

“Slegatelo!” ordinò ai due orchetti che lo avevano accompagnato per mettersi al riparo da qualsiasi brutta sorpresa.

Finalmente libero dalle catene che gli imprigionavano braccia a gambe, Aragorn si mise a sedere sulla tavola di legno, roteando lentamente i polsi e le caviglie in modo da riattivare la circolazione. Non sembrava avere alcuna fretta.

“Signore dobbiamo andare… non abbiamo tempo da perdere…” gli fece notare Saruman, innervosito dai rumori della lotta che si facevano sempre più vicini.

Aragorn tuttavia non lo degnò nemmeno di uno sguardo mentre, tranquillamente, rispondeva: “Ci metteremmo sicuramente più tempo se ad ogni passo cadessi: sono rimasto legato per giorni e ho le ginocchia indolenzite: se arriverà qualcuno ce ne libereremo, non ti preoccupare…”. Pronunciò quelle ultime parole con una luce maligna negli occhi che fece esultare e spaventare Saruman al tempo stesso.

Quando finalmente Aragorn si mise in piedi ed uscirono dalla stanza trovarono Legolas, Gimli e il loro piccolo manipolo, ridotto ormai all’osso, ad attenderli.

“Estel!” esclamò il principe di Bosco Atro, al colmo del sollievo nel vedere l’amico vivo. Né lui né nessun altro fece però in tempo a dire nient’altro che un  ultimo gruppo di orchetti e un paio di Uruk-hai gli furono di nuovo addosso.

L’accesso alla cima della torre venne sbarrato dalla lotta che si scatenò, e quindi Saruman ed Aragorn furono costretti ad assistere a quell’ennesima battaglia. L’espressione del ramingo era quasi annoiata mentre continuava a massaggiarsi i polsi guardando con indifferenza gli orchetti che, uno dopo l’altro, cadevano sotto i colpi di Elfi e Nani.

“Tutto qui il tuo esercito Saruman? Non mi sembra granché…” affermò con sufficienza guardando con disgusto sia lo stregone che le sue creature.

Era completamente disarmato, dato che Anduril gli era stata sottratta non appena era stato catturato e fatta di nuovo in centinaia di piccoli frammenti: ben lungi dal farsi fermare da un simile dettaglio si diresse verso una semplice sedia di legno posta vicina al piccolo tavolino che era stato posto lì per gli orchetti che si erano alternati a fare la guardia alla stanza in cui era rinchiuso. Sbatté con violenza la sedia contro il tavolo, fracassandoli entrambi senza fare alcuno sforzo apparente.

“Adesso mi sto veramente annoiando…” disse gettandosi nella lotta, colpendo indistintamente presunti amici e nemici.

Gimli commise l’errore di crederlo ancora un amico e si ritrovò scaraventato con una violenza inaudita contro la spessa parete della torre.

“Estel?” chiese Legolas sorpreso, senza capire.

Approfittando del fatto che l’elfo non aveva alcuna intenzione di colpirlo, Aragorn gli fu addosso in un attimo, afferrandolo per la tunica e sollevandolo di peso: “Estel non esiste più mio caro Legolas di Bosco Atro, e ben presto non esisterete più nemmeno tu, i tuoi dannati Elfi, gli Uomini, i Nani o i ridicoli Hobbit: è finita…” gli disse con un ghigno nella voce che fece accapponare la pelle dell’elfo.

Un istante dopo anche Legolas venne scaraventato contro un muro e tramortito dalla violenza dell’impatto.

“Ora possiamo andare: non mi sembrava poi così difficile sbarazzarsi di loro…” disse rivolto a Saruman, mentre si incamminava verso la cima della torre.

 

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Passò quasi mezz’ora perché Legolas riuscisse a riprendere conoscenza: non voleva nemmeno ripensare a quello che era successo, non voleva crederci… Quando lo aveva stretto per la tunica, aveva potuto guardarlo in faccia, dritto negli occhi: dell’Aragorn che ricordava, dell’amico più caro che avesse mai avuto, non rimaneva alcuna traccia. Sparito. Completamente soggiogato dall’Anello.

Sentiva lacrime di dolore e di rabbia infastidirgli gli occhi, ma quelli che provava erano sentimenti che non avrebbero potuto essere sfogati piangendo.

“Come ti senti Legolas?” gli chiese con voce dolce Mariel, vedendolo di nuovo cosciente.

“Siamo arrivati tardi… Abbiamo fallito…” rispose con un filo di voce l’elfo.

“Non posso credere a ciò che ho visto. Dimmi che è stata tutta una finta, o solo un incubo…” lo supplicò l’elfa.

“Non posso dirti né l’una né l’altra cosa: ho visto i suoi occhi, e in loro non c’era nulla del nostro Aragorn. Erano freddi, feroci e cattivi, e non fingevano…” le rispose Legolas, allungando una mano verso di lei per riuscire almeno a sfiorarla. “Come sta Gimli?”

“E’ ancora vivo, ma non sta meglio di noi, sia nel fisico che nel morale…” rispose Mariel.

“In quanti siamo rimasti?” chiese ancora Legolas.

“Solo io, tu e Gimli: mi dispiace… Ora cosa facciamo?” disse Mariel.

Lo sguardo di Legolas si fece improvvisamente duro: “Ora andiamo al Monte Fato, a fermare una volta per tutte Sauron!”

“Ma questo significa…” fece per dire Mariel.

“Uccidere Aragorn? Sì, credo di sì Mariel… Non sarà semplice, ma io so che lui avrebbe voluto così” concluse Legolas risoluto, rimettendosi in piedi anche se con una certa fatica. “Sei pronto Gimli?”

“Sono pronto Legolas” rispose stancamente il nano.

I tre amici erano pronti a ridiscendere la torre e ad incamminarsi verso il Monte Fato quando sentirono un urlo soffocato provenire da una delle stanze in fondo al breve corridoio in cui si trovavano.

Né Mariel né Legolas impiegarono più di un secondo a riconoscere quella voce: “Eowyn!” esclamarono all’unisono, prendendo a correre verso la stanza.

Non appena spalancò la porta della stanza Legolas si avventò sull’uomo chino sulla dama di Rohan, incurante della sua identità, scaraventandolo dall’altra parte della camera. Mariel fu altrettanto veloce nel precipitarsi su Eowyn, abbracciandola immediatamente: tra le sue braccia la ragazza tremava violentemente, in preda ai singhiozzi, alla paura, alla febbre e alla vergogna. La parte superiore della semplice tunica che indossava era squarciata e il suo volto era segnato da alcuni graffi e da un brutto livido all’altezza dello zigomo destro. Mariel si levò prontamente la sovratunica e la porse alla ragazza, ma quando vide che questa aveva ancora notevoli difficoltà a muovere il braccio sinistro, gliela infilò lei stessa, senza mai smettere di parlarle nel tentativo di calmarla.

Dal canto suo Legolas sembrava quasi impazzito: l’unica cosa che lo aveva sempre profondamente disgustato della razza umana era la sua mancanza di scrupolo nell’approfittare di quelli che erano più deboli: prese a picchiare l’aggressore di Eowyn senza nemmeno sapere chi fosse, sfogando su di lui anche parte della rabbia per il “tradimento” di Aragorn. Fu solo quando Gimli lo fermò, facendogli notare che l’uomo aveva già avuto quello che si meritava, che finalmente si calmò. Fu solo allora che riconobbe Grima Vermilinguo, e per la prima volta nella sua vita non si dispiacque nemmeno un po’ di aver ucciso un essere umano.

Non appena riuscì a calmarsi sul serio si diresse verso Eowyn, sorridendole dolcemente.

La ragazza, tra le lacrime, rispose al suo sorriso, ma subito disse: “Credo che Aragorn sia ancora vivo. Deve essere qui da qualche parte: dobbiamo aiutarlo…”

I sorriso morì sulle labbra di Legolas, ma decise che non era ancora il caso di dire ad Eowyn ciò che era accaduto al ramingo: “Aragorn non è più qui, e per questo dobbiamo andare ad… aiutarlo… Lo stanno portando al Monte Fato, credi di potercela fare a venire con noi?”

“Legolas, brucia di febbre! Non può venire con noi!” si intromise Mariel, in cui l’istinto del guaritore prendeva ogni tanto il sopravvento. “Deve riposare ancora e stare tranquilla.”

“Non è certo qui che potrà risposare tranquillamente, e noi non possiamo aspettare che si riprenda!” rispose Legolas. “Allora Eowyn, te la senti?”

Pur sapendo che si trattava di una bugia enorme, la ragazza annuì. Non appena tuttavia provò a mettersi in piedi Legolas fu costretto ad afferrarla al volo prima che crollasse a terra, completamente priva delle energie necessarie anche solo per reggersi in piedi.

“Legolas…” disse preoccupata Mariel.

L’elfo non si perse d’animo e prese in braccio Eowyn, sorprendendosi di trovarla persino più leggera di quanto si attendesse.

“Adesso andiamo! Non c’è tempo da perdere!” esclamò deciso, uscendo dalla stanza e prendendo a scendere velocemente le scale, seguito dai suoi due compagni.

Fortunatamente la discesa non fu ostacolata da altri tranelli ed incantesimi e quando arrivarono alla base della torre ormai abbandonata, trovarono il portone, prima magicamente sprangato, aperto: i pochi orchetti che erano ancora vivi erano corsi incontro all’esercito di Elfi e Nani per ostacolare la loro avanzata verso la torre e il Monte Fato.

Uscendo dalla torre Gimli notò una piccola costruzione a cui non avevano badato prima: Legolas proruppe in un’esclamazione di pura gioia quando all’interno trovò due cavalli. Non erano certe bestie che potessero paragonarsi agli splendidi cavalli di Rohan, ma sembravano in buona salute ed addomesticati. Legolas pensò che quelli dovevano essere gli animali con cui Grima Vermilinguo si era spostato per tutta la Terra di Mezzo, portando sciagure e malconsiglio ovunque andasse.

Legolas issò Eowyn sul suo cavallo e aiutò Gimli a salire dietro a Mariel; quindi montò anche a lui, raccomandando alla sorella di Eomer di reggersi forte a lui. Spronò il cavallo ad una corsa folle verso la montagna di fuoco che dominava Mordor, sussurrandogli all’orecchio parole elfiche di scuse e ringraziamento che il cavallo parve comprendere ed accettare, aumentando, se possibile, ulteriormente l’andatura.

 

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A Thorin e ai tre re degli Elfi non era sfuggito il volo del destriero dei Nazgul, ma erano stati troppo impegnati dalla battaglia per farci troppo caso. Ogni resistenza da parte degli eserciti degli Orchetti ed Uruk-hai era stata definitivamente spazzata via quando dall’altopiano di Gorgoroth si erano riversati nella piana di Mordor gli eserciti di Gondor e Rohan. Ora gli eserciti che lottavano per la liberazione della Terra di Mezzo dall’ombra di Sauron si erano riuniti: il piano che avevano architettato durante il secondo consiglio a Gran Burrone aveva, contro ogni logica, funzionato. Avevano vinto tutte le battaglie che c’erano da vincere ed erano riusciti a penetrare sin nel cuore del regno nemico.

Tuttavia erano tutti perfettamente consci che gli sforzi fatti sino a quel momento erano probabilmente stati del tutto inutili e che stavano per perdere la guerra: tutto era nelle mani di Aragorn che giaceva prigioniero di Sauron e presumibilmente dell’Anello a Barad-dur.

Orami la via per la Nera Torre era spalancata, ma quando Thranduil vide sfrecciare in direzione del Monte Fato ciò che rimaneva del manipolo scelto che per primo era giunto a Mordor, tutti compresero che Aragorn non si trovava più nella torre, ma già al vulcano nelle cui profondità erano stati forgiati tutti gli Anelli.

Fu così che gli eserciti liberi guidati da Eomer di Rohan, Faramir di Gondor, Thorin della Montagna Solitaria, Elrond di Imladris, Celeborn di Lothlorien e Thranduil di Bosco Atro abbandonarono la via per Barad-dur dirigendosi in direzione dell’Orodruin, la Montagna di Fuoco che avrebbe potuto salvarli o condannarli definitivamente.

 

NOTE: Capitolo lungo e in ritardo... scusate...
          Questa storia, a cui tengo molto, si avvia ormai verso la conclusione: gli eventi precipitano e ciò che pareva conquistato potrebbe di nuovo essere perso...
          Spero di riuscire a non deludervi.
          Ciao!

  
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