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Autore: berlinene    30/07/2010    2 recensioni
Uno spin off-what if delle vicende del "Diario"... o, come dice il titolo, un'altra possibilità: per i protagonisti, in un momento in cui ormai nessuno di loro ci sperava più, e per voi. E per me. Enjoy. [Munemasa Katagiri; Personaggio originale femminile]
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Diario di Irene Price genera storie'
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Una breve vacanza inaspettata

Katagiri rimase immobile a osservare il tassista scaricare le sue valigie. Non mosse un muscolo e non solo per risparmiarsi la fatica, pensando che già il lungo viaggio avrebbe messo a dura prova la sua schiena, ma anche perché non voleva partire. Gli incontri coi dirigenti inglesi erano andati bene, c’erano buone prospettive per una serie di amichevoli, oltre che di stage per alcuni ragazzi. Tutto secondo i piani, insomma: doveva essere fiero del proprio operato. Se prima di partire gli avessero detto che poteva finire così, ci avrebbe messo la firma. Ma allora non sapeva…
Alla fine, in barba a tutte le fisime, si era quasi deciso a chiamarla, ma, poi, ogni sera, puntualmente, era stato incastrato dall’invito di qualche dirigente e la cena che più ambiva era sistematicamente saltata. Ma forse era un bene. Andare a disturbare Ichirou o, peggio, Mikami per recuperare il numero di lei gli sarebbe parso un gesto piuttosto disperato.
Lasciò al tassista una lauta mancia, svuotando le tasche delle ultime sterline, afferrò il carrello con le valigie e si avviò verso la porta. Poi si fermò, cambiando idea: si posizionò in un angolo e accese una sigaretta. La aspirò gustandone tutto il sapore, cercandone l’effetto rilassante che nelle ore successive gli sarebbe mancato.
Il cellulare interruppe l’idillio. Katagiri si frugò agitato le tasche, mosso da un presentimento. Inspirò profondamente, infine guardò il display.
Gamo.
“Sì?” rispose a mezza voce, mentre il cuore rallentava, deluso.
“Ma dove cazzo sei?”
Munemasa sospirò indispettito: Minato non avrebbe mai imparato le buone maniere. Quindi rispose, cercando di mantenersi calmo: “Ho l’aereo fra poco più di due ore, dove vuoi che sia? Mi fumo l’ultima sigaretta prima di entrare in aeroporto.”
“Ti do una notizia buona e una cattiva… Quale vuoi prima?”.
“La buona” sibilò innervosito Munemasa.
“Non è l’ultima sigaretta quella che stai tenendo in mano come una checca in questo momento”.
Munemasa si affrettò a infilare la sigaretta fra le labbra, poi biascicò a mezza bocca: “E la cattiva?”.
“Che hai fatto una levataccia per niente, hai buttato via i soldi del taxi e… dovrai sciropparti qualche altra colazione iperproteica… in effetti le notizie cattive sono più di una”.
Katagiri prese una profonda boccata, cercando di controllare la voce, mentre il cuore riaccelerava. “E perché dovrei rimanere qua?”
“Perché ci è stato comunicato che la prossima settimana, a Parigi, si terrà una riunione per l’organizzazione di una serie di amichevoli fra nazionali giovanili. Abbiamo pensato che già che sei in zona… Avremmo anche già provveduto a cambiare la data di ritorno del volo Londra – Tokyo e a prenotare volo e albergo a Parigi…”
“Ah…bene… è bello essere sempre il primo a sapere le cose…”
“Ho provato a chiamarti un sacco di volte ma avevi il cellulare spento…”
“Forse perché qui era notte fonda? Comunque, non so se sarò all’altezza…”
“Di cosa?”
“Beh, un conto è fare degli incontri privati, un altro è ‘sto summit… il mio inglese…”
“Bah” biascicò Gamo. Katagiri lo immaginò scuotere le spalle poderose in un gesto tipico. “Hai tre giorni a Londra, trovati l’interprete…”
Un’idea saettò subito nella mente di Munemasa, mentre Gamo concludeva mellifluo: “…magari carina che Paris c’est toujour Paris*”, con un inaspettato sfoggio di poliglossia.
Katagiri arrossì violentemente, ma, per fortuna, il collega non poteva vederlo. La voce si mantenne serena, il tono volutamente casuale: “Ho già una mezza idea che Mikami apprezzerà. Ti faccio sapere, intanto vedi di fermare un altro volo e un’altra camera” disse scandendo bene le ultime due parole.
“Bene, ci sentiamo” salutò Gamo e riagganciò. “Stupido ragazzino” disse al telefono chiuso, “quando imparerai a divertirti un po’?” il tono era bonario, la voce quasi triste.
Munemasa, invece, era al settimo cielo, senza aereo. Scorse rapido la rubrica del cellulare: “Wakabayashi Ichirou e poi dovrebbe esserci Gen-” Sorrise: il numero era sempre stato lì, da quando l’aveva chiamata per proporle di collaborare con la Federazione. Cosa che si apprestava a rifare.

“Se ‘ti trattieni qualche giorno’ e hai ‘qualcosa da dirmi’” aveva risposto Yasu allegra, riassumendo la sua richiesta, “non c’è bisogno di parlare per telefono. Posso essere lì all’aeroporto fra mezz’ora”.
Erano passati solo alcuni minuti in più, quando una spider argentata zigzagò  birichina fra le auto ferme fino ad arrestarsi davanti a lui. La Wakabayashi sgusciò fuori dallo sportello salutandolo da sopra il tettino. I capelli mossi le circondavano scompostamente il viso sorridente: l’inconfondibile naso a patata e gli occhi color nocciola, i tratti che la rendevano uguale a Genzo, erano dissimulati da occhiali da vista con la montatura di plastica azzurra.
“Nel bagagliaio ci sta giusto la ventiquattr’ore… la valigia la mettiamo sul sedile posteriore… considerato che non ha le gambe dovrebbe entrarci” spiegò divertita, arricciando il naso. “Non so cosa ci trovi mio fratello in questa macchina!”
“Non c’è problema. Grazie per essere venuta a prendermi” rispose il giovane, con un inedito sorriso solare.  
Sistemati i bagagli, Munemasa spiegò che sarebbe rimasto per poter partecipare a un altro incontro di lì a qualche giorno, ma non entrò nello specifico.
Yasu, da parte sua, non indagò oltre le motivazioni di quel cambio di programma, si informò invece su cosa lui volesse fare nel frattempo.
“Prima di tutto” rispose l’altro, soffocando uno sbadiglio e sprofondandosi nel seggiolino, “dovremo tornare al mio albergo a sentire se hanno stanze libere. Oppure cercarne un altro…”
“Ho io la sistemazione giusta” rispose lei, nascondendo a stento un sorriso sornione “se ti fidi…”.
Lui acconsentì, anche se sospettava ci fosse sotto qualcosa: ma non ebbe molto tempo di rifletterci perché la stanchezza lo vinse e si appisolò. Il viaggio durò un’oretta circa, ma a Munemasa parvero pochi minuti e solo quando si fermarono, riconobbe la villa dove si era svolta la festa.
“Ma questa è casa tua” protestò.
“Sì, ma quanto a stanze e personale non ha niente da invidiare a un albergo” rise lei. Poi si fece seria “A noi fa piacere ospitarti… intendo dire… ai miei, a Ichirou e… a me…” esitò. “Ma se a te non va…” si affrettò ad aggiungere.
“No, no” fu altrettanto rapido lui a rassicurarla. “Solo non voglio dare…”
“Shhh” fece Yasu scuotendo la testa e sfiorandogli le labbra con la mano come a zittirlo. “Nessun disturbo”.
Un leggero calore le salì alle guance, ma fu salvata dal cancello che, aprendosi, la costrinse a rimettere le mani sul volante, per entrare, a passo d’uomo, nel vialetto.
Il maggiordomo si avvicinò a passetti rapidi e, istruito da Yasu, prese i bagagli e invitò Katagiri a seguirlo per mostrargli la tua stanza.
“Sistemati pure con calma,” si congedò la ragazza, “il pranzo sarà servito fra un’oretta”.
Ancora una volta entrambi si sentirono combattuti fra il desiderio di restare soli e quello di passare insieme più tempo possibile. Ma – rifletterono tutti e due- non c’era fretta.
Un’ora dopo Katagiri si presentò nel salone, con indosso dei jeans e una polo. Yasu, accovacciata sul divano, alzò lo sguardo dalla rivista che sfogliava svogliatamente e ridacchiò.
“Beh?” fece lui un po’ risentito, accorgendosene.
“Scusa è che” ammise, “è la prima volta che ti vedo senza giacca e cravatta”.
“Non credevo fosse prevista per il pranzo” si giustificò, vagamente a disagio.
“Ma cosa vai a pensare?” rise. “Fra l’altro siamo solo io e te, e per me è meglio così”.
In effetti stava bene: sebbene leggermente appesantito attorno al giro vita, il fisico da calciatore si indovinava ancora.


 “Allora” chiese allegra Yasu, al momento del caffè, “cosa ti va di fare oggi? Vuoi andare a Londra? Un’oretta e ci siamo…”
“Non saprei… credo di sì…”
“Non mi sembri convinto…”
“I posti affollati non mi vanno… troppo a genio…” ammise lui.
“Ok, allora ho un’idea. Se ti fidi…”
“L’ultima volta che hai detto così” osservò. “Mi hai fregato…”
“Qualcosa non va?” si preoccupò la padrona di casa, “la stanza non ti piace? Il pranzo non era buono?”
“Ma no” si affrettò a rassicurarla, posando la tazza sul tavolino da fumo e mettendole una mano sulla spalla. “Scherzavo… è tutto perfetto!”
“Anche il posto che ho in mente, vedrai” esclamò lei, balzando in piedi con la solita vivacità, immediatamente ritrovata.

In macchina Yasu si informò circa gli esiti degli incontri dei giorni precedenti: il discorso tornò sulla nazionale e il tempo del viaggio trascorse quasi senza che se ne accorgessero. Quando la ragazza fermò l’auto e dichiarò che erano arrivati, Munemasa si maledisse per non essere riuscito a introdurre l’argomento Parigi.
Scesero dalla macchina e il giovane si guardò intorno: la brughiera che aveva fatto da sfondo a buona parte del loro tragitto, si diradava lentamente sfumando in una lingua di sabbia grigiastra, lambita da un mare placido, del colore del piombo fuso. La spiaggia si dipanava vuota e solitaria per alcuni chilometri. Un paesaggio che colpiva per la sua mancanza di colori, sorprendente anche per uno abituato da anni a vedere il mondo da dietro delle lenti scure.
“Il Giappone è molto più colorato,” osservò Yasu arricciando il naso, quasi avesse seguito la sua linea di pensieri, “ma se chiudi gli occhi, il profumo del mare è lo stesso”.
Sì, lo ricordava anche lui, il piccolo villaggio sul mare in cui era nato, dove l’acqua e il cielo spesso erano di un azzurro intenso.
“Quando mi manca molto vengo qui. Chiudo gli occhi, inspiro l’odore del mare, ascolto le onde e…” aveva chiuso gli occhi e aperto le braccia, come per fare un respiro profondo, poi si era ricomposta immediatamente. “Penserai che sono una sciocca sentimentale…”.
Katagiri che l’aveva osservata a metà fra il divertito e l’ammirato, la rassicurò che no… solo non si immaginava avesse così tanta nostalgia.
“Oh, sì… mi manca Nankatsu, mi manca Tokyo… mi manca il Giappone anche se non gli sono mai appartenuta davvero… insomma, sicuramente mi sento più a mio agio qua, ma forse… mi manca proprio quel sentirmi speciale… e ovviamente mi mancano i ragazzi…”
“Intendi la nazionale?”
“Sì, ma soprattutto…”
Silenzio. Yasu si morse le labbra, mentre lo sguardo le si annebbiava.
Munemasa cercava disperatamente un modo per cambiare discorso, forse poteva dirle di Parigi…
“Soprattutto i miei compagni del Toho” continuò lei all’improvviso, la voce che tremava un po’. “Kojiro, Kazuki… con Kojiro ci siamo beccati un paio di volte qua in Europa, ma è così strano…”
Lo sguardo invisibile di Katagiri era rivolto verso di lei, lo sentiva.
“Non Kojiro” spiegò lei, “…la situazione”.
Munemasa taceva: non sapeva se doveva cambiare discorso o semplicemente ascoltarla. Fu lei a decidere: ormai era un fiume di confessioni in piena.
“E mi manca Ken… ma non nel modo disperato in cui mi mancava all’inizio… ma nelle piccole cose… a volte mi imbatto in qualcosa e automaticamente penso ‘questo devo dirlo a Ken, questo devo chiederlo a Ken, chissà cosa dirà Ken quando glielo racconto…’ poi l’istante successivo mi rendo conto che non succederà”.
Katagiri aggrottò la fronte, come se qualcosa non fosse chiaro. “Ma non hai detto che ti scrive?”
“Sì, ma non ho detto che gli rispondo…”
Annuì meditabondo, mentre si frugava in tasca per prendere una sigaretta che poi si accese. Aspirò pensoso una boccata, poi osservò: “Hai ragione, differenza sottile ma sostanziale”.
Yasu lo guardò: il tono formale riuscì a strapparle un sorrisetto sghembo. Inspirò un po’ di aria salmastra, sforzandosi di sorridere davvero.
“Ti fa male” osservò poi, accennando alla sigaretta.
“Facciamo tante cose pur sapendo che ci fanno male…”
“Sacrosante parole” confermò lei con un sospirone. “D’altra parte… smettiamo anche di fare cose che invece ci fanno piacere… Forse siamo un po’ tutti dei ‘pazzi masochisti’ come dice la Aoba”
“Quali cose?” chiese, curioso, osservandola avvicinarsi alla bauliera della macchina e aprirla.
“Tipo questo” fece la ragazza, tirandone fuori un pallone da calcio.
“Oh, mio Dio” rise Munemasa portandosi una mano alla fronte. “Da quanto tempo non ne tocco uno…” aggiunse. Yasu ne immaginò lo sguardo quasi cupido.
Gli gettò la palla, ma lui scansò rapido le mani, stoppandola col ginocchio per poi fermarla sotto la pianta del piede. “Per ‘toccare’ intendo nel modo giusto… con i piedi, non con le mani…” spiegò, rialzando il pallone da terra con la punta del piede e facendo qualche abile palleggio.
“Almeno che non indossi i guanti…” rispose lei, strappandogli la palla con le mani fasciate da un paio di vecchi guantini da portiere.
Non li infilava da tanto tempo. Si sforzò di non pensare alle iniziali incise in un angolo, sbiadite, appena visibili a tutti, ma non a lei, fermamente decisa com’era a concentrarsi solo sulle sensazioni positive: il modo in cui i guanti le calzavano a pennello, il sole timido e tiepido, la sabbia della temperatura giusta e lui, che ancora una volta aveva capito senza bisogno di parlare.
Si misero a giocare come due bambini, ridendo e sporcandosi di sabbia.
Per quei lunghi minuti, Munemasa ebbe l’impressione che la sua vita ricominciasse esattamente dal punto in cui si era interrotta, gli sembrò di non avere mai abbandonato il calcio e di avere di nuovo vent’anni, proprio come la ragazza che gli stava di fronte.
Quello che non sapeva, è che lei provava le stesse identiche sensazioni, anche se, nel suo caso, a scomparire erano stati solo pochi mesi, per quanto intensi e dolorosi.
Quando l’ennesimo tiro le si spense fra le braccia, però, Yasu protestò: “Smettila di usarmi cortesie, sai fare molto meglio di così…”
“Ti sbagli” ansimò l’altro, piegandosi e poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. “Il problema è che io sono vecchio e tu sei la Super Girl Goal Keeper.”
Yasu sgranò gli occhi “E questa dove l’hai sentita…? Quel coglione di Soda…”
“Sarà pure un elemento di disturbo per la squadra,” rispose, “ma come creatore di soprannomi è imbattibile…”
“Ma va… Credo fosse più per prendere in giro mio fratello che altro… presente, no, quanto quella sigla lo renda tronfio?” sghignazzò. Un sorrisetto che prometteva poco di buono le si allargò sul viso mentre, giocherellando col pallone, con aria vaga disse: “Parlando di soprannomi, poi… so che il tuo era Robin…”
Lui la guardò stupito. “Come fai a saperlo? Non eri nemmeno nata quando…”
“Esagerato! Ero nata eccome…”
“Sì, ok, ma…”
“L’ho letto su una foto che Mikami portava con sé…”
“E ti ha anche spiegato perché?”
“No”
“Passami una palla rasoterra”.
Yasu obbedì. Il passaggio fu preciso e Munemasa ne parve soddisfatto: fece una breve corsa misurando attentamente i passi e poi colpì il pallone.
La ragazza lo guardò, un po’ delusa e si buttò per parare con sicurezza, ma, quando la palla stava praticamente sfiorandole le dita, d’improvviso fece uno scarto repentino, scavalcandole le mani e terminando la sua corsa sulla sabbia, alcuni metri dopo di lei. Yasu finì con la faccia nella rena, ma si risollevò quasi subito, facendo leva sui gomiti.
“Fantastico!” gridò emozionata. “Tsubasa impazzirebbe se glielo insegnassi!”
“Sì… credo che il mancato successo di questo tiro sia dovuto al nome…”
Yasu ridacchiò: “Ho paura di chiedertelo”.
“Visto il modo in cui scarta? Ricorda il modo in cui si muove…”
“Oddio cosa?”
“Un pipistrello”.
“Beh, in effetti rispetto a rapaci e tigri varie il pipistrello fa un po’ pena…”
“Infatti”
Yasu scoppiò a ridere fragorosamente. Poi si fermò un attimo e riprese ancora più forte, mentre, senza riuscire a prendere fiato e gesticolando per sopperire alle parole, balbettò “Allora…hihi…Robin…era…ahahah…perché facevi…oddio non ci riesco…il bat-tiro?”
“Esatto, però ero una mezza sega”.
Yasu riaffondò il viso nella sabbia, ridendo fino alle lacrime e battendo con un pugno a terra. Poi si rialzò e, sempre sghignazzando, andò a recuperare il pallone, colpendolo con forza con l’intenzione di rispedirlo al mittente, non accorgendosi, però, che, da quella posizione sarebbe arrivato a Katagiri dal suo lato cieco. Il giovane non riuscì dunque a vedere la palla che gli urtò la guancia, facendo cadere gli occhiali.
“Oddio scusa!” esclamò Yasu correndogli incontro. Non riuscì a vederlo in volto: la mano di lui corse rapidissima a raccogliere gli occhiali per rimetterli e solo dopo  a sfiorare il punto dove la palla lo aveva colpito.
“Ti ho fatto male?” gli chiese, allungando una mano verso il suo volto.
“No” tagliò secco lui, ritraendosi da quel tocco e saggiando con dita quasi tremanti la montatura.
“Non si sono rotti?” insisté Yasu, sollecita.
Munemasa scosse leggermente la testa in gesto di diniego. La guardò ritrarre la mano e mordersi le labbra.
“Non è niente, Yasu, sono cose che capitano” le disse infine, avvicinandosi. “Adesso sai perché ho smesso di giocare a calcio, perché adesso sono ancora più simile a un pipistrello” concluse, stiracchiando un sorriso amaro.
Lei fece altrettanto e aggiunse “Andiamo a casa, mi farò perdonare con la cena che ti prometto da tempo”.

Quando quella sera Munemasa si coricò fra le morbide coltri del letto ad acqua di villa Wakabayashi, ci mise un po’ a prendere sonno. Innanzitutto si sentiva strapieno: il cibo ottimo e la gradevole compagnia della giovane Wakabayashi l’avevano spinto a mangiare un sacco. Yasu aveva fatto altrettanto ma era stata capace, contemporaneamente, di chiacchierare a macchinetta per tutta la sera. I soliti discorsi sul calcio e sulla nazionale di cui entrambi avrebbero potuto parlare all’infinito e poi la storia di come erano andate le cose fra lei e Wakashimazu. L’aveva raccontata con il sorriso sul volto, ma era un sorriso faticoso, di quelli che Katagiri sapeva riconoscere bene. Un sorriso che ha dietro ettolitri di lacrime e sangue.
Con semplicità gli aveva raccontato di come si erano lasciati quando lui aveva abbandonato il ritiro, di come lei aveva pensato si trattasse solo di una pausa di riflessione, di come si erano rincontrati al matrimonio di Tsubasa e Sanae, di come lui gli avesse rivelato di essere gay e di stare insieme a Sawada. E poi di come lei fosse scappata in Germania da Genzo, di come, grazie a lui, avesse faticosamente ritrovato se stessa. Aveva abbandonato gli studi di Fisioterapia e Medicina Sportiva per approfondire la conoscenza delle lingue, che aveva coltivato fin da piccola e ora…
Quello sarebbe stato il momento di farle la proposta per andare a Parigi ma, puntualmente, erano sbucati i soliti inopportuni conoscenti che avevano monopolizzato Yasu il tempo necessario perché si facesse tanto tardi da dover tornare a casa. In macchina e poi a casa, in corridoio, prima di augurarsi formalmente la buonanotte, non ci era riuscito.
Pazienza: c’era ancora il giorno successivo.



NOTA:

* "Parigi è sempre Parigi"... la città romantica per eccellenza... lo sa pure Gamo!

RIFLESSIONI:

Che che ne dica releuse, secondo me la storia del pipistrello è *ridicolerrima* ma non mi è venuto niente di meglio...

La frase sui "pazzi masochisti" Yayoi la dice in un'altra mia ff, Le cose che amo. Amo fare cross reference (e spam XD).

Sì, sì la coppia KenTakeshi non fa impazzire neppure me, ma questo "what if" è nato con questo pairing e mi dispiaceva cambiarlo... Anche perché crea una serie di interessanti spunti per un fantomatico seguito... *firulì firulà*

   
 
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