Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Ricorda la storia  |      
Autore: cocochokocookie    26/07/2010    3 recensioni
« Non è normale. » per quanto flebile, la voce dell'amico traboccava di preoccupazione, nonostante avesse ripetuto quelle parole svariate volte, incrociando ogni volta lo sguardo ugualmente crucciato dell'altro.
« Non possiamo fare altro. » solito problema, solita risposta.
Una sottile, crudele maledizione. Leggera quanto un filo, si arricciava attorno alle loro vite, unite, a renderle ancora più simili.
Per loro stessi, non potevano che contare che l'uno sull'altro.
[ PrUn; FrUk; SpaMano ]
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Doesn't it mean ‘I love you’?
Genere: Oneshot — doveva essere una drabble nonsense, ma lasciaaaaaamo perdere D:
Personaggi: Antonio Fernandez Carriedo, Francis Bonnefoy, Gilbert Beilshmidt —no, non lo scriverò mai correttamente D:—, Helizaveta Hédevary —come prima ._.''—, Arthur Kirkland, Lovino Vargas, Feliciano Vargas, Germania Magna.
Pairing: SpaMano, FrUk, PrUn, Bad Friends Trio [????]
Rating: Giallo? ò_ò ma se c'è Romano, è ovvio che VERDE non può essere. Sboccato.
Note: 1. le scritte in corsivo indicano un periodo passato rispetto alla narrazione corrente.
2. *= © della DonnaH FrancesaH, quindi siete avvisati D:<
3. Sono innamorata di quella commedia —ma del drammaturgo e basta, direi.
4. AWWWWWN, vi amo, ragazze <3 [sì, parlo con voi, AlleateH sbandate]






Doesn't it mean ‘I love you’?


Raschiano la gola, graffiano pur di restare covate mute dalla rabbia immotivata, le parole della voce lontana.

Un cuore stracciato è probabilmente la pestilenza peggiore che l'umanità abbia mai affrontato, si ripeteva.
Si sfiorò le labbra con il filtro della sigaretta, aspirando altro veleno tanto benefico, se paragonato alla situazione attuale.
Glielo avrà ripetuto qualche centinaia di volte, negli anni, di smetterla con quella pianta che aveva trovato nelle sue scampagnate.
Storce il naso, spegnendola a metà, passandosi insistentemente la mano destra contro l'orecchio, quasi a cancellare il ricordo del suono della sua voce, conscio dell'insuccesso su tutta la linea.

« È... È meglio che vada. »


« Non è normale. » per quanto flebile, la voce dell'amico traboccava di preoccupazione, nonostante avesse ripetuto quelle parole svariate volte, incrociando ogni volta lo sguardo ugualmente crucciato dell'altro.
« Non possiamo fare altro. » solito problema, solita risposta.

Una sottile, crudele maledizione. Leggera quanto un filo, si arricciava attorno alle loro vite, unite, a renderle ancora più simili.
Per loro stessi, non potevano che contare che l'uno sull'altro.

Quando se n'era andata lei.
Quando l'aveva allontanato lui.
Quando era sbiancato l'ultimo.

Covavano, curandosi a modo loro, il dolore, imbevendolo in broccali enormi, soffocandolo in flute eleganti, tagliandolo con la frutta, con fare meccanico, controllato.
Illudendosi di poterlo dosare a loro piacimento, se proprio non potevano fuggirne.
Non ne parlavano mai, si conoscevano fin troppo bene.

Due, tre parole.
Ed inevitabilmente inondava le loro vite, attanagliandoli con arigli ricurvi e spietati.

Ma per quanto gli altri potessero spaventarsi a quelle parole goffamente balbettate, di chi è troppo orgoglioso per ammetterle anche a sé stesso, suadentemente mormorate, per qualcuno a cui si regalerebbe il mondo, soffocate, di chi teme di star mettendo in pericolo il proprio universo delicato, loro non avevano la minima intenzione di lasciarne andare nemmeno uno.
A volte veniva da pensare che fossero malati, osservando i gesti e gli sguardi che avevano l'uno nei confronti degli altri, ignorando palesemente di trovarsi di fronte all'unica possibile medicina che potesse curare ognuno dei tre.

Lo guardò sciogliere le gambe accavallate, sospingendosi con le mani sui braccioli della poltrona, alzandosi e prendendo la giacca, mugugnando un saluto sommesso prima di uscire, la porta quasi socchiusa per la mancanza di forza nei movimenti.
Lui era stato il primo.
Perfetti, osavano definirli i più. O divertenti.
Perché, era innegabile, vedere finalmente qualcuno riuscire a tener testa a quella capoccia montata e dura del ragazzo ce ne voleva, era una rarità. Eppure lei vi era riuscita fin dal primo istante, schiaffeggiandogli platealmente quella guancia tanto irriverente da permettere alla mano di andare a saggiarle il fondoschiena in piena metropolitana.
Avevano passato l'intero viaggio a squadrarsi, lei offesa, lui infuriato ed impegnato a massaggiarsi la guancia, imbarazzato, privo di quel ghigno spavaldo eternamente imperante sulle labbra sottili.
La prima sera era rientrato pestando i piedi per terra, inveendo contro il genere femminile tutto, tra le occhiate divertite dei coinquilini, lanciando la giacca di pelle in faccia al moro ad una delle sue solite battute.
La seconda mugugnava, la terza borbottava, era sempre lì, a “ quella cazzo di fermata, non può prendersi un fottutissimo taxi?! ”.
Salivano e scendevano assieme, si scambiavano occhiate burbere, riscontrando quanto entrambi si studiassero fin troppo.

« Smettila di brontolare ed invitala ad uscire, razza di orso bianco. » se n'era uscito il biondo, la dodicesima sera, all'ennesimo, rumoroso rientro dell'amico.
Lei lo aveva fulminato nel vederlo avvicinarlesi, prima di negargli la passeggiata nel parco offertale, rispondendo a tono ai borbottii contrariati del ragazzo dalla pronuncia secca e le vocali soffocate.

« Che ne pensi? » girava svogliatamente il cucchiaio nella tazzina da caffé, mentre l'altro sfogliava un libro universitario, lasciandosi però distrarre dal latino, sospirando e sedendosi, abbassando i piedi dai cuscini morbidi del divano scuro e levandosi gli occhiali, rubando la tazza al compare, bevendo un sorso del liquido che, in quello stato, veniva definita caffeina. A dire di tutti e tre, doveva essere acqua sporca ed allungata, per di più.
« Che è completamente cotto. » replicò poi semplicemente, ammiccando all'amico, il quale sogghignava divertito, anche se indispettito dal furto, come se il caffé non fosse già abbastanza poco, in quella brodaglia.
« Grazie, Señor Ovvietà. »

Camminava rapido, Central Park non era poi così distante dal loro appartamento, ed il freddo di febbraio penetrava nelle ossa quanto più gli strati di lana gli concedessero, ma a lui urtava poco, dato il gelo al quale era stato abituato da piccolo.
Si sedette alla panchina. Non ad una panchina, a quella poco distante dall'ampio lago, ombreggiata dalle fitte fronde delle querce secolari, alzando il capo al cielo, le braccia abbandonate disordinatamente sulle ginocchia, prima di serrare la mascella ed affondare le dita guantate nei capelli nivei e sottili, maledicendo qualsiasi cosa gliela riportasse alla memoria.

« I miei ricordi sono troppo fighi per permettere di ricordare qualcosa di insignificante, perché mai dovrei aver tenuto a mente il tuo nome? È ridicolo! Da dove diavolo vieni? »

Passavano impietosi i mesi, lenti e scanditi dalle apparenze e dai tentativi riusciti o quasi di trovare pace nella nicchia scavata a mani nude da tutti e tre, con disperazione e buona lena.
Eppure gli rimbombava in mente come il ronzio delle zanzare in una baracca vicino alle paludi. Costante, dal tono irritante ed offeso.

Si alzò a sua volta, sospirando e lanciando il volume di letteratura teatrale che teneva in mano sul divano, prendendo tra le labbra il nastro che teneva legato al polso, sciogliendone il glabro fiocco e portandosi le mani alla nuca, prima di legare i capelli “ troppo lunghi, da lontano sembri una ragazza, ti rendi conto? ” in una soffocante coda stretta, quasi cercando in quel leggero e trascurabile fastidio fisico una valida alternativa per i propri pensieri brulicanti di offese in una lingua troppo morbida per ritenerle davvero tali.
Stiracchiandosi svogliatamente, afferrò in malo modo gli occhiali sottili riposti sul tavolino di vetro ed acciaio, prima di lasciarsi cadere elegantemente sul sofà, riprendendo a sfogliare il tomo, dato lo stagliarsi inquietante dell'ennesimo esame da passare con voti eccellenti.

« Trovo che Shakespeare fosse una delle persone più tristi sulla faccia della terra. E probabilmente lo è tutt'ora. » ottimo modo per iniziare a tessere un legame duraturo, davvero. Per di più in un luogo dedito al silenzio ed all'apprendimento incondizionato basato sulle teorie dei grandi filosofi e storici.
Il ragazzo compostamente e rigidamente seduto dall'altro lato del tavolo l'aveva palesemente ignorato, continuando a leggere l'Amleto, non dandogli peso nemmeno quando l'altro decise che di non accontentarsi del mutismo e di sederglisi di fronte, osservando gli occhi verdi di questi scorrere lenti e concentrati sulle parole scritte dal famoso drammaturgo secoli addietro.
Erano rimasti così per parecchi minuti, prima che vedesse appena le folte sopracciglia bionde del lettore avvicinarsi tra loro e creare una sottile ruga di espressione tra di esse, sulla carnagione chiara.
« Ne ha ancora per molto? » domandò, senza alzare lo sguardo dalle pagine ingiallite dal tempo e leggermente consunte ai bordi per l'abuso mancante della delicatezza necessaria da parte dei frequentatori della biblioteca. Aveva una dizione decisamente meno strascicata della media generale dei soggetti che si potevano —e non si volevano, generalmente— incontrare in quella metropoli gremita di vite indifferenti l'una all'altra, più controllata e dosata. Nemmeno stesse cucinando, invece di parlare.
Stavolta fu il suo turno di rimanere silente, limitandosi ad incrociare le mani, appoggiando i gomiti al tavolo di legno scuro, per poi posare su di esse il mento coperto da una barbetta leggera e curata, simile a quella che ci si aspetterebbe più da un divo del cinema che da uno studente universitario.
« Potrei denunciarla. » continuò imperterrito il lettore, prima di alzare gli occhi, intrisi di fastidio ed irritazione, sullo sguardo beffardo del molestatore della sua tranquillità, aggrottando ancor più la fronte, profondamente indispettito.
« Fuggi quando vuoi, e la storia sarà invertita: Apollo scappa e Dafne lo rincorre; la colomba insegue il grifone; la mite cerva corre ad afferrare la tigre. Vana corsa, quando la vigliaccheria ci insegue e la prodezza fugge. » recitò per ripicca l'apparente prossimo a comparire in una segnalazione alla polizia locale, compiacendosi non dell'espressione quasi orripilata sul bel viso dell'altro, quanto più del fatto che questi chiuse il volume, mugugnando un verso stizzito ed alzandosi. Lui chiuse gli occhi, ampliando il ghigno sul proprio viso.
« Scena I, Atto II, Sogno D'Una Notte Di Mezza Estate. » continuò, prima di schiudere le palebre, incrociando lo sguardo basito della controparte, schioccando la lingua al palato con fare malizioso. « William Shakespeare. ».
Romantico, non c'è che dire.

« Sei il solito pagliaccio, Kumpan. » aveva scherzato l'albino, dopo avergli dato una sonora pacca sulla spalla, provocando il solito sbuffo, non erano mai stati di suo gradimento quegli atteggiamenti da scaricatore di porto, definizione a suo dire, al contrario di entrambi i due soggetti che si ritrovava nel loft.
Non avrebbe mai creduto che uno con le origini del suddetto paccatore avesse potuto essere così rumorosamente caloroso, nessuna sorpresa, invece, per l'altro esemplare di sesso maschile che mugugnava, le rare volte che lo faceva, contro le temperature troppo rigide fin dai mesi autunnali.

Indurì l'espressione solitamente gentile, lasciando scivolare il braccio che stringeva il libro lungo la superficie morbida del mobile, sospirando sommessamente ed allacciando la mancina al gomito destro, nascondendovici poi il volto. Non passava un test da quasi nove mesi, aveva smesso anche di presentarsi in sede, se non per seguire qualche sporadica lezione, ma lasciava l'aula ben prima della metà della lezione tenuta ogni volta.
Se non fosse stato per l'amico mediterraneo, ora sarebbe ancora a scarabocchiare di mine attorno alla raffigurazione di Westminster Palace sul libro di storia della letteratura. Non voleva perdere l'anno di studio, ma se ogni volta la mente lo riportava a quel fastidioso scrittore inglese la cosa diveniva un tantino ardua.

« Avanti, solo un caffé. » lo aveva ritrovato alla biblioteca, due giorni dopo. Dannazione, era un vero topo mangia libri, per quanto carino. E soprattutto non era rozzo quanto il novanta per cento delle persone che cozzavano le spalle contro le tue, nonostante l'ampiezza dei marciapiedi del centro nevralgico dell'ambizione di metà degli europei.
Il sogno americano. Non ci aveva mai creduto. New York non ha storia, non ha arte, rispetto al Vecchio Continente. Paragonata a Vienna, Barcellona, Parigi, Londra, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, Catania, Copenaghen, Amsterdam, Atene, Olympia, Berlino, Oslo, periva miseramente. Era solo miele per giovani mosche desiderose di calarsi nei panni dei futili divi che l'America offriva loro, ritenendo il paradiso entrare a Starbuck's e prendersi un caffé in quei contenitori enormi che si vedevano nei telefilm.
Faceva schifo, quel caffé. Deludente quanto la città, per chi vi si recava pieno di aspettative. Lui non era venuto per il liquido giallognolo, era lì per studiare.
Ed in quel momento era intenzionato ad applicarsi seriamente a quel logaritmo dal fondoschiena niente male.
« Non bevo caffé. » replicò stizzito il ragazzo dalla zazzera bionda, quasi sperasse che bastassero quelle poche parole a scacciare il pedinatore.
« Allora del tea, inglesino. » concluse il più alto, prendendogli il volume di mano e stringendo le dita attorno al polso sottile che sbucava di pochissimo dalla camicia color cachi —che gusti orribili—, accompagnandolo dolcemente all'uscita, registrando il tomo alla segreteria, entrando finalmente in possesso del nominativo del soggetto che scalpitava e blaterava di buone maniere.
Uscito dalla biblioteca rigirò la copertina, prima di sorridere lieve, voltandosi ad Arthur.
« A Midsummer Night's Dream. »

Grugnì infastidito, verso assai raramente associato alla sua figura, lasciando cadere il libro a terra, ignorando il suono secco quanto ovattato del contatto della copertina di cuoio contro il tappeto scuro, affondando ancor più il viso nel riquadro formato dalle proprie braccia, maledicendo a mezza voce qualunque inglese avesse mai preso tra le dita un qualsivoglia mezzo dalla finalità di imprimere su carta qualcosa, mordendosi il labbro inferiore, al ricordo improvviso di sapori fin troppo rievocanti foglie in infusione.

E lui era ancora a quella finestra. Dava sull'entrata all'edificio, uno dei pochi che avessero almeno cento metri tra il cancello e l'entrata di ciottolato circondato da verde che non fosse sintetico, era enorme. Se avesse alzato gli occhi avrebbe potuto vedere tutto le cime di tutto il quartiere. Ma lui non voleva farlo, non gli interessavano minimamente gli altri edifici, dannazione.
Aveva visto uscire l'amico dai capelli chiari, conscio che avrebbe preso la direzione del parco più grande della città ancor prima di vederlo aprire il cancello, regalandogli lo sguardo più comprensivo mai letto nei suoi occhi verdi tanto profondi quando vacui, al momento, nascosti dalle ciglia scure, puntati su quel maledetto varco di metallo dipinto da tre mani di vernice nera, che si chiudeva correttamente solo con tre mandate ed era sotto costante osservazione della guardia che stava nella postazione alla destra della porta principale, una donna dai capelli biondi e corti, incredibilmente gentile, per quanto timorosa.
“ Apriti ”, imperava, mentalmente, con tutte le sue forze, stringendo i denti in una pretesa quasi dolorosa, il posacenere sul tavolino accanto al serramento, sul quale passava oramai le giornate, seduto in una posa disordinata, appoggiato contro la parete bianca e la tenda vermiglia.
« Aprilo. »

Il più piccolo di loro lavorava per una galleria d'Arte. ‘ Piccolo ’, l'avevano etichettato a quel modo per una pura questione di date di nascita, oltre che per prendere in giro il suo ego smisurato, lui, povero nato a Dicembre. Lui si era fortunatamente guadagnato un rispettoso secondo posto, ritrovandosi ad amare quanto mai la prima metà di Giugno, mentre il biondo si ritrovava ad essere etichettato come ‘ Vecchiardo ’ il più delle volte, nato a metà Maggio com'era.
Difficile a dirsi, dato il suo temperamento e le apparenze, ma era il più giovane impiegato del MoMA, Museum of Modern Art, come critico d'arte, nonostante si nascondesse dietro falso nomignolo quale Great Preußen. No, non era normale, ma quale artista, fondamentalmente, lo è mai stato?
Durante una delle prime settimane di lavoro, telefonò a casa in preda al nervosismo, urlandogli di portare in ufficio lo scatolone troneggiante sul letto di camera sua, bofonchiando poi contro distrazioni di ovvia natura, dai fianchi morbidi ed i capelli lunghi. In poche parole, si era scordato nell'appartamento l'intero bagaglio di referenze che gli erano state richieste dal Grande Capo, una delle poche persone verso il quale l'aveva mai visto nutrire un rispetto definibile come tale.
Sospirò, riattaccando ed andando a prendere il contenitore ermeticamente chiuso, prendendolo sottobraccio e mandando un sms dal Samsung rosso fino a quello dell'amico occupato in Università, informandolo dell'uscita fuori programma, in caso non l'avesse trovato a casa al suo ritorno. Il traffico di Manhattan era quanto più di vicino ai gironi luciferini la mente umana potesse mai partorire in tempi moderni.
Pagò il taxi in fretta e furia, avendo ignorato allegramente tutti gli squilli che gli erano arrivati durante il tragitto, entrando nel museo e riscontrando che mai, in vita sua, avrebbe pensato di sentirsi tanto fuori luogo, con la maglia a mezze maniche della sua Nazionale ed i jeans neri strappati.
« Lei sarebbe? » e, ovviamente, i tizi in giacca e cravatta che possono fissarti in situazioni simili non sono mai semplici visitatori.
Sussultò, balbettando delle giustificazioni poco credibili, prima di sorridere allegramente e mostrare il nome dell'amico scritto a lettere cubitali sulla scatola, al che l'altro, un uomo sulla quarantina dai capelli biondi lunghi e visibilmente curati, oltre che dal viso dall'espressione truce armato di occhiali da vista, il quale annuì appena, voltandosi ed incamminandosi verso una rampa di scale eleganti e candide, come il resto della struttura, dopotutto.
Ci mise qualche secondo per capire di doverlo seguire, sospirando e salendo rapido i gradini, prima di vedere altre scale e mugugnare contrariato, arrivando infine ai benedettissimi uffici del Museo, trovandovi un tedesco piuttosto agitato che gli scippò praticamente il contenitore dalle mani, lamentandosi del ritardo. Non lo ascoltò a lungo, portandosi la mano alla fronte, l'indice ed il medio uniti, estranei al resto del pugnetto divertito, sorridendogli e facendo dietro front, scendendo quasi di corsa i gradini, ritrovandosi ad urlare dal dolore, oltre che dalla sorpresa.
Caldo. Caldocaldocaldo, sentiva il liquido apliarsi sulla maglia rossa ed oro di David Villa come una chiazza d'olio pestilenziale, abbassando lo sguardo e ritrovandosi i vestiti per metà di un colorito marrone poco rassicurante, condito da non pochi improperi in una lingue che di americanaccio aveva esclusivamente le lettere, pure disposte in ordine sbagliato.
Si rialzò, storcendo il naso e guardandosi la maglia, prima di alzare il viso, infastidito dal continuo vaneggiare di un ragazzo decisamente furente, a giudicare dal rossore sul viso e dall'espressione congestionata in una smorfia di rabbia.
Teneva in mano uno di quei contenitori per più bicchieroni di caffé e similari tipici, agitandolo come se fosse un'arma.
« ¡Calmados! » sbottò, afferrando la misera minaccia di cartone ruvido traforato, osservandolo continuare a mugugnare, prima di sospirare, provando a scusarsi, con il risultato di essere, se possibile, apostrofato ancora di più, prima di vederlo voltarsi e camminare a grandi falcate verso l'uscita.
Non seppe spiegare perché lo fece, cosa diavolo gli fosse passato per la mente in quel momento, fatto sta che sospirò nuovamente, seguendolo di corsa, tralasciando le occhiatacce degli acculturati d'alto borgo che erano in sede per osservare in contemplativo silenzio l'arte degli autori più recenti.
Quanto posò la mano sulla spalla del ragazzo ringraziò i propri riflessi per essere riuscito ad evitare il cazzotto che gli sfiorò l'orecchio sinistro.
« Senti, mi dispiace, va bene? » rantolò, prima di ritrovarsi fulminato dagli occhi scuri del più basso e boccheggiare per qualche istante.
« Mi dispiace un cazzo, brutto coglione! Guarda dove metti i piedi, se vuoi correre come se ti avessero dato fuoco al culo! » replicò aspro il ragazzo del caffé, riprendendosi il portabicchieri ed incamminandosi nuovamente, prontamente seguito dallo spagnolo, ovviamente.
« Io sono » « Se le prossime parole che usciranno da quel cesso non saranno ‘un cretino’ o ‘deficitato mentalmente’, non m'interessano. » lo interruppe, attraversando la strada.
« Ehiehiehi, che caratterino! » commentò divertito il povero imbrattato, appioppandosi un ulteriore impropero del ragazzo dai capelli lisci e castani.
Impavido, lo seguì fino ad un locale poco lontano dall'edificio del museo, osservandolo parlare nella stessa lingua di prima con un suo coetaneo che poteva benissimo definirsi suo gemello, il quale lo guardò preoccupato, soffermandosi sull'ampia chiazza di caffeina sugli indumenti.
« Cos'è successo? » squittì, rischiando di trapanargli i timpani, ricevendo in risposta urla dalla stanza dietro il bancone, ove il venticinquenne poteva unicamente scorgere altre scale, cosa che gli fece quasi venire un conato di vomito.
Il portavoce di un roditore lo fece sedere, scusandosi all'incirca una quindicina di volte, su una delle poltroncine del bar, prima di essere interrotto dal chiarificarsi della voce dell'ipotetico fratello, ancora nervoso.
« Siete italiani? » domandò, lanciando uno sguardo alle bandiere ed alle fotografie appese alle pareti.
« No, indiani. Che cazzo di domande fai? » nemmeno a dirlo, lo strano ciuffo ricurvo che aveva notato poco prima spuntare dalla frangia dell'infamatore fece la sua apparizione sulla soglia della stanza delle scale, offuscato da qualcosa che intuì essere stoffa, data la leggerezza con la quale gliela lanciò in faccia, anche se temette ci fosse nascosto un mattone, considerando l'astio.
« Cos... » « Cambiati, sembri uno di quei ridicoli quadri appesi in quel buco di fighetti. » lo interruppe nuovamente, mentre il surrogato di pulcino di suo fratello andava a fare altri caffé, sospirando.
Sorrise appena, iniziando a sfilarsi la maglia macchiata, prima di sentire la presa sui polsi, ritrovandosi il viso del ragazzo a poca distanza dal suo.
« Non qui, cretino! » lo rimbeccò, costringendolo ad alzarsi e trascinandolo nella stanza dove era scomparso prima, indicandogli le scale. Lo sapeva. Lo sapeva fin da quando le aveva viste, porca la miseria.
Si ritrovò in un salotto dall'atmosfera calda, con finestre che davano direttamente sulle sporadiche apparizioni di verde che poteva offrire la Grande Mela, altri quadri e fotografie appese alle pareti raffiguravano innumerevoli panorami tipici del mediterraneo e della penisola che vi troneggiava, oltre che delle sue isole assolate.
« Vedi di muovere il culo. » si sentì richiamare, evitando accuratamente di introdurre un discorso riguardante il fondoschiena sodo —sì, aveva occhio, d'accordo?— dell'italiano, levandosi finalmente la maglia ed appoggiandola al tavolino di legno e con una spessa lastra di vetro davanti al divano.
« Non sei americano. » commentò il ragazzo dal cucinino nel quale era scomparso, probabilmente per ripulirsi a sua volta le braccia, il solito tono sprezzante.
« Vengo da Barcellona. » spiegò lui, sbottonandosi i pantaloni e lasciandoli accanto alla maglia, prima di avvicinarsi a quelli puliti, sgranando gli occhi. D'accordo che la fisionomia dei due italiani era longilinea e sottile, ma come poteva pensare che lui potesse starci, lì dentro?
« Spagnolo, che schif... » tentò di concludere l'altro, mentre le parole gli morivano in gola, alla vista del ragazzo che se ne fregava allegramente del concetto di ‘pudico’, abituato a vivere con altri due ragazzi, entrato pacificamente in cucina in mutande.
« E-ESCIIMMEDIATAMENTE! » gli urlò contro, impedendogli di chiedergli se avesse dei vestiti di almeno una taglia in più.

« Ciccione lardoso del cazzo. » commentò poi, ancora rosso in viso, mentre attraversava rapido il salotto, dopo averlo costretto a rimettersi per lo meno i pantaloni, entrando in una stanza ancora più rischiarata del salotto, aprendo un armadio, rivolgendogli uno sguardo stizzito nel ritrovarlo sulla porta, intento ad osservare la stanza da letto.
« Non sono grasso. » ribattè, ritrovandosi come risposta una più che rispettabile e matura linguaccia.
« Ciccione lardoso, è diverso. » concluse l'altro, senza andare a sottilizzare su addominali e similari che lo spagnolo evitava accuratamente di nascondere, prendendo poi una camicia e dei jeans abbastanza larghi da non strapparglisi addosso o soffocarlo, chiudendo le ante e sbattendoglieli al petto abbronzato, senza degnarlo di uno sguardo.
« Sbrigati. » mugugnò, allontanadosi poi.

« Antoine*, ti davamo per disperso! » la voce chiara e la pronuncia morbida dell'amico lo accolsero nell'appartamento, oramai a pomeriggio inoltrato, alla quale rispose con un sospiro piuttosto pesante, chiudendosi la porta alle spalle.
« Sei andato ad una sfilata? » domandò poi il francese, osservando i vestiti del ritardatario, il quale accennò ad una risatina nervosa, prima di lasciarsi cadere scompostamente sul divano.
« Perché non rispondevi al cellulare? » chiese poi l'albino, sbucando dalle scale a chiocciola che separavano la zona giorno da quella notte, facendogli sgranare gli occhi e schiaffeggiarsi la fronte.
« Che c'entra l'autolesionismo con la mia domanda? »

Nemmeno a dirlo, aveva scordato il cellulare a casa dell'italiano. Chiamò una decina di volte, prima che la voce mansueta del fratello del ragazzo dal fondos... insomma, lui, rispondesse.
Gli diede l'indirizzo, dato che di uscire di casa non se ne parlava, dato che aspettava il meccanico per il forno. La sera prima aveva cucinato il tedesco.

Si sorprese quando, dalla finestra della sua stanza, vide svoltare l'angolo il ciuffo scorbutico, scendendo le scale per arrivare al salotto, certo che la guardia l'avrebbe lasciato passare. Anzi, gli avrebbe anche dato il numero del pianerottolo.
Il campanello suonò dopo poco, infatti. Insistentemente, tra l'altro.
Aprì la porta e si ritrovò nuovamente la vista offuscata dalla stoffa, levandosi poi la maglia del suo calciatore preferito dal naso, pervaso da tutt'altro odore che caffé, osservando il viso imbarazzato dell'italiano, mentre questi bofonchiava riguardo lavatrici ed altro.
Non riuscì nemmeno a finire la frase, tanto velocemente si era chinato a baciarlo.

Si passò una mano sul viso, accendendosi l'ennesima sigaretta, chiudendo gli occhi ed appoggiando il capo alla parete fredda. Odiava quella città.
La odiavano tutti e tre.
Francis ci avrebbe messo due secondi per trovare un'altra Università che lo accogliesse, il tritarifiuti annoverava lettere anche da Brown, Harvard e Chicago. Le uniche superstiti venivano da Oxford e Cambridge, inutile sindacarvici; Gilbert sarebbe stato accolto a braccia aperte anche dal Louvre, in quel momento, e lui poteva tranquillamente trovare posto in conservatori lontani da quell'inferno di metallo.
Ma non volevano.

Sottile, crudele maledizione.
Due, tre parole, borbottae, mormorate, soffocate, e la fuga iniziava.

Ich liebe dich.
Je t'aime.
Te amo.












































« Spegnila »
Alzò lo sguardo dalle pagine dall'odore di nuovo che queste trattengono fino ad una decina di mesi dopo l'aquisto di un volume, incrociando lo sguardo irritato e profondo di un ragazzo che non doveva avere più di vent'anni, continuando ad aspirare dal filtro, prima di vedersi spezzare la sigaretta sotto il naso.
« Ehi, razza di maleducato, chi ti credi di essere? » domanda, alzandosi dalla panchina e guardando male l'altro, avvolto in un giaccone troppo grande per lui.
« Tu vieni in un cazzo di parco per respirare della fottutissima aria pulita o cosa, coglione inglese? » lo rimbecca questi, fulminandolo quasi.
« Io vengo per avere un pò di silenzio. » s'intromise un'altra voce, mentre una ragazza sui ventitrè anni si avvicinava ai due, passandosi poi una mano tra i capelli lunghi.
« E per pensare. » concluse il primo, chiudendo il libro nello stesso modo con il quale il nodo occludeva la bocca dello stomaco di tutto il terzetto.
I love you.
Szeretlek.
Ti amo.


Ma ho paura.












--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Se indovinate chi cacchio sia il capo di Gil vi stimo ;D
Sì, amo Villa. Ed ho anche la sua maglia.
Mi fa schifo il caffé americano, ma penso si sia capito.
...
E manco la città mi attira poi molto X°3
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: cocochokocookie