Fictional Dream © 2007 (4 febbraio 2007)
Dragon Ball, Bulma, Vegeta e tutti gli altri personaggi sono
proprietà di Akira Toriyama, Bird Studio, Toei Animation, Star Comics e Mediaset
(quali concessionari italiani).
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Nell’infinita banalità dei giorni era un’esclamazione
ricorrente, di quelle che definiscono la ritualità della vita di caserma, le
consuetudini rassicuranti, perché attese. Inevitabili, perché ingiunte.
“Chiamatemi Vegeta.”
Poteva mutare il tono – virare dall’ansia alla rabbia
trattenuta, dal compiacimento alla minaccia – o la circostanza, ma da Freezer
Ottanta a Freezer Trecentoquarantacinque non c’era altra certezza se non
l’infinita reiterazione di quell’inevitabile invocazione.
Lo sapevano tutti. Lo sapevano soprattutto i saiyajin.
Radish aveva di poco superato la decima traslazione quando
Vejita-sei era divenuto un’orbita morta. Non t’insegnavano a succhiare la
nostalgia con il latte di tua madre, ma non era stato comunque qualcosa che si
potesse metabolizzare facilmente. Se perdevi la vita, era quasi un accidente
naturale e inevitabile, ma se perdevi l’identità avevi tutto il diritto di
sentirti frodato.
Radish aveva di poco superato la decima traslazione e nella
sua esistenza routinaria – da manovale della morte; da bestia da punta e da
caccia, come quella di tutti i saiyajin – la guerra era una certezza inevitabile
e quasi rassicurante. Su Vejita-sei non si faceva distinzione tra il cucciolo e
l’adulto: contava quel che sapevi fare. Se poi crepavi potevi prendertela solo
con te stesso.
Radish era una Terza Classe; era venuto presto a patti con il
suo essere uno psyer, ignorando che un giorno quel titolo sarebbe stato
anche l’unica corona del suo Principe.
Chi è uno psyer?
Freezer non lo diceva allora, perché nei primi tempi di
quella Grande Alleanza – c’erano stati accordi formali? Poteva anche darsi.
Radish ricordava solo il supplemento di carne ch’era stato elargito nella mensa
comune, e l’espressione di suo padre: concentrata e tesa – mantenere la forma
era quanto di più prezioso esistesse.
Tutte le volte in cui esplodeva quel richiamo e Radish
chiudeva le placche della corazza – perché chiedere di Vegeta era sempre
chiedere dei tre saiyajin. Guai a mancare o, peggio, cumulare un ritardo
inspiegabile – si diceva che era quasi incredibile pensare che Freezer non fosse
sempre stato un padrone o un dio da venerare e da non contrariare.
C’era stato invece un tempo in cui i saiyajin erano liberi,
erano temuti ed erano rispettati: anche da Freezer.
Radish era una Terza Classe e sapeva cosa fosse uno psyer:
carne da fottere. Non perché gliel’avesse detto Freezer – era raro che il
padrone si rivolgesse così in basso: il suo interlocutore era sempre Vegeta – ma
perché era così che andavano le cose in quell’angolo della Galassia e forse
nell’Universo intero. Era la legge della catena alimentare; a meno di non essere
uno stupido, ti adattavi da solo.
Radish pensava che essere una Terza Classe non fosse poi così
male, perché occupare l’ultimo gradino di una gerarchia infinita sotto Freezer
non era come farlo tra i saiyajin. Pesava meno, ed era quasi consolante
rammentare a se stessi che una Prima Classe non valeva di più. Anzi: non valeva
proprio niente, tant’è che scattava immediatamente quando risuonava la voce del
padrone.
Radish aveva meno di dieci traslazioni quando suo padre era
impazzito e si era messo a fare il profeta. Mancava ancora un poco alla
Soluzione Finale, ma era quasi Bardack se lo sentisse. Era raro che
s’incontrassero – il destino di un saiyan era la guerra. Quello di un maschio
adulto più che mai. L’essere figli implicava obbedire un domani all’ordine di
uccidere o farsi ammazzare, non molto di più; comunque non serviva – lungo
vestiboli troppo affollati per riconoscersi o sfiorarsi davvero. Un paio di
volte aveva colto la stella che ornava il viso paterno far capolino nel coro
occasionale di una pubblica zuffa – i cuccioli avevano bisogno di liberare
aggressività e frustrazione. I cuccioli dei saiyajin più che mai. Anche se
liberarsi poteva voler dire uccidere. Affondare nella polpa del collo come
canidi e premere finché la giugulare non pulsa più. O la prima vertebra si è
rotta – ma non era mai stato un incidente che potesse dire rilevante: non era
abbastanza forte perché potesse inorgoglirlo davvero, né tanto debole da farlo
vergognare.
Era, insomma: tutto quello che serviva ad andare avanti.
Eppure Radish era sicuro di ricordare bene certi grugniti
soffocati, certe espressioni di scontento e un certo risentimento mal
trattenuto, esplicitamente e pericolosamente critico: Freezer che si atteggiava
a padrone nelle commesse; una corona imbelle, incapace di imporsi davvero.
Missioni sempre più pericolose e poco remunerative. Era una fosca Cassandra,
Bardack, fin dall’allora: era quasi sentisse nel sangue che tutto presto sarebbe
finito.
Radish era troppo giovane a quei tempi e nel succedersi delle
orbite aveva deciso di non avere opinioni di sorta – tanto non servivano né a
vivere, né a sopravvivere. Se poi il tuo destino era quello di una Terza Classe,
poco importava il padrone: come una bestia da soma, stavi a capo chino e
aspettavi il colpo.
Freezer non lo spaventava quanto Vegeta, perché il tiranno
era crudele solo a fronte di insubordinazioni davvero gravi, sazio della propria
onnipotenza com’era. Il Principe era sadico per frustrazione o per noia –
sarebbe a dire sempre, perché non nasci Prima Classe per farti dare dello
psyer.
Non nasci Prima Classe per ricevere gli ordini e subire
l’onta della paura.
Purtroppo per Vegeta, però, la natura era anche quello;
persino lo squalo poteva essere mangiato: tanto valeva nascere pesci piccoli e
farsene una ragione.
Vegeta era nato che Radish aveva già sette o otto
traslazioni: troppo poco perché potesse provare interesse per l’erede di una
corona già condannata; abbastanza perché comprendesse che sarebbe comunque stato
anche affar suo.
C’era una specie di giuramento che prestavano i saiyajin, sul
sangue e sul tridente. In un modo o nell’altro, proteggere il Principe era un
suo dovere ontologico e genetico, a prescindere dai sentimenti individuali.
Radish si era chiesto spesso perché proprio lui; perché dei
tanti giovani saiyajin ch’erano morti quel giorno, Freezer avesse scelto il
figlio di un pazzo suicida. Nappa si era venduto per tempo, fiutando la storia
controvento e con largo anticipo. Vegeta era un piccolo mostro.
Ma Radish?
Probabilmente la risposta era nel suo sangue: a differenza di
Vegeta, Freezer aveva un gran senso dell’umorismo. Si divertiva a usarlo, poi.
Ah, se si divertiva.
Persino da morto, Bardack era stato sbeffeggiato, quasi a
ricordare alla storia com’è che si viveva. Non per ideali, ma per respirare un
altro giorno.
A Radish, comunque, sopravvivere non era mai parso un
privilegio; non al servizio di Freezer e men che mai al servizio di Vegeta –
perché ne aveva un terrore cieco: come Nappa, del resto.
Vegeta era nato molto più forte del normale. Se Vejita-sei
fosse sopravvissuto all’Olocausto, non sarebbe poi stato un male: la forza
della corona è l’orgoglio del popolo, recitavano i vecchi – che poi vecchi
non erano, perché su Vejita-sei non si ricordava di nessuno che fosse arrivato a
incanutirsi. Ti ammazzavano in guerra e andava bene.
Ma la forza della corona quando il popolo non esiste più?
Un’ottima domanda, che Radish aveva smesso di porsi già in
occasione del loro fatidico incontro da schiavi; da bestie di un pingue e
variegato serraglio.
Prima ancora di realizzare di non essere solo rimasto orfano
di padre, ma di un’intera storia, Radish aveva focalizzato con il nitore dei
semplici e l’istinto dei guerrieri, d’essere caduto in una trappola senza
ritorno.
Vegeta – il Principe – aveva quattro o cinque traslazioni. La
sua corazza era sporca di sangue e la lingua lustrava ancora i denti – destra,
sinistra, destra, sinistra – quand’era scivolato fuori dalla capsula –
dov’erano? Probabilmente Freezer Ottanta: era quella postazione mediana tra i
Decumani il principale punto di raccordo e fuga verso la conquista galattica.
Era stato allora che si era palesato anche Nappa, unico
adulto in quel consesso di giovani fiere, e aveva detto loro che Vejita-sei era
esploso.
Radish aveva sentito montare una nausea improvvisa, di quelle
che spesso sostituiscono i dolori più consistenti, imprevisti e pericolosi, ma
non aveva detto niente. Era troppo giovane e troppo stupido per coglierne tutte
le implicazioni – o indifferente, perché un Olocausto non è qualcosa su cui sia
possibile ragionare: lo subisci, lo metabolizzi, lo vomiti come dolore o come
violenza.
Quest’ultima era stata la strada che Vegeta aveva battuto,
anche se aveva ripetuto secco: “Lo so già, e la cosa non mi riguarda.”
Era stato anche allora che il germe della paura gli si era
insinuato sotto la pelle – paura e risentimento. Paura e sospetto.
L’aveva sentito complice: non una vittima della carneficina,
ma l’ennesimo esecutore materiale.
Vegeta sembrava a proprio agio in quella sua nuova
condizione, perché la sua forza lo poneva al riparo da tutto. A Freezer lo
legava una familiarità strana: bastava guardare come il cucciolo sfiorasse con
le labbra la mano del padrone, senza abbassare mai lo sguardo; come quella mano
si posasse tra i suoi capelli, stringendone ciocche con il possesso che esprime
solo la carezza dell’allevatore compiaciuto.
“Chiamatemi Vegeta.”
I primi tempi c’era una sorta di dolcezza quasi paterna.
Variavano le destinazioni, ma la commessa era sempre la stessa: un’orbita, due
orbite per un massacro. Un’orbita o due orbite per un pianeta. A volte Radish si
sorprendeva a pensarlo: era stato così che erano morti tutti? Per un’ingiunzione
tanto banale? Era uno stridere fastidioso tra le meningi, che svaniva nel vento
con facilità sorprendente.
Curiosamente era forse Vegeta a pensarci, con il lavorio
ossessivo e instancabile del rancore, oltre quella sua maschera di perfetta
imperturbabilità; Vegeta che pure portava a compimento ogni missione con una
puntualità e uno zelo encomiabili.
Vegeta che stava diventando una leggenda nera sproporzionata
alla sua taglia.
Vegeta che ammazzava e faceva paura, perché dietro
quell’impegno poteva esserci solo un sadico o qualcuno profondamente crudele.
Radish ricordava fin troppo bene la prima circostanza in cui
avevano combattuto fianco a fianco: la ricordava perché non aveva dovuto fare
niente.
Aveva fatto tutto Vegeta.
Se gli avesse sottratto un capo, chissà? Poteva persino darsi
che gli si rivolgesse contro come la machine-gun che era.
Non erano troppo lontani da Freezer Ottanta. L’orbita era
quella di Fherter, una stella ormai esausta, che sarebbe poi divenuta nova un
pugno di giorni dopo la caduta di Freezer – un segno divino? Un commiato
eclatante? L’Universo poteva essere davvero pieno di simboli.
C’era un pianetino naturale che il tiranno non aveva ancora
fatto proprio – per disattenzione o per incuria, chissà? Magari trovava
divertente l’ipotesi di provare da subito gli ultimi acquisti.
La popolazione era umanoide e ben organizzata. Poteva anche
darsi che si aspettassero quel che sarebbe capitato: un’invasione in piena
regola, di quelle per cui Freezer era divenuto celebre.
Radish ricordava l’incertezza e la paura che aveva provato
quando le loro capsule erano state catturate dall’atmosfera e accolte da raggi
di luce accecante. Aveva undici o dodici traslazioni: abbastanza per ammazzare o
essere ammazzato. Nessuno dei suoi compagni, però, sembrava provare altrettanto:
Nappa aveva la disinvoltura dell’esperienza. Il Principe, la follia
dell’innocenza, oppure una crudeltà congenita, che diventava un furibondo
istinto di morte.
Prima ancora che toccassero terra, Vegeta era già oltre il
lunotto di protezione. Per una manciata d’istanti era rimasto così: sospeso e
immobile. Poi – ed era incredibile il nitore con cui ricordava quel semplice,
persino trascurabile dettaglio – aveva spiegato le labbra in una smorfia che non
era d’odio, ma di disprezzo.
Il volto del vero carnefice era quello che avrebbe
accompagnato anche la tragica Samarcanda di Freezer – o la disfatta di Vegeta:
una maschera di disgustata pietà.
A cinque, sei traslazioni, Vegeta aveva già assimilato quella
lezione? Quella del terrore che diventa superiorità e poi falce?
Probabile: delle sue tante precocità, la morte era la più
sviluppata e distintiva.
Aveva scoperto le zanne per qualche millesimo di secondo:
erano bianche, brillanti, acute. Erano l’impronta dell’Ozaru prima dell’Ozaru;
poi aveva aperto il palmo e aveva usurpato agli dei – se mai c’erano – il
diritto di chiamarsi custodi della vita e della morte.
Nella sua piccola mano il ki aveva cominciato a pulsare in
intervalli ravvicinati e successivi, sino a costruire una sfera dalla densità
tenebrosa e terrificante, che sembrava racchiudere il sé tutto l’odio
dell’universo.
Radish non aveva mai visto una death ball; ignorava come a
tanto si legasse la scomparsa del suo popolo, ma aveva intuito ch’era una scelta
senza ritorno, un’arma di devastazione pura, degna di uno sciacallo senza
rimpianti – e Vegeta, davvero, di rimorsi e rimpianti avrebbe avuta piena la
vita, senza mai per questo riconoscerne l’ombra: quello era un Principe
sopravvissuto.
Nappa aveva abbandonato la cellula di protezione, invitandolo
con un cenno secco a fare altrettanto. Era stato il solo, sino a quel momento, a
veder combattere Vegeta: il suo viso cereo suggeriva non fosse uno spettacolo
che qualcuno poteva godere nel veder ripetuto – non un essere umano, almeno.
Vegeta era una minuscola macchia scura stagliata entro un
globo di proporzioni ora mostruose: un globo che sembrava inghiottirlo e che era
invece violenza vomitata e gratuita. L’impatto con il suolo era stato
devastante: nell’aria intossicata dagli ioni, il silenzio improvviso era stata
l’esplosione più deflagrante.
Silenzio, sì, silenzio: quello che aveva salutato la
scomparsa di Vejita-sei e ora abbracciava un’altra terra, ridotta in polvere
disillusa.
Radish aveva già affrontato il corpo a corpo. Conosceva
l’odore del sangue, del fango, della paura: erano ancora dettagli in cui
l’umanità poteva riconoscersi. Anche Bardack, ne era certo, della guerra
apprezzava soprattutto l’onestà degli odori: quella di Vegeta, invece, era stata
una sterilizzazione della storia e della memoria.
Non c’era più niente. Neppure da mangiare.
Vegeta era rimasto sospeso nel vuoto a fissare il cratere che
le acque locali avevano gradualmente colmato. I corpi degli autoctoni, combusti
dall’impatto, erano una massa collosa e informe, priva di caratteristiche tali
da renderne certa la provenienza umana.
“Il nucleo del pianeta non è stato compromesso,” aveva detto
Vegeta – si era portato la coda alle labbra. Ne aveva mordicchiata la punta
pensieroso. “Qui non c’è più niente da fare.” Frasi brevi, secche, gelide.
Spietate. Non sembrava nemmeno un saiyan, perché era già pregno di Freezer:
dell’etica di Freezer, delle tenebre di Freezer e persino di quei suoi stessi
compiacimenti feroci e malati di onnipotenza.
E quella era stata soltanto la prima avventura insieme.
Vegeta faceva paura quando adottava la logica dello
sterminatore pulito – aveva di questi vezzi, lui: giorni in cui non aveva voglia
di polvere o fango o sangue o contatto. Giorni in cui nel suo palmo fioriva la
rosa nera della Morte e si lasciava blandire dalle sue dita di cecchino – ma
sapeva essere persino più terrificante quando tirava fuori la belva.
Era accaduto soprattutto durante l’adolescenza del Principe –
se poi un saiyan ne aveva una. Se poi uno psyer ne aveva ancora il diritto. Era
quasi l’esplodere di tutta la rabbia e delle mille frustrazioni di un momento
isolato di patologica debolezza, esondasse oltre i confini di un corpo
ridicolmente piccolo, tardo nel suo sviluppo e innocuo solo nel suo strato più
superficiale.
Vegeta – che detestava sporcarsi; che era sempre il primo a
cercare un luogo in cui lavarsi, con chirurgica precisione – poteva anche
spingersi sino al polso nelle viscere di una vittima. Godeva delle urla disumane
dei grugni in cui affondava la chiostra dei denti o dei crani che spappolava con
un colpo solo, lasciandoli esplodere come un frutto maturo. E nel suo sguardo
era sempre viva una scintilla metallica e decisa, fissa come l’occhio del
predatore sulla preda già condannata.
Era stato in quel momento che aveva trovato il coraggio di
dirsi la verità: Vejita-sei non sarebbe mai stato vendicato. Non era quanto
interessava a Vegeta, perché la logica dell’Olocausto e della Soluzione Finale e
dello Sterminio Totale era anche la sua. Gliel’avevano inoculata presto e aveva
trovato terreno fertile: un terreno di pochi ricordi, in cui i miseri lampi
residui erano una voce troppo flebile per contrastare quella delle infinite
vittime di una smisurata ambizione.
Nappa era del suo stesso avviso, ma vi era stato anche un
tempo in cui aveva sperato di trarne un vantaggio. Era evidente che Vegeta
costituiva l’unica speranza di rovesciare un giorno Freezer dal suo trono di
morti: meno, però, il fatto che fosse il cucciolo ad averne voglia.
Mentre dunque quella voce s’insinuava nelle sue meningi, con
il mellifluo, raggelante “Chiamatemi Vegeta” di memorie tanto ben
sedimentate da suonare stantie, Radish non si era dato il tempo di pensare
davvero, perché troppo ne era trascorso e perché in fondo si trattava di un
affare di famiglia.
Aveva osato contraddire un ordine, scommettendo su se stesso
e sull’avidità del tiranno. Aveva detto: “Posso occuparmi io della Terra. È mio
fratello che ha disatteso la consegna, in fondo.” E Freezer aveva accettato,
pensando senz’altro a come una Terza Classe potesse eseguire un comando,
piegarsi a un ordine, ma non pensare ancora, con il coraggio della dignità
troppe volte inghiottita, a una via di fuga che parlasse una lingua condannata
dalla storia.
Invece Kakaroth era là, da qualche parte nello spazio, ignaro
di una verità che avrebbe dovuto ascoltare, metabolizzare e fare propria, perché
fosse pronto ad accogliere l’ultima sfida di Vejita-sei: ricominciare dalle
Terze Classi per inghiottire gli squali, oppure indossare quella chiostra ferina
di zanne taglienti e implacabili, per salire al vertice di un’infame catena di
sangue.
Kakaroth, però, di Bardack aveva solo lo sguardo, e una crudeltà senza
rimorsi e senza rimpianti.