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Autore: keska    29/07/2010    26 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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«Si è addormentata copertina


«Si è addormentata?».

«Si, penso proprio di si. É tranquilla oggi».

«Che meraviglia».

«Guarda, la mano…».

Edward accarezzò il punto in cui la piccola aveva puntellato il palmo della mano. In tutta l’ingombranza delle trentotto settimane, me ne stavo finalmente a riposare sul divano, esausta. Il pancione non era propriamente immenso rispetto a quello delle altre mamme, ma decisamente di una grandezza non trascurabile.

La gita nel parco naturale era ormai un lontano ricordo. L’unica cosa di cui mi rammaricavo era non aver trovato Kate, la figlia del professore. Eppure ero così certa che fosse stata così poco distante da noi…

Per il resto, la mia mente aveva assorbito la notizia, attutito il colpo, e avevo avuto sufficiente tempo per assimilare la cosa. E per quanto, soprattutto nei primi tempi, la paura e il ricordo costante di ciò che di terribile era successo, mi avesse tormentato nel profondo, ora riuscivo a stare bene. Abbastanza bene.

Ora, tutta la mia attenzione si era spostata sulla piccola che mi cresceva in grembo, che mi faceva stancare ad ogni movimento, che mi faceva correre in bagno fin troppo spesso. Sorrisi. Era la mia piccola, adorabile, bambina.

«Vuoi mangiare qualcosa?».

Scossi il capo. «No» mormorai, arrancando per tirarmi seduta. «Sbaglio, o gli altri ci aspettano?».

Edward mi offrì una mano per aiutarmi ad alzarmi. «Non sbagli». Posai la testa sulla sua spalla, sbadigliando e stropicciandomi gli occhi. «Ma se sei troppo stanca possiamo rimanere».

«No, mi voglio divertire un po’» biascicai, la bocca impastata.

Non osò ribattere. Dopotutto, era ancora infinitamente preoccupato per le possibili ripercussioni che la nostra disavventura poteva aver portato su di me. Vegliava sui miei sogni, stava attento ai miei e ai suoi gesti. Si prendeva cura di me. Io, dal canto mio, mi limitavo a preoccuparmi dei disagi della bambina e dalla questione del branco, rimasta ancora irrisolta.

Quando arrivammo a casa Cullen c’era il solito silenzioso fermento. Ognuno impegnato nella propria attività, ognuno pronto a lasciarla per fare due chiacchiere o divertirsi.

Jasper aggiornò Edward sui licantropi. «Non riusciamo a metterci in contatto. Carlisle vuole evitare di valicare il confine per entrare a La Push, determinerebbe un attacco di guerra. Ma allo stato attuale non sappiamo nulla…».

Mi massaggiai circolarmente il pancione. «E quindi come faremo?» chiesi, fissando ansiosamente lui e mio marito.

Alice mi piombò addosso, distogliendomi forzatamente dal discorso. Jasper mi assicurò che non ci fosse nient’altro su cui discutere, che mi avrebbero tenuta aggiornata, e con il beneplacito di Edward mi trascinò su per le scale. Mi lasciai dolcemente coccolare dalla sue cure. Creme, manicure, pedicure, ceretta… Persino a quel punto mi lasciai torturare senza proteste.

«Va tutto bene Bella?» chiese, vedendomi silenziosa.

«Si» sospirai «si, sono solo stanca. Credo che se non mi avessi chiamato mi sarei addormentata. Questa peste si muove in continuazione, ogni tanto mi sento un po’ indolenzita».

Mi sorrise, lasciando un leggera carezza sulla pancia. «Eh si, è proprio una peste».

«Di solito appena mi sveglio la mattina è calma. É verso l’ora di pranzo che comincia a scalpitare, e se non la calmo con un cd di musica o una fiaba non la smette. Devo cercare di dormire quanto più possibile a pomeriggio, perché la notte tira calci a non finire. Si sente sempre e costantemente curiosa, dovresti sentire come me lo fa presente!».

Un’espressione tenera comparve sul suo viso, ma non disse nulla.

«Che c’è?» chiesi perplessa.

«Beh, è evidente che ci sia uno spesso legame fra voi. Vi… amate. Siete madre e figlia». Troppo interdetta per le sue parole, sussultai quando mi si precipitò addosso. «Oh Bella, sono così contenta per te».

Sorrisi, contenta. Era vero, stavo così maledettamente bene con mia figlia. Avevo basato la mia felicità sulla sua presenza. L’avevo fatto la prima volta per emergere dalla depressione che mi aveva causato Jacob, per combattere i miei e i suoi problemi, e per andare avanti adesso, dopo tutto quello che, ancora, era successo. Mi sentivo bene.

Appena due giorni prima avevo fatto l’ennesima visita con Carlisle. «La testa è ancora alta» aveva detto, tastandomi l’addome, e aveva concluso «il collo dell’utero è ancora lungo e chiuso. A quanto pare la piccola si farà attendere».

Sorrisi, come avevo sorriso in quel momento a Edward, e mi lasciai andare nella vasca, coccolata dai massaggi della mia sorellina.

Ovunque andassi, specialmente quando mi trovavo a casa Cullen, c’era sempre qualcuno pronto ad offrirmi un braccio o un gomito su cui appigliarmi per non cadere. Dopotutto, ero stata goffa da sempre, e non poter vedere i miei piedi, dover camminare con le gambe larghe e piegate, non era propriamente un aiuto al mio equilibrio.

«Ce la faccio, ce la faccio» biascicai, abbarbicandomi alla ringhiera della scala per non cadere. Edward mi guidò con una mano sul bacino all’ultimo gradino.

«Oh… Perché la tua pancia non è tonda, Bella? Ci sei caduta su e l’hai ammaccata?».

Ansimai, con uno sbuffo. Mi portai una mano alla schiena dolorante. «No, Emmett. La bambina non sta ferma, sai?» ribattei piccata. Accarezzai il pancione. «Magari ci stesse…» feci con una smorfia contrariata.

Rose mi venne accanto, passandomi una mano sotto il braccio. Vederla muoversi così sinuosamente mi faceva rabbrividire. «Carlisle è in ospedale. Esme ti ha preparato qualcosa da mangiare ed è uscita. Torneranno stasera per il dopocena… Hai fame?».

Qualsiasi cosa purché mi potessi sedere. Mangiai con gusto il piatto cucinato da mia suocera. Nell’ultimo periodo avevamo passato così, io e Edward, i nostri pomeriggi. O soli a coccolarci e coccolare la bambina, o con la sua famiglia, a divertirci, talvolta con la presenza di mio padre.

Facevano di tutto per farmi stare tranquilla e serena in vista delle ultime settimane di gestazione, e, contro tutte le mie proteste, evitavano di informarmi spesso e volentieri sui progressi che facevano sulla questione La Push. Dovevo cavare la parole di bocca a Edward, facendogli presente quanto peggio sarebbe stata l’angoscia di non conoscere con precisione come procedesse la situazione.

Attualmente, avevamo semplicemente considerato che pur essendo stati presumibilmente sotto il controllo di Jacob, non erano intervenuti durante lo scontro, e che lui era ormai morto.

«Tranquillizzati» mi diceva Edward, con un sorriso «è tutto sotto controllo». Eppure, per quanto il suo tono fosse persuasivo e disinvolto, conoscevo fin troppo bene la sua capacità recitativa per fidarmi pienamente di lui.

Decise, dopo pranzo, di suonare un po’ il piano. Non lo usava da tempo e a Esme avrebbe fatto piacere, una volta tornata, trovarlo accordato. Io mi misi sul divano ad ascoltarlo. A noi si unì Jasper. E a Jasper Alice. La calma e la tranquillità fu rotta quando Emmett decise di “ravvivare l’atmosfera”.

Un momento più tardi, Rosalie suonava un allegro.

«Avanti, vieni a ballare con me» insistette, prendendomi la mano.

Fui seriamente tentata di fargli la linguaccia. «Se riesci a farmi alzare da qui» feci, facendo spallucce.

Mi scappò un risolino, quando, ghignante, mi sollevò di peso da divano, prendendomi fra le braccia e facendomi ruotare. Gli tirai dei deboli colpetti sulla spalla. «Emmett, smettila! Mi farai vomitare tutto il pranzo così!» esclamai giocosa, finché non mi lasciò andare. Per fortuna, chissà per quale momento di assenamento, si limitò a farci dondolare qua e là.

Anche Alice e Jasper si divertirono, e ben presto Edward venne a reclamarmi. Aveva un sorriso appena accennato sulle labbra. «Non avevi detto che avresti ballato solo con me?».

Arrossii, abbassando il capo. Decisamente, ballare con lui era molto più romantico e piacevole. Gorgogliai qualcosa di incomprensibile sulla sua spalla, sollevandomi sulle punte dei piedi per stringergli le braccia al collo. Ridacchiò, e mi accarezzò i capelli.

Passò poco tempo, e, stanca, mi dovetti andare a sedere sul divano. Edward diede un po’ il cambio a Rose, per permetterle di ballare con Emmett, ma presto si stancarono del genere decisamente più tranquillo prediletto da mio marito, e fu felice di ri-cedere il suo posto e venire a sedersi accanto a me.

Emmett faceva il cretino con Alice, ballando con lei e divertendosi a provare a scompigliarle i capelli. Ero felice. Risi, battendo le mani, quando lei si liberò dalla sua persa, saltandogli sulle spalle.

Improvvisamente, però, mi bloccai. Sentivo un crampo alla parte bassa della pancia. Sollevai lo sguardo, la bocca spalancata. Nessuno si era accorto di nulla. Con una mano mi aggrappai alla manica della camicia di Edward, l’altra al ventre.

Si voltò verso di me, e subito il sorriso gli morì sulle labbra. «Cos’hai?», chiese velocemente, inginocchiandosi davanti a me.

«Ah…» mi lamentai senza fiato, stringendo più forte la sua camicia e la mia maglietta, sulla pancia. Tutti si erano fermati e mi stavano osservando, nel silenzio più assoluto.

Appena il dolore passò mi lasciai andare sui cuscini, prendendo dei respiri affannosi. Rose venne in un istante al mio fianco. Edward mi tastò il grembo. «Contrazioni?» chiese, scrutandomi il viso.

Non feci in tempo ad annuire, che mi ritrovai a sorreggermi ancora la pancia, gli occhi serrati. «Che male…» mi lamentai, in preda al dolore. Edward aumentò la presa sulla mia mano.

«Senti dolore alla schiena? Alla pancia? Eri indolenzita?» chiese Rose, posandomi una mano sul pancione.

Ma io non riuscivo a parlare. Alice mi venne più vicino. «Prima ha detto che aveva la pancia indolenzita».

«Quando prima?».

«Tre ore fa».

Edward mi accarezzò il viso, aspettando trepidante che il dolore scemasse. Non appena potei respirare si scambiò un’occhiata seria con Rose.

«Potrebbe metterci meno del previsto» fece lei, accarezzandomi la pancia. «É meglio se andiamo in ospedale. É il momento».

Una doccia fredda mi calò addosso. É il momento.

Mio maritò annuì, procedendo velocemente. «Rose, il suo borsone è a casa nostra, prendilo e torna. Emmett, vai a preparare l’auto. Alice, avvisa Carlisle che stiamo andando. Jasper» s’interruppe, stringendo le labbra. Tutti gli altri fratelli erano già scomparsi in un secondo dalla stanza. «Allontanati» disse solo.

Avevamo deciso… Per non rischiare. Quando mi si fossero rotte le acque… per il sangue. Non adesso, pensai confusa. É il momento. No.

Mio marito mi prese le mani fra le sue, guardandomi con dolcezza. «Andiamo amore…».

«No» sillabai. Gli occhi spalancati, stupita. Mi sentivo congelata, bloccata. Mi sentivo semplicemente terrorizzata.

Mi fissò perplesso, alzandosi in piedi. «Bella…».

«No» ripetei, irrigidendomi sul divano e tirandomi indietro, spaventata. «No. Non è il momento» feci ansiosa «chiama Emmett, digli di tornare qua, subito, e… e Rose… deve suonare, stavano ballando… ci… ci stavamo divertendo… stavano ballando… Non è il moment… ah…» sussultai, serrando gli occhi e portandomi una mano alla pancia.

Si accovacciò accanto a me, parlandomi con gentilezza. «Piano, prendi dei respiri. Stai calma Bella, è tutto normale. Stai solo per partorire».

Se possibile, sbiancai ancora di più, la bocca aperta per lo stupore oltre che per il dolore. Partorire. Preferivo ‘il momento’. «No» mormorai stridula, appena fui in condizione di parlare. «No, no, no… Non sto partorendo. Non devo partorire. Non devo respirare. No!» esclamai, tentando di ignorare l’indolenzimento alla pancia.

Era confuso, stupito. Era preoccupato. «Bella, non fare così. Avanti, vieni…» fece, provando a farmi passare un braccio dietro la schiena per farmi alzare.

«No!» mi ribellai, provando ad oppormi alla sua presa. Mi avvinghiai al cuscino del divano, tremando di paura. Non poteva. Non poteva nascere. «No, no, non voglio! Carlisle ha detto che mancava ancora tanto! Che c’era tempo! Non sto per partorire, no!».

Leggevo sul suo volto tutto il suo smarrimento. Non si sarebbe mai aspettato una tale reazione da parte mia, e neppure io, consciamente, l’avrei fatto. Ma ero stata calma, ero stata tranquilla, avevo goduto di tutti i momenti con mia figlia. Nel mio grembo.

Provò a farmi ragionare. «Ma amore, hai le doglie. Stai male. Andiamo in ospedale e vediamo che…».

«No! No!». Quello era un incubo. Un incubo che mi si stava precipitando addosso. La mia mente si stava ribellando a quello che stava accadendo al mio corpo.

«Edward!» esclamò Rosalie apparendo nella stanza. «Siete ancora qui?». A differenza del fratello non volle sentire ragioni, e all’ennesima contrazione lo obbligò a caricarmi di peso e trascinarmi in macchina, prima che lo facesse lei stessa.

Avevo paura, e non ero pronta. Avevo pensato che tutto fosse perfetto, e adesso la nascita della bambina non era qualcosa di positivo. Avrei sopportato i fastidi, il mal di schiena, l’assenza di sonno. Ogni cosa era migliore della separazione.

Carlisle aveva detto che avevamo tempo. Questo non era tempo! Erano passati solo due giorni, dannazione!

«Calmati, calmati, respira» mio marito provava a farmi calmare, massaggiandomi le spalle e imitando il ritmo del respiro che avrei dovuto seguire.

Non volevo credere alla realtà, non potevo credere che tutto quello si stesse realizzando. Così presto. Eppure, sentivo il dolore. Sentivo le contrazioni. Eppure, quella dannata automobile mi stava portando in ospedale.

Non appena l’ennesima fitta scemò mi abbandonai per tutta la lunghezza del sedile, per quanto la presenza di Edward, ai miei piedi, me lo consentisse. Scoppiai in lacrime. «Non potete farmi questo! Non voglio, non voglio venire!» piansi.

Lui sembrava rammaricato. Provò a chinarsi su di me. «Amore, mi dispiace. Ma andrà tutto bene, davvero… La bambina starà bene…».

«No!» urlai, in preda al dolore. Fu facile per lui stringermi a sé. Troppo facile tentarmi con il suo abbraccio rassicurante. «Lei è piccola… Mancano ancora due settimane. Ha paura… Non può nascere adesso… Sta tanto bene dentro di me, nella mia pancia… Non me la potete portare via…» singhiozzai, inondandogli la camicia di lacrime.

Mi accarezzò i capelli, ansioso. Non comprendeva tutta la mia paura, non era a conoscenza di tutte le mie paure. «Nessuno te la vuole portare via Bella. La bambina sta solo nascendo…».

«No… Carlisle ha detto… ha detto… ah…» singhiozzai, ripiegandomi sul pancione, «fa male…».

Mi cullò, stringendomi. Sembrava nervoso, si muoveva a scatti. «Amore, non è tardi. Potremmo provare con l’epidu…».

Il mio grido lo fece ammutolire. «Non ci provare Edward! Non ci provare, non mentre sto morendo di dolore!».

Sembrò prendere sul serio il mio avvertimento, perché non ne fece una sola parola. Emmett parcheggiò direttamente davanti al pronto soccorso, e Rosalie scese dall’auto per andare a trovare Carlisle.

«Bella, amore…» fece, a metà fra un sospiro e una supplica.

«No! No, non voglio scendere! Riportatemi indietro! Emmett, riportami indietro subito! Non ci voglio stare qua…» singhiozzai querula. Mi opponevo alle realtà. Mi opponevo alla realtà per paura di andare incontro a quello che era stato solo un sogno. Un bruttissimo sogno.

Edward aprì la portiera, e mi prese per le braccia, invitandomi a scendere. Mi opposi con tutta la mia debole forza umana.

«No… Non mi puoi costringere… Non te ne puoi approfittare solo perché sono debole e… ah… in preda al dolore…» biascicai fra i denti, stringendomi la pancia.

Sospirò, inginocchiandosi di fronte a me con determinazione. «Respira. Amore, guardami» disse, fissandomi con aria seria. Presi un respiro fra le labbra bagnate. «Se rimani in macchina, corri rischi per te e per la bambina. Rischi che stia male, e tu non lo vuoi, vero?» chiese, costringendomi a diniegare col capo, eppure senza smettere di piangere. «Ascoltami. Ho capito che adesso hai paura, e vorresti che questo non stesse succedendo. Ma lo senti anche tu il dolore» fece afflitto, posando una mano sul pancione, «e sei consapevole di quello che succederà. Vieni con me» disse, tendendomi la mano «ti prometto che starai meglio».

Singhiozzai più forte, sentendo il peso della logica dei suoi pensieri. Non potevo più oppormi. Stava succedendo, io e la bambina ci saremmo dovute separare, e non potevo farci nulla, per quanto terribile fosse quel pensiero. Non ti separerai da lei, provò a rassicurarmi la parte più razionale della mia mente, non riusciresti mai a separartene. Era solo un brutto sogno, niente più.

Allungai la mano, tremante, a prendere la sua. Vidi i muscoli dell’avambraccio rilassarsi. Ma un attimo prima che si toccassero la strinsi in un pugno.

«Bella» fece, scattando con la testa verso l’alto.

«Devi promettermi…» mugugnai, tirando su col naso.

«Tutto quello che vuoi» mormorò agitato, accarezzandomi il viso, pronto ad accontentarmi.

Deglutii. «Devi promettermi che sarai sempre con me» feci, la voce arrochita per il pianto, «che non mi lascerai mai».

La sua espressione si addolcì teneramente. Mi accarezzò una guancia. «Certo, si» fece, ansioso di soddisfare ogni mia richiesta. «Non ti lascerò mai. Sarò sempre accanto a te, ti terrò la mano nella mia, te lo prometto».

Incoraggiata e solo lievemente rassicurata dalle sue parole presi un respiro profondo, ricominciando a parlare. «Devi promettermi che… che non insisterai più con la storia dell’epidurale…».

Parve preso in contropiede. «Bella…».

«Promettilo!».

«Si, lo prometto» concesse riluttante. «Andiamo adesso», fece, tenendo il braccio per aiutarmi a tirarmi su.

«Ah» gemetti, piegandomi «ti prego» dissi fra i denti, lasciandomi avvolgere nel suo abbraccio. Mi accarezzò la schiena con la mano. «Promettimi…» dissi fra gli ansiti «promettimi che potrò urlare!»

Ridacchiò, nervoso, stringendomi più forte e cullandomi, finché anche quella contrazione non ebbe il suo corso. «Ti prometto tutto, potrai urlare quanto vuoi» mi guardò con dolcezza, «adesso andiamo. Riesci a camminare?».

Afferrai, tremante, la sua mano. Lo guardai con il viso rosso, inondato di lacrime. Un’espressione mista fra terrore e angosciosa rassegnazione. «Non mi sento le gambe…» farfugliai querula, terrorizzata, lasciando che mi prendesse fra le braccia.

 

Nove ore e mezza più tardi, quasi notte ormai, addentai il mio panino felicemente seduta sul sedile anteriore della Volvo. Non protestavo per i riscaldamenti accesi, era una delle fredde e pazze giornate di fine Aprile, e avevo già abbastanza urtato i nervi di mio marito, che ora guidava, silenzioso, al mio fianco.

Con paura e un’espressione triste e sconsolata, le lacrime ancora agli angoli degli occhi, mi ero lasciata andare al mio destino. Eppure, quando Carlisle era venuto a visitarmi aveva ripetuto esattamente le stesse parole dei due giorni precedenti: niente faceva pensare che il parto fosse vicino. Mi ero calmata, sorpresa e sollevata, e le fitte erano man mano scemate in intensità e numero. Finché, con mia somma gioia, non avevano deciso di lasciarmi andare a casa, per ritornare quando fosse realmente stato il momento. «Può succedere», aveva detto mio suocero con un sorriso.

«Bella. Dobbiamo parlare». La mano di mio marito si strinse sul volante.

Affondai con la bocca nel mio panino, solo per avere una scusa adatta per temporeggiare. «Sto bene adesso» mugugnai a bocca piena, fingendo di non capire «Carlisle ha detto di tornare quando sentirò di nuovo dolore…».

«Bella». Sussultai, ingoiando il boccone. «Non pensi che dovremmo discutere di qualcosa?».

Lo fissai di sottecchi, decisa a evitare la questione. «Non credo che… no. Non penso. Va tutto bene…» mormorai.

Si voltò verso di me con un’espressione estremamente seria. Da fare paura.

Distolsi lo sguardo, mordicchiandomi il labbro. Allontanai il resto della mia cena, investita improvvisamente dalla nausea. «Non mi va, sono stanca» feci, accarezzandomi il pancione.

Sentì lo schiocco della sua mascella, mentre si serrava, e il suo sguardo si spostò sulla strada. Un attimo più tardi la portiera dell’auto si aprì, e mi tese una mano per farmi uscire dall’abitacolo. «Finisci il tuo panino» fece, un tono che non ammetteva repliche.

Lo spiluccai in silenzio sul tavolo della cucina. Avevo il suo sguardo addosso e non osavo sostenerlo. Troppo nauseata per finire realmente di mangiare lasciai la mia cena, abbassando il capo sulla pancia. «Mi dispiace» farfugliai, quando l’increscioso silenzio divenne insostenibile.

Sentii il palmo della mano sulla mia guancia. «Guardami» fece, costringendomi a voltarmi senza sforzo. «Non voglio che tu mi dica questo. Voglio che mi spieghi cos’è successo Bella, perché io non ho mica capito, sai?».

Le mie labbra tremarono. «Mi dispiace» ripetei, sentendomi in colpa per tutto quello che dovevo avergli fatto passare nelle ultime ore. Presi la sua mano libera fra le mie, ansiosa.

Corrugò la fronte, fissandomi con attenzione, cercando di capirmi. «Bella, tu eri tranquilla, eri serena. Lo sei sempre stata nelle ultime settimane, non pensavo che la nascita della bambina rappresentasse un problema. Ma… oggi…» la sua espressione si fece crucciata «cos’è successo? Spiegami».

«Ho avuto paura…» balbettai.

«E gli altri giorni? Prima? Non avevi paura, sapendo quello che inevitabilmente sarebbe successo?». Parlava con calma, la voce piena della logica e della razionalità che mi erano mancate.

Abbassai il capo. «Pensavo di avere tempo» ammisi riluttante. «Ma il dolore è arrivato all’improvviso, e Carlisle aveva detto che mancava ancora molto, e ci sono ancora due settimane, e… io… non credevo che…».

«Cosa non credevi?» chiese, abbassando il viso per cercare i miei occhi. «Spiegami, di cosa hai paura?».

Lasciai che il suo sguardo mi scrutasse, appena per qualche istante, cercando un modo per dirgli cosa pensavo, o un modo per evadere dalla verità. Gli buttai le braccia al collo, destabilizzandolo. «Avevo paura, faceva male, e… La bambina non è pronta Edward, è tanto piccina, e sta così bene qui con me, nella mia pancia. Lei è protetta con me, è protetta…».

Provò dolcemente a staccarsi dalla mia presa, ma infine rinunciò, sospirando e sollevandomi fra la braccia, fino a condurmi in camera da letto. «Amore» mi chiamò, accarezzandomi i capelli e invitandomi a sollevare la testa dalla sua spalla, «quando sarà nata, sarà stupendo» parlò piano, con gentilezza «noi ci occuperemo di lei, la faremo crescere nel migliore dei modi. E noi la proteggeremo, come la stai proteggendo tu, adesso, con il tuo corpo. Nessuno ce la porterà via».

Sospirai, abbassando il capo. Se nessuno l’avesse portata via da noi, chi poteva garantirmi che niente mi avrebbe convinto a farlo io stessa? No, avrei detto, in quel preciso momento, se qualcuno me l’avesse chiesto. Non potresti mai allontanare tua figlia da te. Eppure in preda al terrore l’avevo già fatto.

 

Edward

 

I miei soli e costanti desideri in quei giorni erano stati la salute e il benessere di Bella e della bambina. Mia moglie si stava riprendendo adeguatamente da tutto quello che era successo nelle ultime settimane, e la bambina cresceva sana e serena, coccolata dai suoi genitori.

Avevo il controllo di quello che mi stava attorno. Sorreggevo, accudivo silenziosamente, mi beavo dei momenti più dolci. Dopotutto, non sembrava andare tanto male.

Dopotutto, a quanto pareva, avevo fatto male i conti.

Sentendomi tirare la manica della camicia e vedendo l’espressione dolorante e terrorizzata di Bella, avevo sentito una scarica di quella che non poteva essere adrenalina. Mancavano due settimane, era vero, ma sapevo benissimo quanto fosse comune nelle primipare anticipare la data del parto. E quando Rosalie aveva pensato, ansiosa «Le contrazioni sembrano piuttosto lunghe e dolorose. Era già indolenzita prima, Edward. Non è prudente rimanere qui». Avevo capito che stava succedendo davvero, mi figlia stava per venire al mondo.

E mi ero sentito angosciato, agitato, nervoso, entusiasmato, elettrizzato. E avevo prontamente represso tutto con quel sangue freddo che, ironicamente e non, non poteva mancare.

Ma Bella! Niente mi avrebbe mai preparato alla sua reazione. Lei era solo e semplicemente terrorizzata.

Sospirai, cercando di prestare seria attenzione al discorso che mio padre mi stava facendo sul branco di La Push. Concordavo perfettamente con lui. Non potevamo lasciare nulla al caso, dovevamo forzatamente ristabilire il patto, e trovare un modo per metterci pacificamente in contatto con loro, dal momento che rifiutavano ogni tentativo da parte nostra di farlo.

«É il tuo telefono» pensò Carlisle, unendo questo al flusso dei suoi pensieri.

Sussultai, mettendomi una mano in tasca. Mio padre strinse gli occhi, perplesso per il mio comportamento. Stavo andando fuori di testa con questa storia dei licantropi e di… Bella.

«Pronto?» risposi al cellulare, modulando la voce il modo che anche l’udito umano la potesse percepire. Avevo lasciato Bella a casa con Jasper, sperando che il suo potere riuscisse a calmarla.

«Edward devi venire subito». Jasper. Il sempre calmo e carismatico Jasper era nervoso. Poteva voler dire solo una cosa.

Feci un cenno secco a Carlisle, e prima ancora di aspettarlo saltai dalla finestra, alla volta di casa. «Da quanto?» chiesi velocemente. Non era la prima volta che si ripeteva. Bella aveva avuto ancora contrazioni.

Quando arrivai da lei era agitata, le labbra strette e le lacrime agli angoli degli occhi. Provava a non farsi prendere dal panico. Perché?, mi chiedevo, struggendomi al pensiero, perché deve andare nel panico, quando sta succedendo quella che considero la cosa più bella che possa capitarci?

La strinsi a me, facendole morire il gemito di dolore in un bacio. «Shh, tranquilla. Andrà tutto bene» la rassicurai prontamente. Strinse i denti e annuì.

Terrorizzata. A chi la dava a bere? Era terrorizzata. Dopo averle parlato, ogni volta che aveva una contrazione non si ribellava più, non piangeva più, non gridava, nemmeno, più. Ma come non notare il terrore nascosto dai suoi lineamenti tremanti, dagli occhi rossi, o dalle labbra strette per fermarne il tremito?

Ora negava. Negava ogni sorta di paura.

«Ah…» si lamentò, irrigidendosi fra i cuscini. Mio padre che si dava da fare per controllare la situazione. Si strinse forte con le braccia a me, cercando conforto. Osservavo attento i movimenti di Carlisle, ascoltavo i suoi pensieri metodici, ma non glielo negai. Modulai la voce, addolcii il tono. «Sta tranquilla Bella, è il primo figlio il più difficile, poi gli altri verranno da sé».

S’irrigidì fra le mie braccia, e quando mi voltai a scrutare il suo volto era semplicemente… senza parole. Serrai i denti, silenzioso. Ci avevo pensato. Non l’avevo ancora, prima d’ora, resa partecipe.

Non osai immaginare cosa si celasse realmente dietro quell’espressione, che si piegò senza fiato sul pancione, dolorante.

Mi voltai celermente verso Carlisle. «Mi dispiace ragazzi» fece, scuotendo il capo, «ancora non ci siamo».

La mia espressione diceva tutto quello che ancora non avevano detto le parole. «Com’è possibile che soffra tanto?».

Carlisle si sfilò i guanti, fissando Bella con un sorriso per non farle intendere nulla. «Edward, sta tranquillo. Sai che per ogni donna è diverso. E lei si fa prendere dal panico, e sente l’agitazione e il dolore. Quando saranno quelle vere noterà la differenza».

L’aiutò a risistemarsi sui cuscini, consigliandole di cambiare posizione per alleviare il dolore. Come previsto da mio padre, procedendo irregolarmente e a singhiozzi, man mano le contrazioni scomparvero. La rassicurai in ogni istante, tenendole la mano stretta alla mia, proprio come avevo promesso. Ad ogni contrazione più corta, ad ogni intervallo più lungo, i suoi occhi, che non facevano altro che muoversi a scatti per la stanza, rallentavano sempre più il loro frenetico andare.

«Lo so» rispondeva ormai, in un sussurro, alle mie rassicurazioni.

Quando fu fatta notte, crollò addormentata, stremata, fra le mie braccia.

Poteva un vampiro avere mal di testa? Socchiusi la porta della stanza, così che se mi avesse chiamato o avesse avuto bisogno di aiuto sarei potuto andare velocemente da lei.

«Sta bene?» chiese cortesemente Esme, seduta sulla penisola della cucina a mano a mano con Carlisle.

Mi passai una mano fra i capelli. «Si, si è addormentata da poco». Mi sedetti su uno sgabello dalla parte opposta della penisola, appoggiando i gomiti sul tavolo e la testa sui pugni.

«Sta tranquillo» mi rassicurò mio padre, «sta bene. Tutto questo è estremamente comune, il suo corpo si sta preparando al parto. Mi sarei aspettato una qualche risposta, invero, ma il progesterone che le abbiamo dato qualche settimana fa deve aver rallentato le cose».

Sollevai un sopracciglio, piegando il capo sulle mani per guardarlo in faccia.

Sembrava serio. «Se le cose non procedono naturalmente dovremmo indurre il parto, Edward…» cambiò tono quando mi vide scuotere il capo, un sorriso amaro sulle labbra, «ci sono diversi metodi, anche indiretti. Lasciale più spazio per occuparsi di sé, della casa, dalle motivo di stancarsi. Non deve compire sforzi eccessivi, ma questo non mi sembra impossibile…» si fermò di fronte al mio continuo dissenso. E infine aggiunse: «aspettare troppo significa correre rischi. Per ora la bambina è abbastanza piccola, e ci possiamo permettere di temporeggiare, ma quando non lo sarà più ci sarà poco fra cui scegliere».

«Tu non capisci» dissi, lasciando cadere le braccia sul ripiano e drizzandomi finalmente a guardarlo. «É terrorizzata anche per tutti i più piccoli crampi, per ogni dolorino. E non è nella natura di mia moglie, lo sai. Prima le dovevo leggere le labbra per trovare un gemito soffocato, dovevo osservare ogni gesto per cercare di capire quando, con dolore, si portava una mano alla pancia. Ma ora non è così. Lei non vuole che nasca. E io comprendo l’ansia, comprendo la paura, ma Bella non è così. Lei è terrorizzata».

«L’ansia da parto è comune, Edward».

Diniegai col capo e mia madre allungò le mani sul tavolo, prendendo le mie fra le sue. «Figlio mio, io lo so cosa pensa Bella» disse, con tutto il suo tatto e la sua gentilezza «anch’io ero felice, pensando di poter avere il mio piccino fra le braccia. Eppure, quando fu il momento del parto, provai anch’io tanta paura». Quasi inconsciamente si portò una mano a quello che per sempre sarebbe stato un ventre piatto. «Un po’ per il dolore, un po’ per il disagio. Un po’ per la paura e l’inadeguatezza che sentivo. Ma soprattutto, per la paura di separarmi da lui. Vedi Edward, quando lo senti crescere dentro di te, lo nutri, lo proteggi, lo senti come una parte di te stessa. E sai che niente potrebbe fargli del male, perché prima, tu stessa, lo proteggeresti con il tuo stesso corpo».

Sospirai, abbassando il capo. «Ma lei è così terribilmente afflitta…».

«Bella ha un legame speciale con sua figlia. Per nove mesi sono state in stretto contatto. Non è facile rinunciarvi» finì, e si ritirò sul suo sgabello, lasciando che Carlisle le accarezzasse con discrezione le spalle.

Sentii dei movimenti provenire dalla camera, e attesi qualche istante, finché non udii la porta del bagno aprirsi. «Scusatemi» dissi, alzandomi e procedendo a passo umano verso la camera.

Quando entrai mi chiusi la porta alle spalle, e attesi finché Bella non riaprì la porta. Andai ad aiutarla.

«Ehi… sei qui» mormorò, appoggiandosi al mio corpo. Insistetti affinché dormisse ancora, ma lei si oppose tanto che alla fine lasciai che si sedesse, la schiena contro la testiera del letto.

«Vuoi che mi stenda un po’ io con te?». Certamente non avevo bisogno di dormire, ma avevo preso l’abitudine di farle compagnia la notte, stendendomi al suo fianco e tenendola fra le braccia.

Abbassò gli occhi, evasiva. Temporeggiò. «Carlisle è ancora qui?» chiese infine, ma pensai che non fosse realmente ciò che intendeva dirmi. Tuttavia risposi, fingendo di non accorgermene. Allora sollevò timidamente lo sguardo. «Cosa» fece, e si interruppe con una smorfia, «prima. Hai detto una cosa su… altri figli».

M’irrigidii, presi in contropiede. Certamente, la mente di mia moglie non smetteva di stupirmi. Rilassai le spalle, scrutandola in viso per cercare di intuire i suoi pensieri. Non era affatto semplice. «Si» risposi cauto.

Lei annuì frettolosamente, spostando imbarazzata lo sguardo. Non avrei voluto che l’argomento venisse fuori così, e il fatto che mi fossi lasciato sfuggire quella frase testimoniava quanto la mia mente fosse assurdamente presa dai problemi che incombevano.

Sospirai, deciso ormai a parlarne seriamente. «Ci ho pensato. E sinceramente pensavo che inizialmente non avresti mai acconsentito. Ma considerando ora che durante la gravidanza la tua crescita rallenta, non dovresti porti problemi sulla tua età. Naturalmente è una decisione che dobbiamo prendere insieme».

Mi fissò in silenzio, e si morse un labbro. «Sinceramente…» mormorò «non ci avevo pensato. Ma… si» fece con un sorriso appena accennato «penso che la gioia di avere un figlio sia immensa… perché non quella di averne altri? Avremmo un’eternità davanti, e ora che sono umana, sarebbe giusto… cogliere l’attimo» fece, sostenendo debolmente le sue parole con un rossore sulle guance.

Le sorrisi, sinceramente colpito e rinfrancato dalla piega che stava prendendo il discorso. Parlare ancora delle sue paure e dei suoi timori, temevo, non avrebbe fatto altro che accrescerli. E non potei essere più felice quando anche lei mi sorrise, serena come non mi sembrava da tanto. «Spero non ti dispiacerà doverti abituare per un po’ al pancione» fece, accarezzandosi la pancia.

Mi avvicinai al suo viso, baciandole appassionatamente le labbra. «Non credo, mai. Avremmo tantissimi figli».

Rise, divertita. «Tantissimi? Non esagerare, Edward».

«Almeno dieci» feci, con un tono dispettoso che nascondeva una certa verità.

Mi fissò, scandalizzata e sorpresa. «Dieci! Ma per chi mi hai preso? Magari tre potrebbero bastare».

«Tre? Tre sono pochi. Non dimenticare l’epoca da cui provengo…».

«Ma smettila» mi interruppe con un risolino, dandomi una leggera pacca sulla spalla. E mi beai di vederla così spensierata. «Tu eri figlio unico Edward».

Le sorrisi, avvicinandomi al suo viso e godendo al sentire il suo cuore accelerare la sua corsa. «Ne avremmo quanti ne verranno. Con felicità e gioia». Mi sorrise, e la baciai.

 

«Pronto?». La voce di Sam Uley dall’altro capo del telefono.

Bella mi scoccò un’occhiata timorosa, e le strinsi la mano, facendole un cenno col capo. «Sam, sono Bella. Isabella Cullen» precisò, utilizzando il mio cognome.

Non rispondendo a nessuna delle nostre chiamate o tentativi di metterci in contatto, avevamo pensato che Bella sarebbe stato l’unico ponte percorribile.

Ci fu solo qualche attimo di esitazione. «Bella» fece, premurandosi di non aggiungere altro.

Mia moglie prese un respiro, e sentii il suo cuore battere veloce. Portai la mano libera sulla sua pancia. Avevamo ripetuto mille volte, tutti, cosa avrebbe dovuto dire. Ma trovarsi con sette vampiri immobili e silenziosi a fissarti, carichi di aspettativa, e un licantropo dall’altra parte del telefono, non doveva essere semplice. La accarezzai, mimando con le labbra ‘stai andando bene’.

«Sam» face, e si interruppe per schiarirsi la voce «alla luce degli ultimi avvenimenti, pensiamo che sia necessario ristabilire e riconfermare il patto che ci consente di vivere serenamente. Per questo vorremmo incontrarci» ripeté, con un tono deciso per quanto tremante.

Le sue labbra vibrarono mentre il silenzio dall’altro lato si faceva sempre più lungo.

«Non c’è niente da ristabilire».

La linea cadde.

Con la cornetta ancora in mano, Bella mi guardò angosciata.

 

 

Ciao a tutte!

Ho fatto una bella vacanza, lì da mia sorella, a Pavia. Sono mancata tredici giorni, e ora eccomi con l’aggiornamento, perdonatemi il ritardo.

Molto presto (si spera :P) aggiungerò anche il prologo della nuova storia che da un po’ di tempo mi sta frullando nella testa, dal titolo “Diamante”.

 

Allora. Bella dà un po’ di matto. Perché? Perché Bella, dannazione, non si è accorta prima della sua paura, com’è possibile che abbia avuto questa reazione?

Ecco, secondo me reazioni del genere non si posso prevedere, non consciamente. É la paura, il terrore di quell’attimo, a far scattare “la molla” ed individuare le cause.

 

Spero abbiate apprezzato l’Edward POV. La cosa in cui mi diletto maggiormente quando scrivo dal suo punto di vista, è la totale dedizione e ammirazione che ha nei confronti di sua moglie. Questo spasmodico desiderio di capirla e amarla.

 

Cosa accadrà, ancora, cosa ci farà questa sadica e cattiva scrittrice, mai puntuale, e così lunatica? Vi chiederete.

Lo so, sono pessima. Ma state all’erta, i guai non sono finiti. (Credo si capisca dalle ultime righe).

 

Ringrazio tutti. Preferiti, seguiti.

E tutti, tutti quelli che commentano facendomi ridere, facendomi commuovere, facendomi increspare le labbra o sghignazzare. (Faccio tutto questo). Leggo ogni singolo commento con gioia, ballando sulla mia poltroncina rossa. Grazie, grazie, grazie.

 

 

PS. In questi giorni ho pubblicato una shot, di nome “Lussuria”, che ha partecipato al contest di erzsi. Troverete tutti i link nel capitolo, se vi va di leggerlo. Ovviamente, invito a farlo solo ai maggiorenni, visto che, come si sarà capito, è a rating rosso.

 

PPS. Scusate per la lunghezza di questo e dei prossimi capitoli. Scusate, ma sono gli ultimi!!!

 

(fatto da Elena- Lena89)

 

«--BLoG!!!--»

 

www.occhidate.splinder.com

 

 

 

   
 
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