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Autore: DubheShadow    30/07/2010    0 recensioni
Ogni canzone degli HIM è come una storia. Una storia che
necessita di essere narrata, svolta come un nastro che viaggia per le
foreste di una fantasia ancora ignota. Le ambientazioni spesso
svieranno quindi dalla normale realtà, diventando
rappresentazioni tangibili di oceani di vino, in cui forse si
potrà raccogliere un angelo che bacia la primavera
nascente...
Ed è questo che cercherò di fare, aggiornando
pian piano questa raccolta (disomogenea per certi versi, visto che
presenta generi completamente differenti fra loro): dar voce e vita a
testi che sono poesie. All'interno è probabile che siano
presenti citazioni più o meno dirette ai testi delle canzoni
prese in considerazione, in quanto ogni capitolo rappresenta una
song-fic sviluppata in racconto.
Genere: Dark, Malinconico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Lo stridio di una macchina che frenava, lo scroscio della pozzanghera che fece scivolare l’auto un po’ più avanti di quanto si sarebbe voluto. Dalla fretta di attraversare la strada, non notai che mi avevano quasi investito.

 Raggiunsi velocemente il marciapiede opposto, e proseguii dritto finché non trovai una tenda rigida sotto cui ripararmi. Prima stavo suonando tranquillamente ad un angolo della piazza, quando nubi nere e temporalesche avevano offuscato la luce del tiepido sole primaverile, e nel giro di poco aveva cominciato a piovere. Avevo appena fatto in tempo a conservare la chitarra nel fodero e a infilarmi il cappuccio, che il cielo si era sfogato con un diluvio che pareva non voler finire.

E ora eccomi lì, ancora mi rivedo, sotto il portico gocciolante di un negozio di periferia a tremare dal freddo, bagnato come un pulcino. Avevo diciassette anni, ma sembravo più piccolo, uno strascico di sogni infranti e nuove idee come carico adolescenziale.

 Mi guardai intorno: oltre alla gente che con gli ombrelli correva chi a trovar riparo chi semplicemente verso i propri impegni, non c’era anima viva disposta ad ascoltare la mia musica. Mi voltai verso la vetrina della bottega che tanto gentilmente mi stava ospitando, sebbene fuori e ancora vittima del vento gelido, fino a quando il fortunale non sarebbe scemato. Il vetro era a tratti appannato, ed era così sporco che l’immagine riflessa mi arrivava opaca e scurita. Ma non v’era dubbio, quel bastardo dai capelli biondi appiccicati alla fronte e gli abiti stracciati, il manico di una chitarra che spuntava da dietro la schiena e che ora mi sorrideva di rimando, beh, non potevo che essere io.

 Il mio sguardo però non si soffermò a me, che, diciamolo, in quella situazione non ero per nulla un bello spettacolo; bensì andò oltre, e scrutò ciò che la vetrina lasciava intravedere del locale. Capii subito che si trattava di un negozio d’abiti, forse una rivendita degli scarti delle vecchie stagioni, poiché ogni capo d’abbigliamento esposto era semplicemente orribile. In un angolo c’era anche una sorta di riproduzione tutta imbrillantinata di qualche ballerino anni ’70, con i pantaloni a zampa e un’inguardabile parrucca cotonata. Davanti all’entrata, un cartello scarabocchiato con inchiostro nero recitava: Chiuso per lutto. Perfetto, meglio di così non poteva andare, davvero.

 Un attimo, in quel negozio non era però proprio tutto da buttare. Un manichino discostato dagli altri, posto affianco al bancone della cassa, era fiocamente illuminato da una lampadina rimasta accesa. Ritraeva una figura alta e longilinea, lunghe braccia leggermente aperte e le gambe messe in una posizione che dava l’impressione che stesse camminando. Era una donna attraente e dallo sguardo coperto da un cappello in paglia, la larga banda della visiera decorata da nastri color pesca portava un’ombra sottile sul volto, che quasi non riuscivo a scorgere a causa della lontananza. Ma qualcosa mi diceva che sotto si nascondevano delle gote rosee e un paio di labbra cremisi, come bagnate di succo di fragola, forse un naso appuntito, e anche delle lunghe ciglia nere per far risaltare degli occhi verde smeraldo. Proseguii ad esplorarne le forme arcuate, soffermandomi sui seni piccoli che spuntavano timidi ricoperti da un abito leggero. Sotto il petto c’era un cinturino in pelle marrone dalla chiusura dorata, al cui lato era attaccata una catenina sottile che ogni tanto sembrava mandare bagliori ramati. Il vestito arrivava alle ginocchia leggermente sbozzate, e la gonna a veli si spostava, alzandosi, mossa da una corrente d’aria proveniente da chissà dove. I piedi erano chiusi in degli stivaletti in camoscio rossastro. Sul polso sinistro, stretto con un fiocco, c’era una fascia a cui era attaccato un piccolo girasole.

 Mi venne da pensare al vecchio barbuto che doveva essere il padrone dell’attività, me lo immaginai a spogliare quella donna così perfetta. Quasi lo rividi chinato a stringere il fiocco del bracciale a girasole, con una cura che mal si addiceva alla sua figura dispotica e addetta alla poltroneria. Da un lato avrei voluto essere al suo posto, poter calcare il cappello su quel viso e quindi assaporarne i tratti gentili, sapendo che sarebbero appartenuti solo a me. Dall’altro lato, però, mi crogiolavo a cercare di scoprire da solo la mia dama, ammirarla al di là della lamina in vetro appannata dal mio caldo respiro. Amarla.

 Sembrerà strano, ma in quel momento mi ronzava in testa questa storia. Una melodia da tracciare il giorno dopo sulla chitarra stava prendendo forma, piano, nella mia mente di giovane rocker. Erano note sgrezzate in una figura di plastica e cera, come lei, e attendevano di essere denudate per brillare nella loro gracile essenza. La amavo. Dio, se non mi ero beccato un malanno per colpa di tutta quella pioggia ed ero sano di mente, ero pronto a giurare che il mio cuore in quel momento stesse battendo, forte e veloce, per un fottuto manichino.

 

 Il giorno dopo mi svegliai di buon’ora. Tornai nella stessa piazza del giorno prima, sperando in un tempo migliore. Ogni tanto qualche starnuto mi ricordava che mi ero buscato un bel raffreddore, e io di rimando pregavo al mio naso di non sgocciolare proprio mentre suonavo.

 Mi misi all’ombra di un edificio, all’angolo fra il bar e la panetteria. Tolsi la mia carissima chitarra dal suo fodero, e saggiate alcune corde cominciai a tracciare una motivo appena accennato. Era primo mattino e pochi circolavano, perciò ne approfittai per creare la mia canzone d’amore. Appena avessi visto camminare più gente avrei messo da parte i miei folli esperimenti, e con un sorriso mesto avrei suonato il mio repertorio comune.

 Di per sé la chitarra elettrica non è il miglior modo di chiedere l’elemosina, l’ho provato sulla mia pelle. Un tamburello o un aspetto da fanciullo da soli possono molto di più. Il fatto è che se le persone ti vedono strimpellare allegramente, pensano di conseguenza che i soldi ce li hai. Primo perché sorridi invece di piangere, secondo perché altrimenti non si sanno spiegare dove hai preso il denaro per comprarti quello sfacelo  di strumento.

Ma io ho una risposta sensata ad entrambe le questioni, peccato che nessuno si degni di chiedermelo. Sorrido perché, cavolo, io suonando mi diverto. E se passassi il tempo a piangere di certo sarei finito all’altro mondo da un bel po’, mentre io la vita voglio tenermela ben stretta. La chitarra è stato un regalo di mio padre, un uomo di cui non ricordo la faccia e che prima di abbandonare mia madre in mezzo alla strada ha avuto questa brillante idea. Non so che pensare di lui, ma alla mia chitarra voglio bene. Attraverso lei ho capito il senso della musica, che non è solo il rumore che esce dai sintetizzatori e dalle radio. La vera musica è il battito d’ali di un gabbiano che sorvola lo scrosciante oceano, oppure è il palpitare del cuore di un bambino che allunga le mani verso il sole. Musica erano le ninnananne che mia madre mi cantava prima di farmi addormentare.

 Tornando a noi, quel giorno fui come al solito sfortunato. Racimolai gli spiccioli per una parca cena, e nel frattempo avevo composto però quella canzoncina che mi aveva tormentato tutta la notte. Non che fosse un’opera d’arte, ma mi piaceva particolarmente. Aveva un ritmo tutto suo, anni ’50, e il testo si era quasi formato da sé, esclusi alcuni pezzi che ancora non mi convincevano. Camminavo in ritorno al mio rifugio e ancora la canticchiavo.

 Passò un altro giorno, e stavolta ero deciso a mettere in pratica il mio lavoro. Volevo sapere se il pubblico, per così dire, apprezzava. Recandomi alla solita piazza, passai davanti al negozio in cui per primo scorsi la mia dolce principessa. Aveva riaperto i battenti.

 Sostai lì alcuni minuti, senza sapere che fare, sotto l’insegna intermittente Glendora’s che mi faceva compagnia. Strano che prima non l’avessi notata; ora i neon rosati si accendevano accecanti, producendo un ronzio fastidioso a cui però nessuno faceva caso perché coperto dai motori delle auto, e dal caos cittadino in generale.

 Ero ancora indeciso su cosa fare. La scritta che annunciava la chiusura dell’attività era sparita, ma ancora non ero riuscito a scorgere nessuno dentro. Il vetro sembrava essere pulito, o forse era la luce del cielo limpido a permettermi di vedere meglio l’interno. Era più curato di quanto mi aspettassi: c’erano cianfrusaglie ovunque, ma tutte messe con un ordine loro, raggruppate per tendenza e colori. Nonostante fosse palese che il locale fosse troppo piccolo per tutto quell’abbigliamento, si erano conservati stretti corridoi fra uno scaffale e l’altro, tanto da dare l’effetto di trovarsi in un labirinto dalle siepi arcobaleno. Il mio manichino era ancora lì, affianco alla cassa, e sembrava invitarmi ad entrare.

 Mi feci coraggio e… no, non aprii la porta. Lasciai scivolare la mano sulla vetrina e mi voltai, andandomene via fischiettando allegramente, come se così facendo dissimulassi quel mio atto di bizzarra vigliaccheria.

 

 Dovete sapere che Helsinki è una città molto, ma molto strana. Ci stavo pensando proprio allora, sgambettando per il Kauppatori mentre mangiavo un po’ di fagioli racimolati fra le varie bancarelle. L’odore del pesce era come al solito mitigato dalla fredda brezza marina, e nell’aria si spandeva il sapore dolciastro di tè ai frutti di bosco e di vino caldo. In alto, a volare con le ali spiegate, decine di gabbiani mandavano ogni tanto i loro stridii. Lungo tutto il mercato si incontravano diversi capannelli di turisti, spesso accostati attorno ai banchi di souvenir o a mangiare il pesce caldo sulla banchina. I finlandesi invece camminavano svelti, silenziosi, e il loro chiacchiericcio era molto sommesso, quasi carezzevole. Non ero ancora deciso se considerare la mia città strana perché vi vivevo io, o per qualche altro vago motivo. In effetti non potevo portare nessun argomento a favore della mia tesi, solo che i palazzi, la gente, tutto in generale, mi mettevano addosso una sensazione inspiegabile. Mi pareva di trovarmi sempre fuori luogo.

 E per questo forse davo la colpa a lei. Helsinki sa prendersi tutti gli oneri di una madre generosa ma severa, e così ne approfittavo anch’io, tanto da mettermi fra le sue grazie e poi criticarla al primo accenno di brutto tempo. Se io non trovavo un posto dove stare, era perché si era dimenticata di farmi spazio fra tutti i suoi figli. Non poteva essere altrimenti. D’altronde, a diciassette anni non ero in grado di assumermi nessuna colpa. Assolutamente. Animo puro. Quasi.

 Lavorai per la mattinata intera, appostato sulla banchina del porto. C’era un via vai molto accanito, così ebbi la possibilità di racimolare un buon guadagno. Verso mezzogiorno feci una pausa, e mi avvicinai a una fontanella che gorgogliava allegramente per abbeverarmi. Si trovava a pochi passi dalla mia postazione, perciò lasciai lì il cappello in cui la gente metteva i soldi, convinto che non sarebbe successo nulla in quei pochi secondi.

 E invece non fu così. Un ragazzino si gettò letteralmente sul cappello, agguantandolo, e poi prese a filare fra i vari banconi. Ero rimasto attonito per alcuni istanti, poi realizzai l’accaduto e presi ad inseguirlo, ansante.

 Stavo correndo con la chitarra ancora in mano, inseguendo la figura che svelta si faceva largo fra la folla. Mi misi a gridare improperi da lontano contro quello scricciolo del malaugurio. “Ehi, la mia cena! Torna qui, brutto…”

 Lo riacciuffai all’angolo di Södra Kajen. Lo presi con forza dalla collottola e lo sbattei contro il muro. I nostri respiri affollati si susseguivano a ritmo irregolare, a volte sovrapponendosi, altre volte cominciando al terminare dell’uno. Il ragazzino non doveva avere più di dieci anni, tanto che i suoi piedi penzolavano di buoni venti centimetri da terra. Terrorizzato ma allo stesso tempo con occhi infuocati, lasciò cadere il mio cappello pieno di spiccioli. Sentii un tintinnare di monete roveschiate, ma non vi prestai caso. L’unica cosa che mi importava in quel momento era fargliela pagare.

“Mi fai male…” bisbigliò con tono rauco. Solo allora mi accorsi di aver stretto un po’ troppo la presa, e che il collo del piccolo cominciava ad arrossarsi violentemente. Lo riposi sul marciapiede come di solito si fa con un regalo non voluto e lo lasciai andare. “Non stavo facendo niente.” mi disse, con un tono di voce che pareva aver riacquistato d’un tratto tutta la sua autostima.

“Vedi di guadagnarti i soldi da solo, la prossima volta.” risposi. Lui mi guardò ancora un attimo, poi fuggì come un lampo lungo la via. A me non rimase che inginocchiarmi come un cane a raccogliere i miei spiccioli, con un’aria così afflitta e disperata, stanca, che dovevo far pena da lontano.

 

 Stavo pensando… ancora non vi ho detto come mi chiamo. Sono Lauri Koivun Onnea. Mia madre, quando ero piccolo, soleva raccontarmi una storia sul mio doppio cognome, che assunsi però solo dopo la separazione forzata dei miei. Letteralmente significherebbe “fortuna della betulla”, e a dire il vero oltre a suonare male non ricorda nulla in particolare.

 Mentre mi rimboccava le coperte, Jonsu mi cantava di un albero cresciuto all’interno di un fitto bosco. Si trattava di una piccola e fragile betulla, soffocata dalle possenti vicine querce. Il legno di betulla, si sa, è molto pregiato, e un giorno un boscaiolo si recò nel bosco per procurarsene un po’. Arrivato dove sorgeva la nostra betulla, però, rimase affascinato dalle querce che l’attorniavano, e desistette dal suo obiettivo primario. Prese a tagliare con foga i rami degli altri alberi, e ad ogni colpo la betulla si scuoteva, tremava, temendo segretamente l’arrivo del suo turno. Ma ciò non accadde.

 Il boscaiolo, contento del ricavato, caricò la legna sulla sua slitta e tornò a casa. La betulla, un po’ nascosta e salvata dal pregio delle sue vicine, era passata incolume alla sortita del boscaiolo, e potette godere ancora della calma del bosco.

 Mia madre fa di cognome Onnea, mentre mio padre Koivu. Lei mi raccontava di essere stata una piccola fortuna, uno sprizzo di lucente gioia nella vita lugubre di mio padre, che fino allora aveva vissuto subissato dal lavoro. L’aveva salvato in più occasioni, quando pensieri cupi si affacciavano alla sua mente, e tutto il carico degli anni appesantiva le sue membra. O almeno fu così finché fra loro ci fu amore.

 Da allora sono sempre stato scettico sui rapporti. Sarà che la sofferenza di Jonsu mi ha insegnato a tastare il terreno prima di procedere, o semplicemente non voglio ricadere in errori simili, ma ho sempre creduto che l’amore non fosse cosa per me. Seppure suoni di ciò che potrebbe definirsi romantico, triste e malinconico, finora non sono caduto trappola dell’innamoramento. Finora.

 Fu allora che feci la mia prima mossa avventata. Ormai non mi davo pace: mi sembrava di star valicando, non so, i cancelli del paradiso, quando con i miei anfibi inzaccherati di fango fecero il loro ingresso al Glendora’s. avevo l’idea che quel negozio fosse mezzo abbandonato, perché ogni volta che ci passavo, a dire il vero ultimamente molto spesso, l’interno era sempre vuoto. Nemmeno un’anima viva.

 Chiudendomi la porta alle mie spalle, sentii alcune campanelle tintinnare sopra di me. Quasi contemporaneamente, un rumore di scatoloni rovesciati mi fece sobbalzare all’indietro, seguito da un gridolino acuto proveniente dal fondo del locale. Dio, una femmina.

 Mi precipitai verso il luogo da cui era venuto tutto quel trambusto. Una figura si dibatteva sotto una catasta di vestiti che era caduta da uno scaffale. “Calma, calma…” con le mani rovistai fino a scoprire la povera donna, poi le porsi una mano per aiutarla ad alzarsi. Dal mucchio di abiti intanto era emersa una ragazzina. “Oh, grazie” biascicò, tirandosi in piedi da sola. Imbarazzata, spinse con un piede le stoffe sotto lo scaffale, cercando di fare spazio. “Comunque, io sono Johanne” continuò, porgendomi la mano, visibilmente più a suo agio.

“Lauri” risposi. Non dissi altro, e in verità era già molto che fossi riuscito a dire il mio nome per intero. Ero incantato, anzi no, stregato da quella giovane. I suoi occhi erano di un azzurro ghiaccio che aveva però il potere di riscaldarmi il cuore, e dei capelli mossi del rosso del fuoco le contornavano il volto gentile.

“Cerchi qualcosa?” la sua voce riuscì a distogliermi dalle mie fantasticherie.

“No, io… entro entrato solo per dare un’occhiata.”

“Beh, se vuoi vedere qualcosa in particolare dimmelo; con tutto questo casino in due almeno potremmo scovare qualcosa.” Sorrisi appena al suo buffo modo di parlare, svelto e veloce, e al fatto che più volte aveva ripetuto la parola qualcosa.

“Ti sembrerà strano, ma mi piace quel manichino.” Feci, indicando la mia principessa. Dio, che uscita. Quel giorno avevo davvero il cervello in fumo se fui capace di dire quest’assurdità. Forse devo mangiare di più, così se non altro una circolazione più attiva mi permetterebbe di ragionare meglio.

“Il manichino?” come volevasi dimostrare, avevo fatto la figura del perfetto idiota. Johanne mi guardava stupita, con la faccia di qualcuno che spera di non aver compreso bene.

“No, niente, lascia perdere che è meglio” mi voltai, pronto ad andarmene e dire addio al Glendora’s. Ma lei mi trattenne prendendomi per mano, e mi trascinò fino al bancone della cassa. Prese il cappello di paglia e me lo mise in testa, poi mi porse uno specchietto.

“Certo, fa un po’ effemminato, ma devo dire che stai niente male” disse, trattenendo una risata. Le donne sono fantastiche quando cercano di non ridere: le guance diventano tonde per l’aria trattenuta e le gote si tingono loro di un lieve rossore, la bocca s’atteggia a una smorfia deliziosa che subito nascondono con una mano.

 Mi guardai allo specchio. “Sembro un contadino.”

 

 Forse approfittai della situazione, o forse semplicemente stavo cominciando ad affezionarmi. Passai diversi pomeriggi in compagnia di Johanne, che alle sette smontava puntuale dal suo turno al negozio. Ci facevamo un giro per le strade di Helsinki, chiacchierando un po’, magari fermandoci sulla banchina del porto o nei bar sparsi per il centro.

 Di lei apprezzavo il fatto che non faceva mai domande personali, e vista la mia condizione non potevo desiderare di meglio. Spiegare ad una ragazza che non si possiede un soldo e si vive elemosinando non è cosa facile, specie se poi le notti le passi in un ostello finanziato dal clero a cui devi la possibilità di un tetto sulla testa.

 Un giorno la vidi più allegra del solito, e io accompagnai i suoi sorrisi quando mi mostrò un paio di biglietti per l’Helldone. Cavolo, avevo sognato una vita di andarci, e ora che ne avevo l’occasione quasi non riuscivo a crederci.

 Il concerto fu fantastico, ma ancora più fantastica era lei, che saltellava a ritmo e gridava le sue canzoni preferite. Io guardavo il palco, sognando di poterci salire da protagonista, in un futuro lontano, e suonare per lei. Si susseguirono diverse band, poi una canzone, più romantica delle altre, mi fece girare la testa. Non letteralmente, certo, ma mi diede il coraggio di abbracciare Johanne mettendole un braccio attorno al collo, avvicinarla a me, baciarla sotto il suono della batteria e della sensuale voce di Ville Valo.

 

 Così passò il tempo. A volte monotono, a volte veloce come un fulmine a ciel sereno. E io cambiai con esso, un particolare a secondo, in modo da diventare un altro senza accorgermene. La mia musica mutò con me: ora non cantavo più d’amore senza conoscerlo, agguantando sensazioni dall’aria rarefatta degli amanti, ma attingevo al mio cuore per cercare le parole più dolci.

 Andai anche quel pomeriggio al Glendora’s. Nonostante la porta del locale distasse da me ancora diversi passi, mi accorsi subito che qualcosa non andava per il verso giusto. Un camioncino bianco e anonimo sostava all’entrata, e alcune scatole sigillate venivano meccanicamente caricate all’interno. Altre erano a terra, dimenticate e aperte, con un mucchio di cianfrusaglie ammucchiate a casaccio. L’insegna era già stata rimossa e non avevo idea di che fine avesse potuto fare.

 Johanne uscì dal negozio e mi salutò con una mano. “Chiudiamo,” disse “da quando è morto il vecchio proprietario non aspettavo altro. Il tempo di sbrigare alcune pratiche e svendere quel che si poteva, e ora finalmente mi libero di questo lavoro tedioso.”

“Ma… scusa, non ti dispiace perdere il posto?” ero sconcertato.

“No, dai, ne troverò subito un altro migliore. Non mi preoccupo.” Lei era così tranquilla, che quasi non riuscivo a dare spiegazione al mio comportamento. Sembravo più legato al Glendora’s di lei. “Che ne dici se vieni dentro a darmi una mano?” aggiunse.

 Io rimasi ancora un po’ fuori, ammutolito. Fra le cose da buttare vidi la mia principessa.

 Sentii un groppo salirmi alla gola. Dopo tutto questo tempo, la chiamavo ancora così. Forse era rimasta la notte fuori, perché la trovavo molto malmessa, e il cartone era umido. Le mancava un occhio, e la plastica del corpo era a tratti graffiata; uno sfregio le trapassava la guancia sinistra, rovinandole il volto. Il girasole sul polso si era spostato a rivelare un taglio da cui uscivano batuffoli di ovatta e l’imbottitura del manichino. Forse quel foro ci era sempre stato.

 Giaceva scomposta, tutta la sua eleganza svanita in uno sbuffo invernale. Mi inginocchiai per accarezzarle i capelli sintetici, tutti arruffati. La mia principessa era caduta vittima dei gatti di strada. La sua bellezza… dispersa nel vento.

 Ogni bellezza però è effimera, così come la vita umana. È il battito delle ali di una farfalla che non sa tornare indietro.

“Lauri? Ci sei?” Johanne mi guardava interrogativa, affacciata dalla porta del locale.

“Sì… arrivo.” Niente è mai perduto, se un sogno distrutto porta al concreto. C’era sempre stata una stella nel Glendora’s, ma per troppo tempo avevo guardato troppo a sinistra, aggrappandomi al suo tenue riflesso. E non avevo visto che, lì affianco, un’intera galassia non attendeva che me.

   
 
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