Una breve vacanza inaspettata
Katagiri
rimase immobile a osservare il tassista scaricare le sue valigie. Non
mosse un muscolo e non solo per risparmiarsi la fatica, pensando che
già il lungo viaggio avrebbe messo a dura prova la sua
schiena, ma
anche perché non voleva partire. Gli incontri coi dirigenti
inglesi
erano andati bene, c’erano buone prospettive per una serie di
amichevoli, oltre che di stage per alcuni ragazzi. Tutto secondo i
piani, insomma: doveva essere fiero del proprio operato. Se prima di
partire gli avessero detto che poteva finire così, ci
avrebbe messo la
firma. Ma allora non sapeva…
Alla fine, in barba a tutte le fisime,
si era quasi deciso a chiamarla, ma, poi, ogni sera, puntualmente, era
stato incastrato dall’invito di qualche dirigente e la cena
che più
ambiva era sistematicamente saltata. Ma forse era un bene. Andare a
disturbare Ichirou o, peggio, Mikami per recuperare il numero di lei
gli sarebbe parso un gesto piuttosto disperato.
Lasciò al
tassista una lauta mancia, svuotando le tasche delle ultime sterline,
afferrò il carrello con le valigie e si avviò
verso la porta. Poi si
fermò, cambiando idea: si posizionò in un angolo
e accese una
sigaretta. La aspirò gustandone tutto il sapore, cercandone
l’effetto
rilassante che nelle ore successive gli sarebbe mancato.
Il
cellulare interruppe l’idillio. Katagiri si frugò
agitato le tasche,
mosso da un presentimento. Inspirò profondamente, infine
guardò il
display.
Gamo.
“Sì?” rispose a mezza voce, mentre il
cuore rallentava, deluso.
“Ma dove cazzo sei?”
Munemasa sospirò indispettito: Minato non avrebbe mai
imparato le buone
maniere. Quindi rispose, cercando di mantenersi calmo: “Ho
l’aereo fra
poco più di due ore, dove vuoi che sia? Mi fumo
l’ultima sigaretta
prima di entrare in aeroporto.”
“Ti do una notizia buona e una cattiva… Quale vuoi
prima?”.
“La buona” sibilò innervosito Munemasa.
“Non è l’ultima sigaretta quella che
stai tenendo in mano come una checca in questo momento”.
Munemasa si affrettò a infilare la sigaretta fra le labbra,
poi biascicò a mezza bocca: “E la
cattiva?”.
“Che hai fatto una levataccia per niente, hai buttato via i
soldi del
taxi e… dovrai sciropparti qualche altra colazione
iperproteica… in
effetti le notizie cattive sono più di una”.
Katagiri prese una
profonda boccata, cercando di controllare la voce, mentre il cuore
riaccelerava. “E perché dovrei rimanere
qua?”
“Perché ci è stato
comunicato che la prossima settimana, a Parigi, si terrà una
riunione
per l’organizzazione di una serie di amichevoli fra nazionali
giovanili. Abbiamo pensato che già che sei in
zona… Avremmo anche già
provveduto a cambiare la data di ritorno del volo Londra –
Tokyo e a
prenotare volo e albergo a Parigi…”
“Ah…bene… è bello essere
sempre il primo a sapere le cose…”
“Ho provato a chiamarti un sacco di volte ma avevi il
cellulare spento…”
“Forse perché qui era notte fonda? Comunque, non
so se sarò all’altezza…”
“Di cosa?”
“Beh, un conto è fare degli incontri privati, un
altro è ‘sto summit… il mio
inglese…”
“Bah” biascicò Gamo. Katagiri lo
immaginò scuotere le spalle poderose
in un gesto tipico. “Hai tre giorni a Londra, trovati
l’interprete…”
Un’idea saettò subito nella mente di Munemasa,
mentre Gamo concludeva mellifluo: “…magari carina
che Paris c’est toujour Paris*”,
con un inaspettato sfoggio di poliglossia.
Katagiri arrossì violentemente, ma, per fortuna, il collega
non poteva
vederlo. La voce si mantenne serena, il tono volutamente casuale:
“Ho
già una mezza idea che Mikami apprezzerà. Ti
faccio sapere, intanto
vedi di fermare un altro volo e un’altra camera”
disse scandendo bene le ultime due parole.
“Bene, ci sentiamo” salutò Gamo e
riagganciò. “Stupido ragazzino” disse
al telefono chiuso, “quando imparerai a divertirti un
po’?” il tono era
bonario, la voce quasi triste.
Munemasa, invece, era al settimo
cielo, senza aereo. Scorse rapido la rubrica del cellulare:
“Wakabayashi Ichirou e poi dovrebbe esserci Gen-”
Sorrise: il numero
era sempre stato lì, da quando l’aveva chiamata
per proporle di
collaborare con la Federazione. Cosa che si apprestava a rifare.
“Se ‘ti trattieni qualche giorno’ e hai
‘qualcosa da dirmi’” aveva
risposto Yasu allegra, riassumendo la sua richiesta, “non
c’è bisogno
di parlare per telefono. Posso essere lì
all’aeroporto fra mezz’ora”.
Erano passati solo alcuni minuti in più, quando una spider
argentata
zigzagò birichina fra le auto ferme fino ad
arrestarsi davanti a lui.
La Wakabayashi sgusciò fuori dallo sportello salutandolo da
sopra il
tettino. I capelli mossi le circondavano scompostamente il viso
sorridente: l’inconfondibile naso a patata e gli occhi color
nocciola,
i tratti che la rendevano uguale a Genzo, erano dissimulati da occhiali
da vista con la montatura di plastica azzurra.
“Nel bagagliaio ci
sta giusto la ventiquattr’ore… la valigia la
mettiamo sul sedile
posteriore… considerato che non ha le gambe dovrebbe
entrarci” spiegò
divertita, arricciando il naso. “Non so cosa ci trovi mio
fratello in
questa macchina!”
“Non c’è problema. Grazie per essere
venuta a prendermi” rispose il giovane, con un inedito
sorriso solare.
Sistemati i bagagli, Munemasa spiegò che sarebbe rimasto per
poter
partecipare a un altro incontro di lì a qualche giorno, ma
non entrò
nello specifico.
Yasu, da parte sua, non indagò oltre le
motivazioni di quel cambio di programma, si informò invece
su cosa lui
volesse fare nel frattempo.
“Prima di tutto” rispose l’altro,
soffocando uno sbadiglio e sprofondandosi nel seggiolino,
“dovremo
tornare al mio albergo a sentire se hanno stanze libere. Oppure
cercarne un altro…”
“Ho io la sistemazione giusta” rispose lei,
nascondendo a stento un sorriso sornione “se ti
fidi…”.
Lui acconsentì, anche se sospettava ci fosse sotto qualcosa:
ma non
ebbe molto tempo di rifletterci perché la stanchezza lo
vinse e si
appisolò. Il viaggio durò un’oretta
circa, ma a Munemasa parvero pochi
minuti e solo quando si fermarono, riconobbe la villa dove si era
svolta la festa.
“Ma questa è casa tua”
protestò.
“Sì, ma
quanto a stanze e personale non ha niente da invidiare a un
albergo”
rise lei. Poi si fece seria “A noi fa piacere
ospitarti… intendo dire…
ai miei, a Ichirou e… a me…”
esitò. “Ma se a te non va…”
si affrettò ad
aggiungere.
“No, no” fu altrettanto rapido lui a rassicurarla.
“Solo non voglio dare…”
“Shhh” fece Yasu scuotendo la testa e sfiorandogli
le labbra con la mano come a zittirlo. “Nessun
disturbo”.
Un leggero calore le salì alle guance, ma fu salvata dal
cancello che,
aprendosi, la costrinse a rimettere le mani sul volante, per entrare, a
passo d’uomo, nel vialetto.
Il maggiordomo si avvicinò a passetti
rapidi e, istruito da Yasu, prese i bagagli e invitò
Katagiri a
seguirlo per mostrargli la tua stanza.
“Sistemati pure con calma,” si congedò
la ragazza, “il pranzo sarà servito fra
un’oretta”.
Ancora una volta entrambi si sentirono combattuti fra il desiderio di
restare soli e quello di passare insieme più tempo
possibile. Ma –
rifletterono tutti e due- non c’era fretta.
Un’ora dopo Katagiri si
presentò nel salone, con indosso dei jeans e una polo. Yasu,
accovacciata sul divano, alzò lo sguardo dalla rivista che
sfogliava
svogliatamente e ridacchiò.
“Beh?” fece lui un po’ risentito,
accorgendosene.
“Scusa è che” ammise,
“è la prima volta che ti vedo senza giacca e
cravatta”.
“Non credevo fosse prevista per il pranzo” si
giustificò, vagamente a disagio.
“Ma cosa vai a pensare?” rise. “Fra
l’altro siamo solo io e te, e per me è meglio
così”.
In effetti stava bene: sebbene leggermente appesantito attorno al giro
vita, il fisico da calciatore si indovinava ancora.
“Allora” chiese allegra Yasu, al momento
del caffè, “cosa ti va di fare oggi? Vuoi andare a
Londra? Un’oretta e ci siamo…”
“Non saprei… credo di
sì…”
“Non mi sembri convinto…”
“I posti affollati non mi vanno… troppo a
genio…” ammise lui.
“Ok, allora ho un’idea. Se ti
fidi…”
“L’ultima volta che hai detto
così” osservò. “Mi hai
fregato…”
“Qualcosa non va?” si preoccupò la
padrona di casa, “la stanza non ti piace? Il pranzo non era
buono?”
“Ma no” si affrettò a rassicurarla,
posando la tazza sul tavolino da
fumo e mettendole una mano sulla spalla.
“Scherzavo… è tutto perfetto!”
“Anche il posto che ho in mente, vedrai”
esclamò lei, balzando in piedi con la solita
vivacità, immediatamente ritrovata.
In macchina Yasu si informò circa gli esiti degli incontri
dei giorni
precedenti: il discorso tornò sulla nazionale e il tempo del
viaggio
trascorse quasi senza che se ne accorgessero. Quando la ragazza
fermò
l’auto e dichiarò che erano arrivati, Munemasa si
maledisse per non
essere riuscito a introdurre l’argomento Parigi.
Scesero dalla
macchina e il giovane si guardò intorno: la brughiera che
aveva fatto
da sfondo a buona parte del loro tragitto, si diradava lentamente
sfumando in una lingua di sabbia grigiastra, lambita da un mare
placido, del colore del piombo fuso. La spiaggia si dipanava vuota e
solitaria per alcuni chilometri. Un paesaggio che colpiva per la sua
mancanza di colori, sorprendente anche per uno abituato da anni a
vedere il mondo da dietro delle lenti scure.
“Il Giappone è molto
più colorato,” osservò Yasu arricciando
il naso, quasi avesse seguito
la sua linea di pensieri, “ma se chiudi gli occhi, il profumo
del mare
è lo stesso”.
Sì, lo ricordava anche lui, il piccolo villaggio sul
mare in cui era nato, dove l’acqua e il cielo spesso erano di
un
azzurro intenso.
“Quando mi manca molto vengo qui. Chiudo gli
occhi, inspiro l’odore del mare, ascolto le onde
e…” aveva chiuso gli
occhi e aperto le braccia, come per fare un respiro profondo, poi si
era ricomposta immediatamente. “Penserai che sono una sciocca
sentimentale…”.
Katagiri che l’aveva osservata a metà fra il
divertito e l’ammirato, la rassicurò che
no… solo non si immaginava
avesse così tanta nostalgia.
“Oh, sì… mi manca Nankatsu, mi manca
Tokyo… mi manca il Giappone anche se non gli sono mai
appartenuta
davvero… insomma, sicuramente mi sento più a mio
agio qua, ma forse… mi
manca proprio quel sentirmi speciale… e ovviamente mi
mancano i
ragazzi…”
“Intendi la nazionale?”
“Sì, ma soprattutto…”
Silenzio. Yasu si morse le labbra, mentre lo sguardo le si annebbiava.
Munemasa cercava disperatamente un modo per cambiare discorso, forse
poteva dirle di Parigi…
“Soprattutto i miei compagni del Toho”
continuò lei all’improvviso, la
voce che tremava un po’. “Kojiro,
Kazuki… con Kojiro ci siamo beccati
un paio di volte qua in Europa, ma è così
strano…”
Lo sguardo invisibile di Katagiri era rivolto verso di lei, lo sentiva.
“Non Kojiro” spiegò lei,
“…la situazione”.
Munemasa taceva: non sapeva se doveva cambiare discorso o semplicemente
ascoltarla. Fu lei a decidere: ormai era un fiume di confessioni in
piena.
“E mi manca Ken… ma non nel modo disperato in cui
mi mancava
all’inizio… ma nelle piccole cose… a
volte mi imbatto in qualcosa e
automaticamente penso ‘questo devo dirlo a Ken, questo devo
chiederlo a
Ken, chissà cosa dirà Ken quando glielo
racconto…’ poi l’istante
successivo mi rendo conto che non succederà”.
Katagiri aggrottò la fronte, come se qualcosa non fosse
chiaro. “Ma non hai detto che ti scrive?”
“Sì, ma non ho detto che gli
rispondo…”
Annuì meditabondo, mentre si frugava in tasca per prendere
una
sigaretta che poi si accese. Aspirò pensoso una boccata, poi
osservò:
“Hai ragione, differenza sottile ma sostanziale”.
Yasu lo guardò:
il tono formale riuscì a strapparle un sorrisetto sghembo.
Inspirò un
po’ di aria salmastra, sforzandosi di sorridere davvero.
“Ti fa male” osservò poi, accennando
alla sigaretta.
“Facciamo tante cose pur sapendo che ci fanno
male…”
“Sacrosante parole” confermò lei con un
sospirone. “D’altra parte…
smettiamo anche di fare cose che invece ci fanno piacere…
Forse siamo
un po’ tutti dei ‘pazzi masochisti’ come
dice la Aoba”
“Quali cose?” chiese, curioso, osservandola
avvicinarsi alla bauliera della macchina e aprirla.
“Tipo questo” fece la ragazza, tirandone fuori un
pallone da calcio.
“Oh, mio Dio” rise Munemasa portandosi una mano
alla fronte. “Da quanto
tempo non ne tocco uno…” aggiunse. Yasu ne
immaginò lo sguardo quasi
cupido.
Gli gettò la palla, ma lui scansò rapido le mani,
stoppandola col ginocchio per poi fermarla sotto la pianta del piede.
“Per ‘toccare’ intendo nel modo
giusto… con i piedi, non con le mani…”
spiegò, rialzando il pallone da terra con la punta del piede
e facendo
qualche abile palleggio.
“Almeno che non indossi i guanti…”
rispose
lei, strappandogli la palla con le mani fasciate da un paio di vecchi
guantini da portiere.
Non li infilava da tanto tempo. Si sforzò di
non pensare alle iniziali incise in un angolo, sbiadite, appena
visibili a tutti, ma non a lei, fermamente decisa com’era a
concentrarsi solo sulle sensazioni positive: il modo in cui i guanti le
calzavano a pennello, il sole timido e tiepido, la sabbia della
temperatura giusta e lui, che ancora una volta aveva capito senza
bisogno di parlare.
Si misero a giocare come due bambini, ridendo e sporcandosi di sabbia.
Per quei lunghi minuti, Munemasa ebbe l’impressione che la
sua vita
ricominciasse esattamente dal punto in cui si era interrotta, gli
sembrò di non avere mai abbandonato il calcio e di avere di
nuovo
vent’anni, proprio come la ragazza che gli stava di fronte.
Quello
che non sapeva, è che lei provava le stesse identiche
sensazioni, anche
se, nel suo caso, a scomparire erano stati solo pochi mesi, per quanto
intensi e dolorosi.
Quando l’ennesimo tiro le si spense fra le
braccia, però, Yasu protestò: “Smettila
di usarmi cortesie, sai fare
molto meglio di così…”
“Ti sbagli” ansimò l’altro,
piegandosi e
poggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. “Il
problema è
che io sono vecchio e tu sei la Super Girl Goal Keeper.”
Yasu sgranò gli occhi “E questa dove
l’hai sentita…? Quel coglione di
Soda…”
“Sarà pure un elemento di disturbo per la
squadra,” rispose, “ma come creatore di soprannomi
è imbattibile…”
“Ma va… Credo fosse più per prendere in
giro mio fratello che altro…
presente, no, quanto quella sigla lo renda tronfio?”
sghignazzò. Un
sorrisetto che prometteva poco di buono le si allargò sul
viso mentre,
giocherellando col pallone, con aria vaga disse: “Parlando di
soprannomi, poi… so che il tuo era
Robin…”
Lui la guardò stupito. “Come fai a saperlo? Non
eri nemmeno nata quando…”
“Esagerato! Ero nata eccome…”
“Sì, ok, ma…”
“L’ho letto su una foto che Mikami portava con
sé…”
“E ti ha anche spiegato perché?”
“No”
“Passami una palla rasoterra”.
Yasu obbedì. Il passaggio fu preciso e Munemasa ne parve
soddisfatto:
fece una breve corsa misurando attentamente i passi e poi
colpì il
pallone.
La ragazza lo guardò, un po’ delusa e si
buttò per parare
con sicurezza, ma, quando la palla stava praticamente sfiorandole le
dita, d’improvviso fece uno scarto repentino, scavalcandole
le mani e
terminando la sua corsa sulla sabbia, alcuni metri dopo di lei. Yasu
finì con la faccia nella rena, ma si risollevò
quasi subito, facendo
leva sui gomiti.
“Fantastico!” gridò emozionata.
“Tsubasa impazzirebbe se glielo insegnassi!”
“Sì… credo che il mancato successo di
questo tiro sia dovuto al nome…”
Yasu ridacchiò: “Ho paura di
chiedertelo”.
“Visto il modo in cui scarta? Ricorda il modo in cui si
muove…”
“Oddio cosa?”
“Un pipistrello”.
“Beh, in effetti rispetto a rapaci e tigri varie il
pipistrello fa un po’ pena…”
“Infatti”
Yasu scoppiò a ridere fragorosamente. Poi si
fermò un attimo e riprese
ancora più forte, mentre, senza riuscire a prendere fiato e
gesticolando per sopperire alle parole, balbettò
“Allora…hihi…Robin…era…ahahah…perché
facevi…oddio non ci riesco…il
bat-tiro?”
“Esatto, però ero una mezza sega”.
Yasu riaffondò il
viso nella sabbia, ridendo fino alle lacrime e battendo con un pugno a
terra. Poi si rialzò e, sempre sghignazzando,
andò a recuperare il
pallone, colpendolo con forza con l’intenzione di rispedirlo
al
mittente, non accorgendosi, però, che, da quella posizione
sarebbe
arrivato a Katagiri dal suo lato cieco. Il giovane non
riuscì dunque a
vedere la palla che gli urtò la guancia, facendo cadere gli
occhiali.
“Oddio scusa!” esclamò Yasu correndogli
incontro. Non riuscì a vederlo
in volto: la mano di lui corse rapidissima a raccogliere gli occhiali
per rimetterli e solo dopo a sfiorare il punto dove la palla
lo aveva
colpito.
“Ti ho fatto male?” gli chiese, allungando una mano
verso il suo volto.
“No” tagliò secco lui, ritraendosi da
quel tocco e saggiando con dita quasi tremanti la montatura.
“Non si sono rotti?” insisté Yasu,
sollecita.
Munemasa scosse leggermente la testa in gesto di diniego. La
guardò ritrarre la mano e mordersi le labbra.
“Non è niente, Yasu, sono cose che
capitano” le disse infine,
avvicinandosi. “Adesso sai perché ho smesso di
giocare a calcio, perché
adesso sono ancora più simile a un pipistrello”
concluse, stiracchiando
un sorriso amaro.
Lei fece altrettanto e aggiunse “Andiamo a casa, mi
farò perdonare con la cena che ti prometto da
tempo”.
Quando quella sera Munemasa si coricò fra le morbide coltri
del letto
ad acqua di villa Wakabayashi, ci mise un po’ a prendere
sonno.
Innanzitutto si sentiva strapieno: il cibo ottimo e la gradevole
compagnia della giovane Wakabayashi l’avevano spinto a
mangiare un
sacco. Yasu aveva fatto altrettanto ma era stata capace,
contemporaneamente, di chiacchierare a macchinetta per tutta la sera. I
soliti discorsi sul calcio e sulla nazionale di cui entrambi avrebbero
potuto parlare all’infinito e poi la storia di come erano
andate le
cose fra lei e Wakashimazu. L’aveva raccontata con il sorriso
sul
volto, ma era un sorriso faticoso, di quelli che Katagiri sapeva
riconoscere bene. Un sorriso che ha dietro ettolitri di lacrime e
sangue.
Con semplicità gli aveva raccontato di come si erano
lasciati quando lui aveva abbandonato il ritiro, di come lei aveva
pensato si trattasse solo di una pausa di riflessione, di come si erano
rincontrati al matrimonio di Tsubasa e Sanae, di come lui gli avesse
rivelato di essere gay e di stare insieme a Sawada. E poi di come lei
fosse scappata in Germania da Genzo, di come, grazie a lui, avesse
faticosamente ritrovato se stessa. Aveva abbandonato gli studi di
Fisioterapia e Medicina Sportiva per approfondire la conoscenza delle
lingue, che aveva coltivato fin da piccola e ora…
Quello sarebbe
stato il momento di farle la proposta per andare a Parigi ma,
puntualmente, erano sbucati i soliti inopportuni conoscenti che avevano
monopolizzato Yasu il tempo necessario perché si facesse
tanto tardi da
dover tornare a casa. In macchina e poi a casa, in corridoio, prima di
augurarsi formalmente la buonanotte, non ci era riuscito.
Pazienza: c’era ancora il giorno successivo.
NOTA:
* "Parigi è sempre Parigi"... la città romantica per eccellenza... lo sa pure Gamo!
RIFLESSIONI:
Che che ne dica releuse, secondo me la storia del pipistrello è *ridicolerrima* ma non mi è venuto niente di meglio...
La frase sui "pazzi masochisti" Yayoi la dice in un'altra mia ff, Le cose che amo. Amo fare cross reference (e spam XD).
Sì, sì la coppia KenTakeshi non fa impazzire neppure me, ma questo "what if" è nato con questo pairing e mi dispiaceva cambiarlo... Anche perché crea una serie di interessanti spunti per un fantomatico seguito... *firulì firulà*